Visualizzazione post con etichetta USA. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta USA. Mostra tutti i post

sabato 24 maggio 2025

IL RISCHIO DELL'ANTISEMITISMO


 L’antisemitismo, minaccia per la civiltà o fantasma evocato dai suoi nemici?





Giuseppe Savagnone 

Un omicidio antisemita?

«Orrore antisemita» («Corriere della Sera»); «Usa, attacco antisemita» («Repubblica»); «L’antisemitismo dell’Occidente» («L’Opinione»): «Il salto di qualità dell’antisemitismo» («Il Riformista»). All’indomani dell’atroce assassinio dei due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana a Washington – da parte di un uomo che ha gridato «Palestina libera!» – i titoli di prima pagina dei quotidiani italiani non mostrano dubbi: siamo davanti a quello che il nostro presidente del Senato, La Russa, ha definito pochi giorni fa «il dilagare dell’antisemitismo.

Su questa linea anche la dichiarazione del nostro ministro degli Esteri, Tajani: «Sono vicino allo Stato d’Israele per il tragico assassinio di due giovani dipendenti dell’ambasciata israeliana a Washington. L’antisemitismo figlio dell’odio contro gli ebrei va fermato, gli orrori del passato non possono più tornare».

Da parte sua, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha scritto: «Questi orribili omicidi, basati ovviamente sull’antisemitismo, devono finire, ora!». Trump del resto già da tempo attacca e boicotta le più importanti università americane – ultima la più antica e prestigiosa, Harvard, a cui ha addirittura vietato di accettare studenti stranieri – accusandole di avere favorito o almeno permesso le manifestazioni favorevoli alla Palestina e contrarie al governo Netanyahu, a suo avviso chiaramente antisemite.

Le accuse di Netanyahu ai governi occidentali

È questa, del resto, la tesi dello stesso Netanyahu, che ha parlato della tragedia di Washinton come di «uno spregevole assassinio antisemita» e ha accusato di esserne responsabili i governi di Francia, Regno Unito e Canada, che nei giorni scorsi, in una dichiarazione congiunta, hanno chiesto a Israele «di fermare le sue operazioni militari a Gaza e autorizzare immediatamente l’ingresso di aiuti umanitari», in base al principio che «Negare assistenza umanitaria essenziale ai civili è inaccettabile».

«L’attentato di Washington è frutto della selvaggia istigazione contro Israele», ha affermato il premier israeliano. Ancor più diretto il ministro degli Esteri, Gideon Sa’ar: «È il risultato dell’incitamento tossico contro Israele e gli ebrei in tutto il mondo: istigazione praticata anche da leader di molti Paesi, soprattutto europei. Ecco cosa succede quando i leader del mondo si arrendono alla propaganda terroristica palestinese e la servono».

In realtà, oltre a chiedere di fermare la campagna militare israeliana a Gaza e a condannare il blocco degli aiuti umanitari, nei giorni scorsi, il Regno Unito aveva anche adottato sanzioni concrete, congelando i negoziati per un accordo di libero scambio con Israele.

Anche l’Unione europea, su proposta di 17 paesi membri – tra cui tutti quelli occidentali, con l’eccezione di Italia, Germania e Austria – aveva deciso di sospendere l’attuazione del trattato di cooperazione con lo Stato ebraico firmato nel 2000, in base all’art.2, che vincola i rapporti bilaterali al rispetto dei diritti umani e dei principi democratici.

La risposta del governo israeliano è stata immediata: nella visione del ministero degli esteri, Londra è mossa da «un’ossessione antisraeliana» e da «calcoli politici interni». Quanto alla dichiarazione di Francia, Regno Unito e Canada, in risposta Netanyahu ha ribadito che Israele proseguirà le operazioni militari «fino alla vittoria totale» e ha accusato i leader di Parigi, Londra e Ottawa di «premiare l’attacco genocida del 7 ottobre contro Israele»

Il premier israeliano ha inoltre invitato i leader europei ad adottare la «visione» – proposta dal presidente americano Trump e ormai assunta ufficialmente dal governo di Tel Aviv – secondo cui la soluzione della guerra può essere solo il trasferimento “volontario” dei due milioni di palestinesi che abitano la Striscia in altri paesi (non meglio precisati), dove sicuramente potranno vivere meglio.

Opporsi a questa linea politica – è questa la tesi di Netanyahu- è una chiara dimostrazione di cedimento al clima di antisemitismo, secondo lui, sempre crescente. È la stessa logica che abbiamo visto presente nei titoli giornalistici e nelle dichiarazioni ufficiali: difendere i palestinesi è una forma, più o meno mascherata di antisemitismo.

Questo a prescindere dal modo in cui la difesa viene fatta. È evidente che ce ne sono di tragicamente distorte, come l’assassinio dei due poveri giovani dell’ambasciata israeliana. Ma anche le critiche più pacate, in quest’ottica, farebbero il gioco di chi odia gli ebrei e vuole distruggerli, perché avallerebbero la strage del 7 ottobre e preparerebbero il terreno ad ulteriori atti di violenza, come quello di Washington.

Per non essere antisemiti

Sembra proprio, a questo punto, che l’unico modo per opporsi a quella minaccia alla civiltà che certamente è l’antisemitismo sia  avallare senza riserve la guerra di Netanyahu.

