mercoledì 16 agosto 2023

IN DIFESA DEL VUOTO

 


 Nel giorno in cui tutti ci affanniamo per fare qualcosa di divertente che ci faccia sentire vivi e completi una riflessione sull’importanza di mantenere uno spazio interiore che non è riempito da niente: è lì che nascono i desideri e la creatività.

-         di Vito Mancuso

                                  

 Alcuni tra i più grandi filosofi hanno sostenuto che l’inizio del pensiero umano prenda origine dalla comparsa improvvisa e meravigliata nella mente di questa domanda: «Perché c’è l’essere, e non il nulla?». Così affermarono Leibniz, Schelling, Heidegger. In questa giornata di agosto, tutto solo nel mio appartamento cittadino, con le strade deserte che regalano un irreale silenzio, io sento sorgere nella mente, con altrettanta repentinità e meraviglia, quest’altra domanda: perché c’è questo vuoto dentro di me?

 Prendo così a indagare la natura di questo mio vuoto interiore, rivolgendomi a esso come se fosse una cosa viva dentro di me.

 Caro vuoto interiore, ti chiamo “vuoto”, e non “nulla”, perché tu non ti contrapponi all’essere. Il nulla è non-essere, e se c’è lui è impossibile che vi sia l’essere, come decretò Parmenide agli inizi del pensiero occidentale: «L’essere è, e non può non essere; il non essere non è, e non può essere». Tu vuoto, però, non coincidi con il nulla e significativamente i fisici per descrivere la realtà primordiale parlano di “vuoto quantistico”, e dicono che, ben lungi dall’equivalere al nulla che è privo di energia, tale vuoto quantistico possiede una sua peculiare energia e lo descrivono come “stato di energia minima”. Da esso, dicono, talora si producono delle fluttuazioni da cui emergono particelle, e che fu proprio da una fluttuazione di questo tipo che prese origine l’universo. Per cui tutto, caro vuoto, nasce da te.

 Lo stesso accade a me: quando sono pieno, non scaturisce nulla di nuovo in me, solo ripetizione dell’identico, un “eterno ritorno dell’uguale”; è quando sono vuoto, quando prendi il comando tu, che in me può nascere qualcosa di nuovo, di creativo, di inatteso, di libero. Tu, vuoto, sei la condizione della mia creatività e della mia libertà.

 Attenzione però: il più delle volte tu agisci come una specie di motore che genera una spinta verso l’interno tendente a riportare tutto a te, sei un vortice che produce un continuo risucchio, una cavità, talora una voragine, da cui promana una tensione ininterrotta. Cosa sono quindi io che ti porto nel mio centro?

 Ho peculiarità di tipo fisico come la statura eretta, la neocorteccia, il codice genetico; ne ho di tipo psichico come le emozioni, i sentimenti, le passioni; ne ho di tipo intellettivo, come l’intelligenza analitica e la ragione sintetica. Tutte queste caratteristiche, però, non sono tali da rinchiudermi in una definizione esaustiva perché vi è in me qualcosa di ancora più essenziale: ci sei tu. Presente nel mio fondo, a causa tua io risulto strutturalmente non-finito, indefinito, imprevedibile e quindi creativo. Tu fai sì che la mia peculiarità consista nella singolare possibilità di essere e, insieme, di non essere il mio corpo, i miei sentimenti, il mio intelletto. Tu mi offri la possibilità di identificarmi con le mie proprietà fondamentali oppure di prenderne le distanze, così che posso risultare unificato oppure scisso, sentirmi a casa dentro di me oppure viceversa in esilio.

 Da te, vuoto, procede la mia tensione psichica detta desiderio, generata da te per il tuo bisogno strutturale di essere riempito. Spinoza identificava l’essenza specifica degli esseri umani nel desiderio (“Cupiditas est ipsa hominis essentia”), ma è chiaro che si può dare desiderio solo perché prima si sente il bisogno di qualcosa, e se ne sente il bisogno perché se ne è privi. Quindi all’origine c’è la privazione, la mancanza; ci sei tu, caro vuoto.

 Come ho detto, tu agisci in me come un motore tendente a riportare tutto a sé, e quello che vale per me lo vedo all’opera anche nei miei simili, tutti più o meno abitati da questa tensione che non li fa stare tranquilli con se stessi. Osservava Pascal: «Ho scoperto che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene tranquilli, in una camera». Proseguiva il matematico e filosofo francese: «Non si rendono conto della natura insaziabile della loro cupidigia. Credono sinceramente di cercare il riposo, ma cercano soltanto l’agitazione. C’è in loro un istinto segreto che li porta a cercare fuori di sé la distrazione e l’occupazione».

 Tutto questo deriva da te, caro vuoto. Tu sei la trappola strutturale in cui siamo nati e con cui dobbiamo convivere fino alla morte, dopo chissà. Per questo ti voglio regalare una delle più belle definizioni di religione, opera del matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead: «Religione è ciò che l’individuo fa della propria solitudine». Solitudine è un altro nome per te, caro vuoto, e in questo senso essere religiosi, ben lungi dal professare dottrine stabilite anticamente da altri e dal partecipare a riti celebrati da altri, significa viverti come sentimento di essere alla presenza di qualcosa o qualcuno più importante di me. E significa capire ciò che afferma sant’Agostino rivolto al suo Dio all’inizio delle Confessioni: «Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

 In questa silenziosa e vuota giornata di agosto di una città deserta, riflettendo su di te, caro vuoto, ho capito che la verità di me dipende da te: da come ti tengo pulito, da come ti curo e ti proteggo da tutti i ciarlatani che continuamente mirano a riempirlo con mille seducenti, e per loro lucrose e convenienti, suggestioni. Ti devo custodire dalle erbacce che sempre tendono a insidiarsi in te come se tu fossi un giardino, anche perché tu per davvero sei il mio giardino, il terreno da cui fuoriescono i miei fiori e i miei frutti, cioè il mio pensiero e la mia volontà. Se saprò coltivarti, resistendo alla tendenza a riempirti a tutti i costi pur di non sentire il tuo risucchio, avrò ottenuto l’indipendenza spirituale. E come insegna Montaigne: «La più grande cosa del mondo è saper essere per sé».

 La partita della vita si gioca dentro di me, alle prese con te, caro vuoto. Per questo sempre Montaigne insegna: «Bisogna riservarsi un retrobottega tutto nostro, del tutto indipendente, nel quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine». Se ti manterrò pulito e terso, tu cesserai di agire come un vortice da cui proviene un continuo risucchio e diverrai il mio rifugio più sicuro. È l’insegnamento di tutte le grandi tradizioni spirituali, induismo e buddhismo, confucianesimo e taoismo, ebraismo, cristianesimo e islam, e ovviamente della grande filosofia classica sintetizzata così da Marco Aurelio rivolto a se stesso: «Ricordati che il tuo principio direttivo diventa invincibile quando, rinserrato in se stesso, si contenta di sé e non fa niente che non voglia. La mente libera da passioni è una fortezza: l’essere umano non ha niente di più forte dove rifugiarsi ed essere sempre inespugnabile».

 Acquisire la pratica di convivere con te significa imparare a stare fermo sul mio abisso, a guardare il cratere del mio vulcano interiore, a stare in ascolto, a zittire la mente, a udire il suono del mio silenzio. È questo il lavoro giusto da fare. A partire da questa giornata di agosto, con le strade deserte che quasi sorridono per il loro surreale silenzio.

 La Stampa

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