giovedì 12 gennaio 2023

UN FUTURO PER LA CHIESA

 *CRISI E FUTURO DELLA CHIESA*

- di Antonio Spadaro


 La Chiesa ha futuro? Qual è il rapporto della Chiesa con il passare del tempo, cioè con la sua storia?

Il rischio di andare a «sbattere» nel rispondere a queste domande è elevatissimo. Sia di sbattere contro una visione meramente sociologica sia di sbattere contro un’analisi puramente e astrattamente ideo-teologica, cioè l’ideologia della «giovinezza» della Chiesa o delle sue «magnifiche sorti e progressive» in tempo di crisi.

«L’ideologia», ha avvertito una volta papa Francesco, «non convoca. Nelle ideologie non c’è Gesù. Gesù è tenerezza, amore, mitezza, e le ideologie, di ogni segno, sono sempre rigide». L’ideologia è rigida, anche quella della giovinezza perenne.

Ad alcuni sembra che il nostro mondo stia cessando di essere cristiano: come facciamo a parlare di giovinezza della Chiesa? L’insignificanza sembra la condanna, e parliamo di futuro? Ci dibattiamo spesso tra tradizionalismo e modernizzazione, ma non ne usciamo.

E, certo, uno dei problemi gravi della Chiesa d’oggi è quel che il Papa, con un neologismo, ha definito più volte «indietrismo», una «moda» che porta non ad «attingere dalle radici per andare avanti», ma a fare un «indietrismo che ci fa setta, che ti chiude, che ti toglie gli orizzonti» e ti fa custode «delle tradizioni morte».

La vera domanda è: se il Vangelo non fosse proclamato, mancherebbe qualcosa di essenziale alla vita umana?

Siamo capaci di pensare il futuro?

Tra il 1945 e il 1946 lo scrittore svedese Stig Dagerman pubblicava i suoi primi romanzi. È tutta da leggere una sua magnifica riflessione, nella quale egli dice, tra l’altro: «Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto» [1].

L’impossibilità della «consolazione» (tröst, in svedese) inchioda Dagerman al timore che la propria vita sia solo «un vagare insensato verso una morte certa». Non può essere un uomo felice, dunque. C’è un bisogno di consolazione che non può – giustamente – essere soddisfatto dalla pura proiezione calcolante dei dati del già vissuto. Ecco il punto, ecco perché questa lettura è utile alla riflessione: manca il futuro. Dagerman non può pensare il futuro.

L’incapacità di pensare la speranza radica e fissa il varco di uscita dalla disperazione in un assoluto presente che diventa assenza di tempo (e dunque anche di futuro), perché il tempo «tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita», scrive Dagerman.

Ecco le sue parole: «Tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza –, tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita» [2].

Si tratta di una riflessione straordinaria. L’intuizione del meraviglioso, la sfida dell’eterno non entrano nel tempo, non diventano pensiero del futuro. Ed è straordinaria anche perché risponde alla domanda implicita: che cos’è il meraviglioso? Per Dagerman, è «l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza». Tutte situazioni che generano futuro perché sono «eventi», promesse di futuro, come lo possono essere solo il brivido e la carezza.

Per Dagerman, queste situazioni «meravigliose» si radicano in un hic et nunc che non ammette altro se non l’ustione, la bruciatura, il contatto diretto istantaneo, l’assoluto presente. Egli scrive: «Non è vero che un bambino che si è bruciato sta lontano dal fuoco. È attirato dal fuoco come una falena dalla luce. Sa che se si avvicina si brucerà di nuovo. E ciononostante si avvicina». Anzi, nell’esperienza dell’ustione c’è anche una forza di verità che purifica: «Dobbiamo benedire i vulcani, ringraziarli della loro luce e del loro fuoco. Dobbiamo ringraziarli di averci accecato, perché solo chi è stato accecato può vedere davvero» [3]. Visione è accecamento, ustione, non generazione.

L’esperienza di Dagerman è l’urlo di una disperazione che ha provato l’esperienza della grazia e della meraviglia, ma senza credere che questa sia possibile come storia, come futuro aperto. È un totale presente fuori dal tempo, che lascia nel buio e senza grazia il pensiero del tempo che scorre e supera l’istante.