Di cui, però, anche una fonte informata e autorevole, sicuramente non sospetta di essere antisemita, il quotidiano israeliano «Haaretz», ha scritto pochi giorni fa: «Non è più una guerra, ma un assalto sfrenato ai civili. In assenza di veri obiettivi militari, Israele sta conducendo un’offensiva sconsiderata contro coloro che non sono in alcun modo coinvolti nella lotta (…). Ciò che accade non è guerra, ma attacco sfrenato contro persone che non sono coinvolte in questa guerra».

E accettare per buone le affermazioni del governo di Tel Aviv secondo cui, invece, ad essere colpiti sono solo obiettivi militari, con inevitabili danni collaterali ai civili. La distruzione sistematica di abitazioni civili, moschee, chiese, scuole e, soprattutto, ospedali – in aperta violazione del diritto internazionale – sarebbe motivata dalla presenza in essi di centri di comando di Hamas.

L’ONU e tutte le associazioni umanitarie smentiscono unanimemente questa affermazione, facendo notare che Israele ha sempre rifiutato e continua a rifiutare indagini indipendenti che confermino la sua tesi, anzi impedisce ai giornalisti e agli osservatori di entrare a Gaza.

Per non dire che, quando è stato possibile, per un puro caso, avere delle prove del reale andamento delle cose, la versione israeliana è stata platealmente smentita. È il caso del massacro, il 23 marzo scorso, dei quindici operatori sanitari della Mezzaluna Rossa uccisi dall’esercito israeliano mentre si recavano a portare aiuto alla popolazione di Rafah.

Il governo di Tel Aviv aveva parlato di un errore, causato dal fatto che sia i veicoli che gli operatori non avevano segni di riconoscimento. Un video pubblicato dal New York Times ha mostrato invece, senza ombra di dubbio, che durante l’attacco le ambulanze avevano i lampeggianti in funzione e dall’autopsia dei corpi è risultato che i sanitari erano stati giustiziati, dopo essere scesi dalle ambulanze, da colpi a bruciapelo al capo e al petto.  

Su tutto questo – che ha comportato la desertificazione dell’ambiente, 50.000 morti, in maggioranza donne e bambini, più di 100.000 feriti – dall’inizio della guerra, diciotto mesi fa, i paesi occidentali non avevano mai espresso una decisa condanna, non andando oltre qualche raccomandazione al governo di Tel Aviv, perché rispettasse i diritti umani, ma continuando a fornirgli sostegno militare, politico ed economico .

A determinare una svolta sono stati due fattori. Il primo, più a monte, la rottura unilaterale da parte di Israele, a metà marzo, della tregua fatta con Hamas. A quel punto è stato chiaro che lo Stato ebraico non era disposto a passare alla seconda fase, che implicava il suo ritiro dai territori occupati e la realizzazione di una pace stabile. Come del resto ha recentemente confermato Netanyahu, dichiarando ufficialmente che Israele intende occupare a tempo indeterminato l’intera Striscia di Gaza, in accordo con l’idea del presidente americano Trump di trasferire altrove gli attuali abitanti.  

Ma il fattore più immediato del cambiamento di atteggiamento da parte dei paesi occidentali (esclusi gli Stati Uniti, l’Italia e la Germania) è stata la decisione del governo di Tel Aviv di chiudere gli accesi a Gaza, impedendo l’ingesso dei viveri, dell’acqua e dei medicinali indispensabili alla popolazione per sopravvivere.

Il blocco, in realtà era stato ampiamente praticato anche prima, ma il premier israeliano l’aveva sempre ufficialmente negato. Probabilmente incoraggiato dalla netta presa di posizione di Trump, che sembrava dargli carta bianca, non ha più avuto alcuna riserva nel presentarlo come una misura ufficiale, forse sottovalutando il fatto che usare la fame dei civili come arma è in assoluto contrasto con il diritto internazionale e i più elementari diritti umani.

A questo punto quasi tutti i governi democratici non hanno più potuto tacere e – dopo più di un anno e mezzo – sono dovuti diventare “antisemiti”.

L’ombra dell’Olocausto

Ma in questo modo non si rischia di tornare, come teme il nostro ministro Tajani (che infatti, accogliendo l’invito del governo israeliano, in questo anno e mezzo non ha mai votato a favore delle risoluzioni dell’ONU per il cessate il fuoco e ora si è dissociato dalla decisione dei 17 paesi europei di congelare gli accordi con Israele), a quegli «orrori del passato» che nell’immaginario collettivo sono associati all’Olocausto perpetrato dai nazisti? Non si fa il gioco di quell’estrema destra che ha la sua punta di diamante nel partito neonazista tedesco Alternative für Deutschland?

Per quanto sorprendente (e rigorosamente assente sulla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione), la risposta è che ormai l’obiettivo dei neonazisti e in genere della destra non sono gli ebrei, come all’inizio del secolo scorso, ma i musulmani, e che proprio Alternative für Deutschland, come si legge in Wikipedia, «sostiene apertamente lo Stato d’Israele», proprio in rapporto alla sua lotta contro i palestinesi.

E del resto già nel 2017 la vice-segretaria dell’AfD von Storchin una intervista su «The Jerusalem Report» esponeva la posizione filo-israeliana del suo partito, confrontando il nazionalismo tedesco all’ideologia sionista di Israele. E nel «Post» del 30 ottobre 2023 si leggeva che «i politici di estrema destra di Alternative für Deutschland (AfD) hanno più volte dichiarato sostegno a Israele e si sono espressi contro l’antisemitismo descrivendolo come un fenomeno dovuto all’immigrazione.

