filosofo della complessità e dell’ossessione per la verità
Un secolo di
vita per Edgar Morin, pseudonimo di Edgar Nahoum, nato a Parigi l'8 luglio 1921, gran parte del quale speso a
soddisfare la sua curiosità sull’essere umano
-
di Luigi Maria Epicoco – Città del Vaticano
C’è un episodio
illuminante alla comprensione di Edgar Morin, il filosofo della
“complessità”, e che, come bene egli stesso ha intuito, è stato forse l’anima
nascosta di tutta la sua lunga vita e la sua opera: «La morte di mia madre,
avvenuta quando avevo solo dieci anni, è l’evento più importante della mia vita
e le sue conseguenze decisive per il mio destino. Non avevo capito che quella
morte era inseparabile dalla mia ossessione per la verità. Mio padre, infatti,
aveva cercato di nascondermi quella morte, credendo di potermi illudere
inventando tutti quegli stupidi racconti sulla sua partenza; ma io in realtà
avevo capito, sapevo dell’irreparabile sin da quando avevo visto, il giorno
stesso del funerale, le sue scarpe e il suo vestito nero. All’orrore per la
perdita dell’amore si legò allora in me, e irrevocabilmente, l’orrore per la
menzogna. Disgustato dalla pietosa e ottusa bugia di mio padre, ho finito per
nascondergli la mia stessa tristezza: non gliela ho mai mostrata, ed egli l’ha
scoperta solo quarant’anni dopo, quando l’ho evocata nel mio Diario di
California. Non ho mai preteso di possedere la verità, ma sono sempre stato
ossessionato dall’errore e dalla cecità».
Se dovessimo
trovare un terreno comune di dialogo tra Morin e il Cristianesimo, forse lo
potremmo trovare esattamente in questa “ossessione”. La passione per la Verità
crea una solidarietà umana che ci fa riconoscere tutti sulla stessa barca,
tutti con la medesima domanda. E se le risposte inevitabilmente ci
separano, la domanda però crea un legame di simpatia e mutuo rispetto. Morin,
infatti, non ha mai nascosto l’eredità ricevuta più da Spinoza che dal Vangelo
stesso: «Ho personalmente una concezione erede di Spinoza, basata sulla
capacità creatrice della natura. Credo che la creatività non nasca da un
creatore iniziale, ma da un evento iniziale». Sembra completamente assente la
figura di Gesù come figlio di Dio, recuperato invece solo in chiave meramente
orizzontale. Sembra di sentire le risposte che i discepoli danno a Gesù quando
li interroga su cosa la gente pensa di lui: «Ed essi gli risposero: “Giovanni
il Battista, altri poi Elia e altri uno dei profeti”» (Mc 8, 28). Ma anche se
manca in Morin la messa a fuoco principale su Gesù, egli non perde di vista ciò
che sta a cuore al Suo messaggio, come testimonianza che il cammino della
ragione laica condotto con lealtà conduce alle medesime priorità della ragione
credente. Ecco perché i temi cari a Morin li ritroviamo chiari anche nel
Magistero degli ultimi anni.
Ad esempio, in
occasione della pubblicazione della lettera enciclica Laudato si’ di Papa
Francesco, Morin rilasciò un’intervista al giornale francese «La Croix»
sottolineando ciò che spesso una narrazione eccessivamente veloce e
superficiale non riesce a cogliere del pensiero della Chiesa attuale:
«Francesco definisce “l’ecologia integrale”, la quale non è affatto
quell’ecologia “profonda” che pretende di convertirci al culto della Terra,
subordinando tutto il resto. Egli mostra che l’ecologia riguarda le nostre vite
in profondità, la nostra civiltà, i nostri modi d’agire, le nostre riflessioni.
Più profondamente, critica un paradigma “tecno-economico”, questo modo di
pensare che presiede tutti i nostri discorsi, rendendoli obbligatoriamente
fedeli ai postulati tecnici ed economici per risolvere ogni cosa. Questo testo
segna al contempo una presa di coscienza, un incitamento a ripensare la nostra
società e ad agire». Morin coglie ciò che molto spesso sfugge anche a noi
credenti: la parola di Papa Francesco non è una parola che si adegua a una
visione mondana della storia attuale, è invece parola che prende sul serio la
complessità del nostro esistere e ridà profondità a temi, come quelli della
cura del creato, che rischiano di diventare ideologici.
Ed è proprio a
partire dal rischio ideologico che Morin continua la sua riflessione attenta
sul pensiero del Papa, cogliendo l’invio a riscoprire un umanesimo nuovo
diverso da un antropocentrismo ateo: «Precisiamo la nozione di umanesimo —
continua Morin — la quale ha un senso doppio, come d’altronde dice Francesco
nel suo discorso, criticando una forma di antropocentrismo. Esiste in effetti
un umanesimo antropocentrista, che mette l’uomo al centro dell’universo, che
considera l’uomo come solo soggetto dell’universo. Insomma, in cui l’uomo
prende il posto di Dio. Non sono credente, ma penso che questo ruolo divino che
l’uomo talvolta si attribuisce sia assolutamente insensato. E una volta
scivolati in questo principio antropocentrista, la missione dell’uomo, molto
chiaramente formulata da Cartesio, è di conquistare e dominare la natura. Il
mondo della natura è diventato un mondo di oggetti. Il vero umanesimo consiste
al contrario nel riconoscere in ogni essere vivente al contempo un essere
simile e diverso da me». Morin ovviamente non riesce a cogliere che la
riflessione di Papa Francesco nasce proprio dalla categoria cristiana della
centralità del Cristo uomo-Dio. Solo perché Cristo è al centro della realtà, e
della realtà dell’uomo, che possiamo cogliere la verità dell’uomo nella sua
complessità e intrinseca relazionalità con se stesso, con gli altri e con il
creato. Se Morin vi giunge per sensibilità, il pensiero cristiano vi giunge
attraverso la via della fede. Ragione e fede, quindi, non sono in opposizione
ma sono davvero «le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la
contemplazione della verità» (Fides et ratio, 1).
Un altro
aspetto da sottolineare è lo sguardo escatologico di Morin sulla realtà.
Ovviamente usiamo il termine escatologico in senso lato, intendendo la capacità
di saper vedere oltre ciò che la realtà stessa mostra di se stessa.
In un tempo
come il nostro dominato da statistiche e calcoli che non lasciano molto spesso
spazio alla speranza, Morin, ci offre la fiducia in un imprevisto che sembra
essere sempre sotteso alla storia e per cui vale la pena vivere: «Non sono né
ottimista né pessimista. Se dovessi guardare con freddezza alla realtà, non
potrei nutrire speranze. Ma la storia dell’umanità ci insegna che la salvezza
si manifesta all’improvviso e inaspettatamente. Come scriveva il poeta Höldelin,
“là dove c’è il pericolo, lì sorge la salvezza”. Siamo fatti in modo che, solo
allorché cadiamo nel baratro, prendiamo coscienza della situazione. Non penso
nemmeno, con Gramsci, che si debba parlare di ottimismo della ragione e
pessimismo della volontà, perché è la ragione a mostrarci i pericoli che
corriamo. Sento che siamo in pericolo, e tutto il mio sforzo è teso a impedire
che esso ci distrugga». Ci verrebbe da dire che aveva ragione il poeta Eugenio
Montale: «Un imprevisto / è la sola speranza».
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