Qui si intravede una risposta alla domanda sulla giovinezza della Chiesa e sul suo futuro: tenere viva la convinzione che l’esperienza della grazia e della meraviglia sia possibile come storia, come futuro. La speranza sfida il nichilismo.

Il messaggio del Vangelo sfugge di mano

Il tempo della Chiesa è il futuro, l’avvenire. Nel momento in cui passato e presente dominano senza l’orizzonte del futuro, il messaggio evangelico diventa merce da vendere, si mercifica. Anche la tradizione diventa merce. Un commercio alto, sia beninteso: di valori e idee, ma pur sempre commercio. Il messaggio del Vangelo è indisponibile, non è commerciabile, «a portata di mano», utilizzabile. Sfugge di mano, sfugge a qualunque organizzazione, a qualunque forma di propaganda manipolativa. Il Vangelo si proietta in un futuro ignoto, nell’avvenire.

Papa Francesco, in un suo Messaggio rivolto alle Pontificie Opere Missionarie nel 2020, a proposito dei discepoli che seguivano Cristo, scrive: «Egli sta per dare inizio al compimento del suo Regno, e loro si perdono ancora dietro alle proprie congetture». Oggi come allora: siamo persi tra le congetture, come se fossimo noi a dover «organizzare la conversione del mondo al cristianesimo», scriveva il Papa, o la stessa vita dello spirito. Se la Chiesa non è una mera organizzazione, allora il sacerdos non può ridursi a un burocrate dello spirito o «funzionario della missione» che commercia salvezza predicando valori [4].

«Abitare nella possibilità»

L’apertura allo Spirito vive della pensabilità del futuro. Se non si è capaci di pensare un dopo, un domani, qualcosa che deve ancora accadere, allora è impossibile parlare di generazione del futuro. Appare ovvio pensare al passato che è già compiuto, e al presente che si svolge mentre lo pensiamo. E tuttavia per generare futuro – e dunque sperare – è necessario immaginare, proiettarci in un futuro possibile, riflettere su ciò che non vediamo con i nostri occhi né tocchiamo con le nostre mani.

Ricordiamo che la classicità viveva la propria storia nel senso della ciclicità e dell’eterno ritorno. Il cerchio, infatti, è simbolo della compiutezza e della perfezione. I classici, sospettosi sulle utopie e sul futuro, avevano ancorato la loro identità alle origini e al passato. Essi avevano idealizzato il passato, avevano il mito delle origini. E avevano assolutizzato il presente: carpe diem! Vivi il presente, l’hic et nunc. Al classico manca il futuro e, dunque, manca la speranza, che Seneca intende come dulce malum, un incantesimo, perché proietta la vita in un avvenire che non è certo. La classicità aveva bisogno di sicurezza, di stabilità. La speranza – potremmo dire – nasce davvero con il cristianesimo.

Dunque, non è affatto ovvio parlare di futuro e di speranza. Per parlare di futuro della Chiesa, allora, è necessaria un’apertura all’incertezza. Certo, però, c’è chi pensa che il futuro sia una deduzione: date alcune condizioni, si può dedurre qualcosa di quel che accadrà. Ma questo non ha nulla a che vedere con ciò che i cristiani chiamano speranza. Il futuro affidato alla statistica non apre alla speranza, ma al calcolo delle probabilità, al pensiero calcolante, capace di fare previsioni più o meno attendibili. Il futuro (anche quello della Chiesa) sarebbe così la logica prosecuzione del presente sulla base del passato. Non c’è salto, non c’è scarto, non c’è abisso, non c’è desiderio, non c’è inquietudine, non c’è rivoluzione.

La speranza della Chiesa invece è immersione in una storia che ci arriva, dentro la quale siamo chiamati, senza essere prodotto dei nostri calcoli, e tanto meno di «piani pastorali» realizzati da «operatori». Se si ha questa attitudine alla fede, allora le porte della speranza possono aprirsi. È possibile generare futuro, «abitare nella possibilità», come scrive Emily Dickinson in un suo splendido verso: I dwell in possibility. Non si tratta di credere nella probabilità, ma nella possibilità, cioè nella possibilità di fare esperienza non legata ai limiti di ciò che è statisticamente probabile. La speranza è il territorio del possibile, che va ben al di là del campo della probabilità. È il territorio della grazia, l’unica possibilità di «giovinezza» della Chiesa. Essa implica l’incertezza, l’indeterminazione. Non l’ordine, la codificazione, il solido, ma l’informe, il diveniente, ciò che non è ancora solidificato e definito.