Ultimamente, nel marzo scorso, su iniziativa del ministro per gli Affari della Diaspora, Amichai Chikli, Israele ha invitato tra gli altri, a Gerusalemme, politici dei partiti di estrema destra europei – tra cui Jordan Bardella, leader del Ressemblement National e di esponenti di Vox -,  in occasione della Conferenza internazionale sulla lotta all’antisemitismo.

Chikli ha giustificato la decisione affermando che «l’antisemitismo è un problema crescente in Europa a causa dell’immigrazione musulmana» e che «i partiti di destra europei comprendono questa sfida e sono disposti ad adottare le misure necessarie per affrontarla».

Gli eredi più diretti di coloro che furono autori degli «orrori del passato» oggi sono sostenitori di altri «orrori», consumati nel presente dalle vittime di allora, trasformatesi in aguzzini. E che vengono giustificati proprio agitando il fantasma dell’antisemitismo, che indubbiamente rimane un pericolo, ma che rischia di diventare l’alibi dietro cui lo Stato ebraico (non gli ebrei!) rivendica il diritto di consumare, senza pudore, un nuovo Olocausto.

 www.tuttavia.eu

-Immagine


 

 

martedì 21 gennaio 2025

COSI' CAMBIO' IL MONDO


 TRUMP, 

GLI STATI UNITI, 

IL MONDO



- di Elena Molinari -    

Nel suo primo discorso da 47esimo presidente annuncia l'inizio di una nuova era dell'oro per l'America. Militari anti-migranti alle frontiere, stop al green deal, la bandiera Usa su Marte.

«Inizia una nuova era, l'età dell’oro dell’America comincia in questo momento».

Lo ripete due volte, Donald Trump, all’inizio e alla fine del discorso d’inaugurazione che ha celebrato la rinascita di un Paese «forte, ricco, sicuro, in crescita e in espansione territoriale, e che nessuno potrà fermare».

Il nuovo presidente ieri dal Campidoglio di Washington ha anche promesso un’epoca di unità mondiale alle spalle della «più grande civilizzazione della storia», ma la ha dipinta come una coesione di fatto obbligata, imposta da atti di aggressione e divisione da parte di un Paese ultra-militarizzato che progetterà all’esterno un potere incontrastato e all’interno una «rivoluzione del buon senso» senza alternative.

L’obiettivo è accrescere il benessere degli Stati Uniti rispetto agli altri Paesi del mondo e dei suoi cittadini allineati all’ideologia di potere rispetto a quelli che la respingeranno.

Fra i primi atti annunciati pochi minuti dopo aver giurato fedeltà alla costituzione sulla Bibbia di Lincoln, Trump ha elencato infatti l’eliminazione dello ius soli (sancito dalla stessa Costituzione), lo schieramento delle truppe al confine meridionale Usa per fermare «l’invasione di criminali e malati di mente» e l’uso degli stessi militari per combattere, per le strade delle città americane, le gang della droga.

Poi ha invocato la pena di morte per i reati capitali commessi da immigrati clandestini.

Trump ha anche promesso di «riprendersi il canale di Panama”» che gli Stati Uniti hanno restituito al Paese centroamericano nel 2000, di mettere fine alle politiche ecologiche del New deal verde (e alle quote di veicoli elettrici fissate da Joe Biden) per dichiarare una «emergenza energetica nazionale» che autorizzerà la più grande trivellazione di petrolio e gas della storia.

Questo ondata di «oro liquido» finanzierà a sua volta un’espansione dell’apparato militare americano che metterà gli Stati Uniti in condizione di «vincere come non mai».

«Oggi è il giorno della liberazione», ha affermato il neo-commander in chief davanti ai suoi ministri e a una triade di miliardari (Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg) che per la prima volta a un giuramento hanno preso posto davanti ai membri della stessa Amministrazione.

Liberazione dalle politiche di diversità, uguaglianza e inclusione, ha promesso Trump, dall’ideologia di genere, che verrà dimenticata per riaffermare l’esistenza dei soli sessi maschile e femminile, dai principi ambientalisti, dalle politiche anti-discriminazione e dall’accoglienza dei richiedenti asilo.

Il tutto senza alcun dubbio di essere sulla buona strada, perché, a detta di Trump, è quella voluta da Dio.

«La mia vita è stata salvata da Dio – ha detto riferendosi all’attentato subito l’estate scorsa – perché possa rendere l’America di nuovo grande».

Come gesti simbolici per ribadire la «grandezza americana» il 47esimo presidente Usa ha cambiato il nome del Golfo del Messico a «Golfo d’America» e quello del monte Denali (come lo ha sempre chiamato la nazione indigena Koyukon) in Alaska a monte McKinley.

E come primo atto per riaffermare l’indipendenza Usa da vincoli di ogni genere, ieri Trump ha sfilato Washington dall’Accordo di Parigi sul clima, aprendo la strada a un ritorno al massimo sfruttamento degli idrocarburi.

«Metterò sempre l’America prima, in ogni secondo della mia Amministrazione.

La nostra sovranità, la nostra sicurezza saranno ristabilite», ha continuato Trump, garantendo anche un ritorno alla «giustizia» che a suo dire è stata usata contro di lui «come arma politica», senza riuscire a fermarlo.