C’è un abisso da superare, dunque, per vivere la speranza. C’è bisogno di una fede. Il suo campo non è quello del calcolo o dell’algoritmo, ma quello della gratia gratis data. L’abisso è quello della fiducia nella possibilità di una storia futura che non conosciamo e che non è deducibile dal presente e dal passato come fosse una logica conclusione, una storia che è «altro» rispetto a noi e ai nostri noti limiti. In questo senso il futuro non è la combinatoria delle nostre attese e delle nostre aspettative. Sarebbe un abbaglio far risiedere la speranza nella pura proiezione combinatoria dei nostri desideri. La speranza è il non ancora conosciuto, che è capace di sorprenderci, traboccante. Il motore della speranza è, in definitiva, il timore di non ricevere ciò che si attende, dunque il dubbio, l’incertezza, la precarietà inquieta.

L’inquietudine del pensiero aperto: tra utopia e maturità

Per questo Francesco parla spesso di «sana inquietudine», che è la vera disposizione d’animo della giovinezza. Perché pensa il futuro, l’inaudito, l’imprevedibile. Ed ecco la definizione-chiave che papa Francesco fornisce del gesuita (e dunque di sé) nell’intervista che gli fece nel 2013 per La Civiltà Cattolica: «Il gesuita deve essere una persona dal pensiero incompleto». E ancora: «Il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro» [5]. Ma – come disse in una lettera ai sacerdoti del 2007, quando era arcivescovo di Buenos Aires – bisogna stare attenti a che l’orizzonte non si avvicini a tal punto da diventare un recinto [6]. L’orizzonte deve essere realmente aperto. E a questa apertura corrisponde un «pensiero incompleto», un «pensiero aperto». Ha chiesto una volta Francesco: «Mi lascio “scardinare dentro” dal paradosso?». Si riferiva alla forza delle Beatitudini, e possiamo riferire la domanda anche al Vangelo nella sua interezza. L’alternativa è di rimanere «nel perimetro delle mie idee» [7].

«Dio è creativo, non è chiuso, e per questo non è mai rigido. Dio non è rigido!» [8], ha detto Francesco in un suo discorso ai catechisti. Così la nostra vita non deve irrigidirsi. L’esistenza umana non è una partitura già scritta, un «libretto d’opera», dice Bergoglio. C’è una dimensione di incertezza, di incompletezza che è parte integrante di una vita di fede, che è – come Francesco disse nell’intervista a La Civiltà Cattolica – «avventura», «ricerca», apertura di nuovi spazi a Dio. E questo genera «sana inquietudine».

Bergoglio ama la posizione esistenziale di Agostino. Nella Messa per l’inizio del Capitolo generale dell’Ordine di sant’Agostino, nell’agosto del 2013, aveva parlato della «pace dell’inquietudine».

Educare, non adattare

Da questa visione consegue una visione della maturità che non coincide più con l’adattamento. Il tema è davvero importante per un educatore. «Lo stesso Gesù – aerma provocatoriamente Bergoglio – per molte persone del suo tempo sarebbe potuto rientrare nel paradigma dei disadattati e quindi immaturi» [9]. Ma, senza cadere nell’elogio dell’anarchia, argomenta: «Se la maturità fosse un puro e semplice adattamento, la finalità del nostro compito educativo consisterebbe nell’“adattare” i ragazzi, queste “creature anarchiche”, alle buone norme della società, di qualunque genere siano. A quale costo? A costo della censura e dell’assoggettamento della soggettività, o peggio ancora a spese della privazione di ciò che è più proprio e sacro della persona: la sua libertà» [10].

Prosegue Bergoglio: «Un ragazzo “inquieto” […] è un ragazzo sensibile agli stimoli del mondo e della società, uno che si apre alle crisi a cui va sottoponendolo la vita, uno che si ribella contro i limiti ma, d’altra parte, li reclama e li accetta (non senza dolore), se sono giusti. Un ragazzo non conformista verso i cliché culturali che gli propone la società mondana; un ragazzo che vuole imparare a discutere». Dunque, occorre «leggere» questa inquietudine e valorizzarla, perché tutti i sistemi che cercano di «acquietare» l’uomo sono perniciosi: conducono, in un modo o nell’altro, al «quietismo esistenziale» [11]. Nell’inquietudine si genera futuro.