Molti non credono a questa promessa di giustizia imparziale, a partire dal presidente uscente, il cui ultimo atto prima di lasciare la Casa Bianca è stata una grazia preventiva per tutte le persone che Trump potrebbe prendere di mira per vie legali, come i capi militari e tutti i parlamentari che hanno fatto parte del comitato del Congresso che ha indagato sull’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump, «ostaggi» per i quali ci saranno novità.

Grazia, quella ai funzionari, che davanti alla folla della “Rotunda” Trump ha condannato come «una vergogna».

Per ora il nuovo presidente si è vendicato del potere uscente a parole, denunciando un governo inetto che «non sa affrontare un semplice emergenza domestica come gli uragani o gli incendi a Los Angeles, nei quali molti fra i nostri cittadini più abbienti, che sono qui oggi, hanno perso la casa, e ora non hanno più una casa».

Fra questi non certo Musk, che ora ha anche un ufficio nel complesso della Casa Bianca e che ieri ha puntato i pollici in alto approvando l’idea di Trump di «piantare la bandiera americana su Marte». Fra i primi decreti firmati ieri dal repubblicano non hanno figurato le tariffe punitive sulle importazioni, ma Trump non le ha dimenticate.

Nel suo discorso le ha nuovamente promesse, annunciando la nascita di un nuovo ente, il «servizio delle entrate esterne», che farà il paio con quello delle entrate interne (l’agenzie delle tasse) per riscuotere i dazi dai Paesi che vogliono avere il privilegio di commerciare con gli Stati Uniti.

 

www.avvenire.it

 

 

martedì 10 novembre 2020

A PROPOSITO DI DEMOCRAZIA

 Gli anticorpi della democrazia hanno salvato la società 

-          di Luigi  Sanlorenzo*

-           

Celebriamo il risveglio degli Stati Uniti, che hanno combattuto e superato momenti drammatici dopo l’avvento di Donald Trump. Il merito è anche dei pilastri fondamentali che compongono la civiltà liberaldemocratica, che difendono ogni tentativo di corruzione dei propri valori e rappresentano l’ultima barriera che contiene l’infezione da populismo

Platone l’esecrava e Aristotele non l’amava. Occorrerà attendere lo storico Polibio e poi Marco Tullio Cicerone, un avvocato del Foro di Roma, per avere della democrazia una descrizione positiva che poi si farà strada nel pensiero filosofico e politico. In tempi non lontani è stata invocata, ottenuta, ridimensionata, oltraggiata, negata, perduta e riconquistata.

Winston Churchill ne coglieva i limiti ma ammetteva di non avere idea di una forma migliore di convivenza e ne diventò il campione nell’Europa funestata dai fascismi. Tra le due epoche ed oltre, esiste una bibliografia sterminata che il lettore potrà facilmente reperire e che, pertanto, ometterò.

Oggi celebriamo la democrazia come riconfermata pacificamente negli Stati Uniti che furono di Donald Trump, anche se, con qualche esagerazione, qualcuno ha voluto accostare la giornata del 7 novembre 2020 al 25 Aprile del 1945. Eccessi di retorica, forse giustificati dalle grandi emozioni collettive che abbiamo vissuto durante una lunga settimana: perché una cosa è proclamare la democrazia e altra praticarne l’uso e proteggerne l’integrità. Ed è questa la ragione per cui è opportuno riflettere.

Tralasciate le definizioni scolastiche, l’etimologia della parola e le declinazioni peggiorate da aggettivi non sempre appropriati, più utile può essere ragionare su quegli elementi che possono preservarla e se, del caso, estenderla e migliorarla. Sono gli “anticorpi” della democrazia cioè le difese che essa può mettere in campo per opporsi ad ogni tentativo di corruzione dei propri valori se non di annullamento dell’intrinseco significato cui il termine riconduce.

I tempi che viviamo ci rendono familiare il lessico della biologia e della medicina e mai come oggi si parla di anticorpi, di sistema immunitario, di difese dell’organismo e di barriere, naturali o chimiche, contro l’attacco quotidiano che virus e batteri sferrano ogni giorno contro tutti gli esseri viventi. Risulterà così più facile analizzare il processo mediante il quale la democrazia si difende, sopravvive, supera momenti drammatici o, per converso, si indebolisce, vacilla e soccombe.

Il primo e più immediato riferimento è l’analisi del termine “anticorpo” che sta a significare come ad un’entità sia pure microscopica si oppone a difesa un’altra di segno contrario e portatrice di un contenuto cellulare diverso. Perché ciò avvenga è necessario che quest’ultima esista, in base al principio logico di non contraddizione che distingue A da non A. Applicato a ciò che ci occupa in questo scritto, vuol dire essenzialmente che il principale anticorpo di cui la democrazia dispone è la conoscenza e la consapevolezza di ciò che essa è e delle potenzialità che possiede.

Se in una società gli individui partecipano di una definizione, generica, vaga e imprecisa, si è già in presenza di un forte deficit immunitario e il corpo estraneo troverà facile breccia per farsi strada, assumendo due principali caratteri: il populismo che fa leva sulle emozioni profonde e sulle pulsioni istintive abilmente evocate e provocate e l’egalitarismo che azzera competenze, meriti e valore, tradendo di fatto il termine “democrazia” specifico contesto sociale e politico in cui non si è affatto tutti uguali, se non davanti alle leggi contenenti diritti e doveri che autonomamente e liberamente essa ha prodotto con il contributo di tutti e a tutela di ciascuno.