Oggi invece avvertiamo una tentazione forte – a volte anche nella Chiesa –, quella di «serrare le fila». Si avverte la tentazione di opporre al caos percepito la risposta di un cattolicesimo intransigente e identitario. Noi oggi riconosciamo che una «civiltà cattolica» non è una bolla chiusa in sé stessa, né alimenta rancori nei confronti di un mondo che ad alcuni sembra ormai perso e alla deriva, abbandonato da Dio. La civiltà cattolica non è quella costruita sull’intransigenza dei puri, che uccide lo spirito. La tentazione identitaria è la necrosi del cristianesimo.

In questo senso, Bergoglio non rifiuta l’«utopia» come mera astrazione. Al contrario, riconosce la sua carica positiva e la sua valenza politica; aerma: «Le utopie sono in primo luogo frutto dell’immaginazione, proiezioni nel futuro di una costellazione di desideri e aspirazioni» [12]. L’utopia prende forza dall’insoddisfazione e dal malessere generati dalla realtà attuale, ma anche dalla convinzione che è possibile un mondo diverso. Non è pura evasione, ma una forma che la speranza assume in una concreta situazione storica e che si accompagna a una ricerca concreta di nuove strade. Qui c’è un compito radicale: ricostruire l’immaginario della fede e della convivenza umana in una società che cambia, dove i riferimenti simbolici e culturali non sono più quelli di una volta.

Se non c’è il senso della vertigine, se non si sperimenta il terremoto, se non c’è il dubbio metodico – non quello scettico –, la percezione della sorpresa scomoda, allora forse non c’è esperienza di Chiesa. Se lo Spirito Santo è in azione – ha affermato una volta Francesco –, allora «dà un calcio al tavolo» [13]. L’immagine è felice, perché è un implicito riferimento a Mt 21,12, quando Gesù «rovesciò i tavoli» dei mercanti del tempio.

Il tempo della sospensione

Non sentiamo oggi il bisogno di un «calcio» dello Spirito, se non altro per svegliarci dal torpore? I mercanti sono sempre nei pressi del tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti si vantano di essere «al servizio» del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geolocalizzano la presenza di Dio, che è «qui» e non «lì». O futuro o merce. O possibilità o commercio.

Pensiamo al processo ecclesiale del Sinodo sulla sinodalità. Colpisce, ad esempio, quanto ha detto il Relatore generale, il card. Jean-Claude Hollerich, nel suo saluto, il 9 ottobre 2021, durante l’inaugurazione: «Devo confessare che non ho ancora idea del tipo di strumento di lavoro che scriverò. Le pagine sono vuote, sta a voi riempirle». Occorre vivere il tempo sinodale con pazienza e attesa, aprendo bene occhi e orecchie. «Effatà, cioè: “Apriti!”» (Mc 7,34) è la parola chiave del futuro. «Non ho ancora idea…». Quanto futuro c’è in queste parole! Non è indeterminatezza, ma attesa, tensione, ascolto, consapevolezza del futuro. Occorre sopportare la sospensione, evitando che la nostra progettualità sul futuro diventi un attivismo pelagiano pettegolo o un’operazione pastorale segnata dal carisma della frenesia. Che la sospensione sia la forma della Chiesa del futuro? Certo che è, almeno escatologicamente, così. Una sospensione inquieta.

«Disinstallarsi»

Una forma dell’inquietudine sana è stata definita da Francesco con un verbo usato in un messaggio ai giovani delle Antille: disinstallare [14]. Alla lettera: «disinstallarsi». In italiano è stato tradotto ufficialmente con «lasciare la situazione di essere sistemati». Traduzione utile, ma arzigogolata. Ecco le sue parole in spagnolo: «Si están instalados la cosa no va. Tienen que desinstalarse los que están instalados, y empezar a luchar». Francesco chiede di «disinstallarsi».

Evocando la disinstallazione, Bergoglio fa leva su un principio ignaziano che guida il suo ministero petrino in modo particolare: la mobilità. Essa è diametralmente e carismaticamente opposta e complementare al criterio della stabilitas benedettina. Benedetto fonda monasteri e stabilizza i monaci, di modo che poi i monasteri diventino centri di irradiazione. Ignazio invia in missione, vuole che i gesuiti professi vivano non in collegi, ma in stationes.