In ogni società esistono i “migliori” per eredità genetica, capacità personali, inclinazioni naturali, livello culturale, abilità nel fare le cose o nel farle accadere. Si tratta di elementi che troppo spesso si vogliono far risalire al censo o alle opportunità offerte dall’ambiente familiare e sociale; spesso non è così, come dimostrano le biografie di personalità eccellenti provenienti da condizioni sociali svantaggiate, contesti culturali carenti, situazioni familiari devastanti. Allo stesso modo, esistono, senza giri di parole, i “peggiori” portati naturalmente a negarsi ad ogni opportunità di migliorare se stessi e di confidare, in modo parassitario, sull’assistenza da parte degli altri, pretesa come un diritto.

Essi adducono quale esimente del proprio destino il “sistema” quale entità astratta cui attribuire le proprie sventure. Avvinti da bisogni crescenti ed incapaci di emanciparsi, perché non educati ed aiutati a farlo, costituiscono il milieu in cui si sviluppano le peggiori tentazioni antidemocratiche alimentate da quanti sanno come costruirvi sopra il proprio successo personale.

L’anticorpo di cui la democrazia dispone al riguardo è il concetto di pari opportunità quale condizione di partenza offerta a tutti in egual misura e consistenza, lasciando poi a ciascuno la libertà, ma anche la responsabilità, di farne tesoro in ogni parte del mondo. Istruzione, formazione e internazionalizzazione agevolate, se non gratuite, per i meritevoli meno abbienti sono i suoi migliori alleati e non mancano mai, quando ben gestiti, di dare i propri frutti.

Spesso gli ingenti fondi a ciò destinati sono stati stornati altrove o restituiti, con vergogna, all’Unione Europea che ancora aspetta di capire come mai l’Italia meridionale (cui si sono aggiunte nel 2020 anche Sardegna e Molise) sia ancora tra le aree meno sviluppate del continente. Un argomento inoppugnabile che abbiamo regalato ai “paesi frugali” che di quei fondi hanno fatto tesoro per decenni. 

Tra i “migliori” e i “peggiori” si estende il mare interno dei mediocri in cui prevalgono la difesa di privilegi illegittimamente acquisiti, l’appartenenza acritica a partiti o movimenti, il qualunquismo più cinico, il perseguimento di interessi particolari, familiari o personali, messi davanti a tutto ciò che può sapere di collettivo, di civile, di comunitario.

Denunciano ogni appartenenza come deviata, ogni competenza come potere e, mentre attendono di salire sul carro del vincitore di turno, pretendono di calpestare secoli di cultura e di progresso scientifico esprimendo giudizi apodittici quanto banali, che in altri tempi non avrebbero oltrepassato la soglia dell’osteria. 

Oggi, come tutti noi peraltro, essi hanno a disposizione i social media su cui “pubblicano” rutti in forma scritta o video, con cui intendono mettersi in pari con quanti fino ad allora hanno invidiato e snobbato e che oggi odiano. Forse sarebbe meglio insistere sulla differenza tra “pubblicare” e “postare” per ridimensionare il fenomeno e ricondurlo nell’alveo di opinioni che, con i limiti invalicabili dell’insulto e della palese e morbosa oscenità, tali sono e rimangono, se non suffragate da studi adeguati, faticosi approfondimenti, antiche e recenti letture, concrete esperienze professionali e di vita. 

È la democrazia dei “like” come qualcuno ha voluto connotare la nostra epoca. E dai “like” alle piattaforme digitali che hanno sostituito il processo di selezione delle classi dirigenti oggi magna pars nel governo del Paese, il passo è breve. Medesimo ragionamento può essere fatto su influencer di vario genere e personaggi televisivi che avrebbero solo l’imbarazzo della scelta se volessero candidarsi a ruoli cruciali per la vita democratica del Paese.

La chiamano “democrazia diretta” e su tale altare vengono sacrificati secoli di elaborazione critica, di riflessione filosofica o religiosa, di testimonianze concrete del ruolo svolto dalle Idee nel progresso dell’Umanità. Dal mancato rispetto del già citato principio di non contraddizione che impone di distinguere tra ciò che è e ciò che non è , spesso accompagnato da un ruolo non sempre obiettivo e trasparente dell’informazione, origina l’assenza del principale anticorpo posto a difesa della democrazia. Il bastione è stato demolito e i nemici della democrazia possono procedere nella propria strategia di attacco.

Una seconda famiglia di anticorpi è costituita dai cosiddetti “valori non negoziabili” posti a fondamento di ogni democrazia e quasi sempre fissati in carte costituzionali su cui si innestano ogni successiva attività legislativa, la legittimità dei comportamenti individuali e sociali, i limiti del potere, i contrappesi istituzionali.
Va detto chiaramente che l’evoluzione della società, il mutamento dei costumi, l’emergere di nuove soggettualità politiche e di nuove aspirazioni ideali hanno il proprio limite invalicabile nel rispetto dell’integrità fisica e spirituale di ciascun individuo e nel suo diritto a difenderla direttamente nei limiti consentiti e, in ogni altro caso, a vederla difesa dallo Stato democratico. 

In quanto strettamente legato alla dignità di tutti gli esseri umani, l’elenco dei valori non negoziabili contiene tutto ciò che fa crescere una società in tale direzione ed espelle con determinazione tutto ciò che limita e minaccia tale spinta vitale tesa verso il miglioramento della condizione umana, come correntemente intesa nei paesi democratici.

Fermi i valori non negoziabili, contenuti in Italia nella parte iniziale della Costituzione repubblicana del 1948 i cui primi dodici articoli sono immodificabili, la dinamica legislativa si esprime senza ulteriori condizionamenti ed ha lo scopo di attualizzare nella forma e mai nella sostanza quei principi fondamentali per renderli fattuali e misurane nel tempo l’efficacia sull’evoluzione della vita comunitaria. 

Qui entra in gioco ancora una volta la dialettica democratica che, garantita dalla citata permanenza dei valori fondamentali, è tenuta ad applicare il principio della legittimità degli atti legislativi e regolamentari, secondo la volontà espressa dalla società in libere elezioni in cui si sono confrontate forme diverse di attuazione dei diritti e di rispetto dei doveri. Forme attuative, ribadisco, e non modificative dei valori fondativi.

Tale vigilanza è affidata, com’è noto, al vaglio del Presidente della Repubblica nel momento della promulgazione e in un’ultima istanza alla Corte Costituzionale, se adita nelle forme previste da chi ne ha titolo.
Tuttavia tale sofisticata architettura voluta dai Padri Costituenti spesso viene aggirata da interventi legislativi o di decretazione d’urgenza ad opera del Governo o, come in casi che ormai conosciamo bene, del Presidente del Consiglio, absolutus, cioè sciolto da ogni legame, una volta che sia stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale.
Va detto una volta per tutte che anche tali decisioni, che vogliamo credere essere sempre urgenti, indifferibili e nell’interesse supremo del Paese, non possono oltrepassare i confini costituzionali né sospendere le libertà individuali garantite dalla Repubblica. Qualsiasi cedimento in tale direzione fa cadere come birilli una serie di anticorpi essenziali per la vita democratica e consente l’avanzamento di parecchi metri a chi sta scavando una galleria di mina sotto i bastioni.

È a tale punto che intervengono altri anticorpi che, impossibili da fissare sul vetrino del microscopio legislativo, rappresentano l’ultima barriera all’infezione. Si tratta della vasta gamma dei comportamenti individuali assunti da ciascuno come parte integrante dell’identificazione nel contesto sociale. Non potendo essere regolati né, grazie al cielo, controllati o sanzionati dall’impianto normativo, essi sono espressione dei principi di autonomia e di responsabilità e del grado di civismo raggiunto e praticato dalla cittadinanza.
Volendo essere estremamente chiari, significa che una collettività che rispetta le leggi per timore delle sanzioni mentre le aggira con furbizia ed espedienti è la più esposta al rischio del tramonto della democrazia. A maggior ragione se assume tali comportamenti come protesta verso disposizioni che non ritiene le appartengano perché espresse da una maggioranza politica rispetto alla quale si percepisce come oppositrice.
È il crollo dell’architrave democratica che si regge proprio sul riconoscimento della volontà della maggioranza, cui può e deve opporsi il dibattito politico e il diritto di manifestazione pubblica ma mai l’inosservanza o la violazione della legge, finché la medesima è in vigore. Ci fu chi bevve volentieri la cicuta per non contraddire tale profondo convincimento.

I comportamenti individuali sono dunque l’ultima spiaggia della democrazia, quella più esposta ai frangenti dell’umore popolare, all’azione di erosione da parte di persuasori più o meno occulti e dei mestatori di caos e disinformazione. Bene ha fatto la libera stampa degli Stati Uniti d’America a riportare le dichiarazioni improvvide di Donald Trump ma contestualmente a stigmatizzarne l’inconsistenza probatoria. In Italia sarebbe stato impossibile e ciò aprirebbe nuove e più approfondite riflessioni anche sulla terzietà dell’informazione nostrana. Ma non qui e non ora.

Da cosa sono dettati i comportamenti individuali in una democrazia in buona salute? Innanzitutto, dal pieno convincimento dell’esistenza di un patto che, oltre a quelli scritti, fonda la convivenza civile e la mette al riparo dal diritto del più forte, delle menzogne del più furbo, dalle seduzioni del più convincente. Il paradosso è che mentre tale logica viene accettata e pretesa ad ogni livello sociale dalla stragrande maggioranza dei tifosi sportivi, è rifiutata da molti nella vita di tutti i giorni. 

La ragione non è arcana: lo sport si fonda sulla passione ed è amato e rispettato, la democrazia non è ancora, nel nostro paese, oggetto di tali sentimenti e viene percepita da molti più come una tecnicalità politica che come un valore, più come uno strumento che come un fine ideale in progressiva realizzazione. Come ogni amore ha nell’affidamento al partner il proprio principale anticorpo per la tenuta del rapporto, anche nell’esercizio della democrazia la fiducia non è solo un sentimento ma anche una tappa formalizzata per l’esercizio del potere e il collante tra le istituzioni chiamate in solido a perseguire lealmente, ai diversi livelli territoriali ogni miglioramento. Ne ho scritto.

I fatti di questi giorni e il conflitto permanente tra stato e regioni e tra di esse in merito alla zonizzazione della situazione epidemiologica sono il peggiore colpo che possa essere inferto alla democrazia. Un’intera batteria di anticorpi è stata bruciata in poche settimane.