Se la Chiesa fosse appiattita su questa dimensione spaziale, se lo spazio fosse il suo criterio fondamentale, essa diventerebbe solo una forma del potere come le altre. Certo che la Chiesa esercita un «potere», e certo che lo ha fatto nel bene e nel male. Ma il discorso non finisce qui. Se così fosse, la Chiesa sarebbe già morta e sepolta; come tutti gli imperi, del resto. Fa comodo pensarla così, perché questo ci lascia tranquilli. Ma non è così. La giovinezza della Chiesa non sta lì.

Con Francesco, san Paolo è salito sul soglio di Pietro in un momento in cui la Chiesa vive in una grande Corinto, in una Roma imperiale, quella descritta da Pasolini e da lui identificata con la città di New York [15]. Così Francesco ha elevato in modo sanamente inquietante la tensione tra spirito e istituzione. Ha scritto che la Chiesa è «popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (Evangelii gaudium, n. 111).

Per questo Francesco rifiuta radicalmente l’idea dell’attuazione del regno di Dio sulla Terra, che era stata alla base del Sacro Romano Impero e di tutte le forme politiche e istituzionali similari, fino alla dimensione del «partito». Il motto «In hoc signo vinces» di Costantino e quello «In God we trust» che leggiamo sul dollaro statunitense sono, in un modo o nell’altro, sempre a rischio di idolatria. Ricordiamo con angoscia il «Gott mit uns». La teologia cristiana della storia non ha nulla a che fare con le escatologie intramondane che promettono il paradiso in terra, facendo della terra un inferno. La Chiesa è chiamata a desacralizzare le ideologie secolari, ma anche i tentativi di ideologizzare il cristianesimo. Immaginare la ecclesia triumphans su questa Terra trasforma la faith in fight, la fede in lotta. Purtroppo, le dinamiche della guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia non sono aliene da questa tentazione.

Il «popolo eletto», una volta diventato «impero» o «partito», entra in un intricato intreccio di dimensioni religiose e politiche capace di fargli perdere la consapevolezza del suo essere a servizio del mondo, contrapponendolo a chi è lontano, a chi non gli appartiene, cioè al «nemico» istituzionalizzato come tale. Lo muovono alla conquista o alla colonizzazione. Il futuro sarebbe ipotecato, la giovinezza defunta. E invece il tempo futuro della Chiesa è la suspense.

Anche la logica dell’annuncio evangelico non è espansionista o neocoloniale. Francesco ama le Chiese dello «zero virgola», che però sono semi per la Chiesa universale: dall’asiatica Chiesa in Bangladesh a quella in Mongolia; dall’europea Chiesa in Svezia a quella in Estonia. Non si tratta di un esotismo: è la forza di un processo di fecondazione. «C’è una grazia nascosta nell’essere una Chiesa piccola, un piccolo gregge», ha detto Francesco in Kazakistan. Essa consiste nella percezione di non essere «autosufficiente» e di essere invece «una comunità aperta al futuro di Dio, accesa dal fuoco dello Spirito: viva, speranzosa, disponibile alle sue novità e ai segni dei tempi, animata dalla logica evangelica del seme che porta frutto nell’amore umile e fecondo». Questa è per lui la «Chiesa del futuro»: essere «come lievito nella pasta e come il più piccolo dei semi gettato nella terra», abitare «le vicende liete e tristi della società in cui viviamo, per servirla dal di dentro» [16].

Il discernimento consiste nel capire dove sono i semi per tutti, della Chiesa universale. È l’operazione coloniale al contrario: la «disinstallazione». Quindi, il tempo del processo, della crescita è più importante dello spazio, il seme inteso come totipotenza di futuro più degli alberi e dei rami. Conta il tempo.

Il ritmo della Chiesa

Tuttavia, è importante non solamente il tempo, ma anche il ritmo. Il ritmo della Chiesa non è quello della sinfonia, ma piuttosto quello che evocavamo all’inizio come ritmo del ragionamento che stiamo sviluppando: quello della jam session di un concerto jazz. Questo genere vede confluire tradizioni musicali disparate ed è caratterizzato dall’improvvisazione e dalla poliritmia. Espressione caratteristica sono le riunioni di musicisti che si ritrovano per una performance senza aver nulla di preordinato, improvvisando su griglie di accordi e temi conosciuti. Queste sono situazioni «geniali», dove la sfida consiste proprio nel dare una forma non preordinata a partire da un caos di suoni.