Ne pagheremo il prezzo in termini di credibilità dell’intera compagine governativa, di ulteriori diseguaglianze tra i territori della Repubblica e, soprattutto, come caduta dell’indice di affidabilità delle istituzioni. Una catastrofe non inferiore a quella sanitaria poiché la capacità di affrontare quest’ultima è funzione dell’operato dei decisori politici che non possono e non devono nascondersi dietro un algoritmo cromatico. 

Il fenomeno della sottovalutazione della democrazia non riguarda tutti ma trova manifestazione laddove sin dall’atto originario, l’espressione del voto, tale esperienza è vissuta all’insegna della superficialità e spesso con il ricatto sui bisogni primari, scientemente mantenuti tali in molte aree geografiche, perché unico modo di nascondere l’incompetenza e l’inadeguatezza di singoli e di partiti sostituendovi forme di protezione di questo o di quell’interesse particolare.

Quanto vale un singolo consenso in alcune periferie italiane? In media, secondo le indagini svolte dalle Forze dell’Ordine nei casi conclamati di voto di scambio, una ventina di euro, spesso anche meno. Ed è gratis davanti a promesse di piccoli o grandi vantaggi assicurati al singolo, magari in danno della collettività. Troppo ampia è la casistica per trarne alcuni esempi, ma mi colpì a suo tempo l’indignazione di un noto politico che in anni non troppo lontani ebbe a dire «Quanti parroci hanno venduto il proprio voto ed impegnato la propria influenza per vedere realizzato un campetto di calcio?»

L’ultima serie di anticorpi della democrazia è costituita dal complesso degli atti ricompresi nella categoria della solidarietà universale ed è ciò per cui ciascuno riconosce kantianamente nell’altro l’intera Umanità, quindi se stesso, e come tale agisce senza bisogno di una legge, di un regolamento, di una sanzione che lo costringa a qualcosa che non percepisce come valore. Quando la casa brucia non sono solo i Vigili del Fuoco a salvare le persone ma anche coloro che, nell’attesa, immediatamente si lanciano tra le fiamme per aiutare chi è in difficoltà.

Quale molla scatta in un giovane immigrato, magari considerato clandestino, per farlo tuffare in un canale traendone un bambino che sta annegando o per consegnare ad un poliziotto un portafogli smarrito? Cosa induce una nazione in piena emergenza sanitaria a non negare assistenza in mare a chi fugge verso un futuro migliore?
Cosa può portare un popolo ad osservare le regole, a collaborare con la giustizia, ad essere guardiano della legalità, ad autoimporsi limitazioni alla libertà individuale nel superiore convincimento di fare la cosa giusta, innanzitutto per la comunità di cui si sente parte viva ed attiva? Soltanto il possesso di una profonda spiritualità civile e la democrazia è una religione laica che non conosce chiese, sinagoghe o moschee ma solo la dimensione della solidarietà tra esseri consapevoli della propria e dell’altrui finitudine.

Esiste una cura per fortificare gli anticorpi della democrazia? Un complesso vitaminico che somministrato costantemente rafforzi le difese immunitarie insidiate dagli egoismi, dai particolarismi, dall’ignavia e dall’indifferenza nei confronti degli altri? Bastano alcune alte autorità morali a ricordare che tra gli scartati dalla società fanno proseliti i principali nemici della democrazia? Basterà quell’esercito di maestri elementari invocato da Gesualdo Bufalino, se poi i migliori insegnamenti verranno rinnegati in famiglia tra le mura domestiche? Abbiamo abbastanza guide che accompagnino in età adulta la crescita della consapevolezza democratica? Nel dubbio ne ho scritto qualche tempo fa.

Nel gorgo della pandemia, come in un gigantesco maelstrom, si corre il rischio che emergano i fantasmi del passato, trascinando sul fondo i vecchi ritenuti inutili, i disabili considerati costosi, i giovani lasciati preda di cattivi maestri sin dalla più tenera età. Un tempo, almeno, nel corso di un naufragio risuonava il grido “Prima le donne e i bambini! “ quasi rassegnandosi a salvare la generatività futura, sacrificando il passato. Quasi mai succedeva e tutti tranne i più coraggiosi si accalcavano sulle scialuppe.

La verità è che non esistono alternative a salvarsi tutti insieme. O meglio, ne esiste solo una ed è quella di perdersi tutti insieme. In tale drammatica prospettiva l’unica arca a disposizione è la difesa della democrazia, rafforzandone le paratie perché resistano ad abbietti demolitori e alle onde suscitate dal vento panico di una società smarrita che sull’orlo della disperazione potrebbe anche accettare di vendere la propria anima al primo diavolo di passaggio che sa come illudere la fragilità della natura umana. In caso contrario a naufragare sarà l’intera umanità per come ci è stata raccontata.

In un articolo pubblicato dal quotidiano Avvenire il 13 ottobre del 2006, sir Ralph Dahrendorf, il politologo di estrazione liberale scomparso nel 2009 e autore di “Quadrare il cerchio: benessere economico, coesione sociale e libertà politica” scrisse: «Bisogna poi stare attenti alla falsa democrazia i cui rappresentanti in realtà non danno ascolto alla voce della gente. La repubblica di Weimar è stata correttamente definita come una democrazia senza democratici ed è questa una delle ragioni per cui non è durata. Il suo contrario offre forse maggiori speranze. Anche se non possiamo avere una democrazia mondiale e neppure europea, almeno abbiamo i democratici: persone coscienti dei propri diritti che prendono sul serio la responsabilità di difenderli attivamente».