Ecco, non si deve immaginare la Chiesa come una costruzione di mattoncini Lego diversi che si incastrano tutti al punto giusto, secondo debite proporzioni. Sarebbe, questa, un’immagine meccanica della comunione ecclesiale. Potremmo meglio pensarla appunto come una relazione sinfonica, di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa nel momento. Questo è il ritmo del futuro: il jazz.

Facciamo riferimento a un’esperienza concreta: chi ha seguito le Assemblee del Sinodo dei vescovi degli ultimi anni si è certamente reso conto di quanto sia emersa la sonora diversità che plasma la vita della Chiesa cattolica. Se un tempo una certa latinitas o romanitas costituiva e modellava la formazione dei vescovi – i quali, fra l’altro, capivano almeno un po’ di italiano –, oggi emerge con forza la diversità a ogni livello: mentalità, lingua, approccio alle questioni. E ciò, lungi dall’essere un problema, è una risorsa, perché la comunione ecclesiale si realizza attraverso la vita reale dei popoli e delle culture. In un mondo frammentato come il nostro, è una profezia. Per questo c’è bisogno di grande ascolto delle comunità ecclesiali nel confronto e nel dibattito sulle esperienze: è sulle esperienze che si può fare discernimento, e non sulle idee. È lo Spirito Santo che origina la jam session della Chiesa, il ritmo della sua giovinezza.

A che punto del nostro ragionamento siamo arrivati? Abbiamo cercato fin qui di indicare come la giovinezza della Chiesa stia nella pensabilità del futuro, nell’apertura a un futuro che non sia semplice deduzione dai dati del passato, ma apertura al possibile (non al probabile), che genera una «sana inquietudine». La postura dell’anima è quella del «disinstallarsi» dalle coordinate «coloniali» dello spazio e del potere, che renderebbero il cristianesimo una cosa, una merce da vendere. Lo spazio della Chiesa è quello del seme. Da qui l’interesse di Pietro, del Papa, per le realtà meno stabilite, le realtà dello «zero virgola». L’ascolto di queste realtà periferiche o marginali produce nella Chiesa un ambiente sonoro che – se vissuto nella comunione – è quello di una jam session, dove il direttore d’orchestra non può che essere lo Spirito Santo.

Il futuro viene dal passato

Ma è il momento di fare un passo ulteriore, approfondendo il rapporto tra futuro e passato. Il futuro non è mai astratto: non può esserlo. Siamo noi stessi che speriamo! E noi siamo ciò che già siamo stati e siamo. Il futuro ci viene incontro con le forme delle nostre tensioni presenti. Il futuro viene dal passato, così la sua pensabilità. Siamo in grado di desiderare, perché siamo quel che siamo, così come la nostra vita ci ha plasmati. Non nel senso che il futuro prende le forme ormai vuote del passato, ma al contrario: il futuro risucchia in sé il passato. Nel futuro, infatti, possiamo in qualche modo recuperare ciò che è stato, integrandolo, risanandolo. Nel presente la memoria del passato acquisisce un senso imprevisto nella sua direzione.

Quante volte un’esperienza nuova ci fa vedere un’esperienza del passato sotto un’altra luce? Quante volte capita di comprendere ciò che è accaduto nella nostra vita in una prospettiva differente? E quindi di cambiarne il senso e il valore?

Possiamo descrivere il cammino del futuro in riferimento al tempo vissuto. La domanda sarebbe: come rimettere in movimento e cambiare un passato che non c’è più? Come supplire a una mancanza di amore, di educazione, di successo che fin dall’infanzia possono essere stati negati? Come disfare i nostri modi e recuperare il tempo perduto? Come convertire il passato? Conversione è dare nuovo senso all’esperienza vissuta. La conversione non è pura apertura al futuro, cambiamento di mentalità rivolto alla vita che si farà. Conversione è innanzitutto metanoia del nostro passato, far entrare Cristo che viene nei codici della nostra vita vissuta, per vedere quanto egli fosse già presente da sempre in illo tempore, «in quel tempo». Una delle esperienze più belle dell’amore, ad esempio, è vedere come lo sguardo della persona amata (o almeno le sue tracce) era presente – anche solamente nella forma del desiderio – nella vita passata.

La linea del senso

Il processo temporale descritto nella fisica classica si compone in un movimento di passato-presente-futuro. Nella dinamica della speranza, la direzione della linea del tempo non è quella fisica, ma quella del senso, che non lega il futuro al presente e questo al passato in una direzione univoca, ma piuttosto lega il futuro al passato.

È un problema che emerge con particolare urgenza, ad esempio, nella psicoanalisi: se non fosse così, la verità dell’interpretazione analitica e l’efficacia della psicoanalisi nella sua azione sarebbero irrimediabilmente compromesse. La memoria non va considerata come una trascrizione immutabile. Se il passato determina il presente, è perché a sua volta esso è ripreso e quindi rimodellato dal presente.

È possibile una «conversione» in profondità solamente se il passato non è già determinato e non è sottratto interamente alla possibilità di azione. Il passato deve rimanere aperto. Questa è la «giovinezza». Non una condizione passeggera e transeunte, né una nostalgia da rincorrere goffamente e senza speranza come su un tapis roulant. La giovinezza consiste nel non sigillare il passato, nel lasciarlo aperto alle interpretazioni (e al loro conflitto). Perché? Perché la memoria dell’esperienza vissuta nel passato acquisisce nel presente un senso imprevisto, ma attuale ed efficace, nella direzione di un’attesa di futuro. La religione è anche un re-legere, una rilettura, un ripensamento del vissuto.

Così si può agire sul passato in vista di un futuro. È il filo del desiderio che conduce questa retroazione, che è soprattutto anticipazione di un futuro diverso. Non possiamo lasciare indietro noi stessi come memoria, perché così non lasceremmo indietro solo il nostro passato, ma anche il nostro presente e il nostro futuro. Ciò che verrà modifica continuamente la nostra memoria, addirittura ne seleziona i contenuti.

Abitare nella possibilità

Vivere è davvero «abitare nella possibilità», come scriveva Dickinson. I dwell in possibility. Per il credente la vita è apertura alla possibilità, la quale non dipende dalle sue sole forze. Essa, infatti, come scrive san Paolo, è «criptata» in Dio (cfr Col 3,3). L’uomo spirituale non ritiene di sapere quale sia il suo destino, ma sa che Dio – e solamente Lui – ne ha la chiave. Anche gli eventi più contraddittori o negativi del passato hanno una loro comprensibilità in una password che è conosciuta solamente da Dio. Il credente sa che la sua vita è protetta da questa password. Sa inoltre che lo attende una «decifrazione» del suo destino. La giovinezza della Chiesa è protetta da questa password, è criptata in Dio, preservata da operazioni volontariste e pelagiane.

Una Chiesa che non si separa dalla vita

C’è un episodio del Vangelo dove questa esperienza di décryptage si dispiega. È quello dei discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). L’episodio ci aiuta a riflettere su questo abitare nella possibilità. I discepoli vanno verso Emmaus, desolati, come Dagerman. Non vedono futuro e tornano indietro. Incontrano però un uomo che illumina il passato che avevano vissuto e li proietta verso il futuro. Converte l’esperienza fatta, svelandola: «Non ci ardeva il cuore?», riconoscono, riferendosi a quando Gesù spiegava loro il senso di quel che avevano vissuto.

Papa Francesco ha spesso fatto riferimento a questi due discepoli come modello per la Chiesa che ha un futuro. I due discepoli scappano da Gerusalemme, scandalizzati dal fallimento del Messia nel quale avevano sperato. Qui possiamo leggere il mistero difficile della gente che lascia la Chiesa, che ritiene che ormai essa non possa offrire più qualcosa di significativo e importante.

Di fronte a questa situazione, che cosa fare, dunque? Quale Chiesa «servirebbe» gli uomini di oggi che sono come i due discepoli di Emmaus? Papa Francesco descrive ad ampie pennellate la Chiesa del futuro: «Serve una Chiesa in grado di far compagnia, di andare al di là del semplice ascolto; una Chiesa che accompagna il cammino mettendosi in cammino con la gente; una Chiesa capace di decifrare la notte contenuta nella fuga di tanti fratelli e sorelle da Gerusalemme; una Chiesa che si renda conto di come le ragioni per le quali c’è gente che si allontana contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno, ma è necessario saper leggere il tutto con coraggio. Gesù diede calore al cuore dei discepoli di Emmaus»[17].

È da notare una cosa: la fiducia nel riconoscere con fine discernimento, in maniera acuta e forse imprevedibile, che le ragioni per le quali la gente si allontana dalla Chiesa «contengono già in se stesse anche le ragioni per un possibile ritorno». Qui il Papa vuol dire che bisogna dare credito anche alle tentazioni centrifughe, quelle che spingono a lasciare la Chiesa, che possono contenere un desiderio di autenticità che va preservato, custodito e che resta importante per una vita cristiana consapevole e piena.

Quale il senso di questo atteggiamento, così aperto da saper trovare – sub contraria specie – in ciò che spinge ad abbandonare la Chiesa una autenticità che poi può portare a un ritorno? Il senso è il discernimento, che consiste nel saper leggere le tracce del vissuto, del passato, per cambiarne il significato, scoprendo le orme della grazia. Si tratta di «decifrare la notte», dice Francesco. Ed è quello che fa Gesù con i suoi discepoli.

Allora la condizione di spirito di una Chiesa aperta al futuro è quella che predica un Vangelo capace di convertire il passato, di cambiare il senso di ciò che è stato, che non teme la contraddizione, la crisi, e anzi vi si avventura alla ricerca delle tracce di Dio.

Una Chiesa in cammino

Il futuro della Chiesa, in questo senso, vive non solamente come apertura al futuro, suspense, inquietudine, ritmo delle diversità armoniche, ma anche come riconciliazione piena con tutte le dinamiche dell’umano, incluse quelle centrifughe rispetto alla Chiesa stessa. Soltanto nell’eschaton appariranno in tutta la loro pienezza l’unità, la santità, la cattolicità e l’apostolicità della Chiesa. La Chiesa non è una societas perfecta parallela a quella umana, civile. Non è un «mondo a sé». È popolo fedele di Dio in cammino, communio viatorum. La sua giovinezza e il suo futuro consistono nel riconoscere dove il Signore è già presente nel mondo, capire dove si è fatto trovare e dove si trova: ora incoraggiando, ora chiamando a conversione. Occorre rileggere il vissuto del mondo alla luce della Provvidenza e della Grazia, riconoscere i semina Verbi, senza mai cadere nelle tentazioni della desolazione e della solitudine.

Abbiamo delineato una Chiesa inquieta, instabile, «disinstallata», diciamo così, che però, alla luce della tensione verso il regno di Dio e grazie al Vangelo, sa dare un senso alle vicende umane. Così scopriremo vere le parole che Julien Green vergava nel suo Diario: «Credo che siamo tutti in cammino verso il cristianesimo, ed è all’incirca tutto quello che possiamo dire».

 [1].     S. Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Milano, Iperborea, 1991, 17.

[2].     Ivi, 24.

[3].     Id., Bambino bruciato, ivi, 2001, 285.

 [4].     Cfr A. Spadaro, «“Rompete tutti gli specchi di casa!”. Papa Francesco scrive alle Pontificie Opere Missionarie», in Civ. Catt. 2020 II 471-479.

[5]  .   Id., «Intervista a Papa Francesco», in Civ. Catt. 2013 III 449-477.

[6]  .   Cfr J. M. Bergoglio, «Lettera ai sacerdoti, ai consacrati e alle consacrate dell’arcidiocesi», 29 luglio 2007, in Id., Nei tuoi occhi è la mia parola. Omelie e discorsi di Buenos Aires 1999-2013, Milano, Rizzoli, 2018, 558.

[7].     Francesco, Angelus, 13 febbraio 2022.

[8].     Id., Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla catechesi, 27 settembre 2013.

[9].     Id., «Messaggio alle comunità educative in occasione della Messa per l’educazione», 6 aprile 2005, in Id., Nei tuoi occhi è la mia parola…, cit., 369.

[10].    Ivi.

[11].    Id., «Messaggio alle comunità educative», 23 aprile 2008, ivi, 627.

[12].    Id., «Messaggio alle comunità educative», 9 aprile 2003, ivi, 193.

 La Civiltà Cattolica

 

Nessun commento:

Posta un commento