La democrazia è un’idea filosofica venuta da lontano e, nonostante abbia sulle spalle duemilacinquecento anni, affascina ancora il mondo, può salvarlo dagli errori che esso stesso ha commesso e riaprire il sentiero, pur costellato di dolori individuali e sociali, verso quella cima che abbiamo imparato a chiamare resilienza e che con nomi diversi ha salvato i superstiti nel corpo e nello spirito di altri tremendi riti di passaggio tra un’epoca e un’altra della storia. Se con determinazione, la democrazia e la solidarietà diventeranno per tutti sentimenti profondi e istinti perfino più potenti di quello della sopravvivenza, allora anche la prova che stiamo affrontando avrà avuto il significato di un insegnamento profondo in grado di generare una nuova umanità.

 LINKIESTA

*Luigi Sanlorenzo




 

 

 

 

domenica 8 novembre 2020

LA POST-VERITA' FINO IN FONDO

 La cifra politica della presidenza Trump. 

 -Antonio Nicita*

 La presidenza Trump rischia di finire com’era iniziata. Nel dicembre del 2016, dopo una clamorosa e inattesa vittoria, Ruth Marcus sul "Washington Post" scrisse: «Welcome to the post-truth Presidency» (Benvenuti nella Presidenza della post-verità). Ma già qualche mese prima "The Economist" legava Donald Trump al concetto di post-verità, descrivendo il prossimo capo della superpotenza Usa «come uno dei prominenti professionisti della politica della post-verità» cui non interessa «se le sue parole abbiano una qualche relazione con la realtà, almeno fintanto che siano idonee a infiammare i suoi propri elettori». Quattro anni dopo, le emittenti Abc, Cbs e Nbc interrompono in diretta una pesantissima dichiarazione del presidente uscente, il quale, dalla Casa Bianca, accusa gli avversari di brogli e frodi, «senza portare prove» come precisa, in diretta, il sottopancia di Cnn.

Il tema del rapporto con i fatti, e del ruolo della disinformazione, anche attraverso precise strategie sui social media, è uno di quelli che ha caratterizzato questa presidenza e la relazione tra politica e informazione ai tempi del neo-populismo. La locuzione «fatti alternativi» è nata da Kellyanne Conway consigliere del presidente Trump, durante una conferenza stampa del 22 gennaio 2017, in relazione al numero di presenze effettive all’inaugurazione di Trump come presidente degli Stati Uniti. I «fatti alternativi» hanno caratterizzato quest’ultimo anno di Presidenza in cui si sono intrecciate narrazioni negazioniste sulla pandemia con ricostruzioni strumentali sia degli episodi di razzismo che delle proteste per la morte di George Floyd.

I social media, in testa Twitter e, in misura minore, Facebook – in passato accusati anche dal Rapporto Mueller e dalle indagini su Cambridge Analytica, di aver indirettamente favorito strategie di disinformazione volte a influenzare le elezioni del 2016 – hanno iniziato a "moderare" i tweet del presidente Trump per incitazioni alla violenza o affermazioni non veritiere o ingannevoli, peraltro riguardanti proprio il tema della legittimità del voto postale o absentee.

Il tema della disinformazione è stato quindi un filo rosso di questa presidenza e di questi anni, non solo negli Stati Uniti certo, ma che in quel grande Paese sembra aver registrato il campo privilegiato per la costruzione sia di nuove agende politiche sia di nuove strategie di propaganda.

Quello che resta non è solo l’irrompere dei «fatti alternativi», ma l’indebolimento della stampa libera, autonoma, professionale, spesso accusata di essere, essa stessa, di parte. Una stampa attaccata su due fronti: dal lato del tempo di attenzione, dedicato ai social media come nuovi informatori, e dal lato delle risorse finanziarie e pubblicitarie, sempre più concentrate nelle mani delle grandi piattaforme.

Ma resta soprattutto, ed è il conto più amaro che ci troviamo di fronte, l’avvento di una polarizzazione cieca e autoreferenziale. Di un tifo fatto di 'bolle' e impermeabile a ogni dialogo. L’esplosione delle fonti informative, attraverso i social e il web in genere, corrisponde a una minore e non a una maggiore esposizione a idee che non si condividono. Quella che doveva essere una finestra sul mondo è diventata uno specchio che ci restituisce i nostri pregiudizi, le nostre convinzioni, i nostri fatti alternativi. Come ha misurato Agcom nel suo Osservatorio, la polarizzazione è ormai una costante del modo in cui selezioniamo le fonti informative. C’è allora da chiedersi come tirarsi fuori da questa pesante eredità. Come riportare al centro della politica e del confronto democratico, quell’amore dei fatti che per John Stuart Mill era alla base della libertà d’espressione e di un autentico pluralismo.

È possibile che quanto accade oggi negli Stati Uniti costituisca un importante passaggio in questo senso. Intanto, tra un mese, l’Europa annuncerà una proposta di regolazione delle piattaforme on-line, il cosiddetto Digital Service Act, che affronterà sia i temi dei mercati della pubblicità on-line, e quindi delle risorse destinabili anche all’informazione, sia i temi della disinformazione on-line. Nella consapevolezza, ci si augura, che, altrimenti, l’avvento di «fatti alternativi» possa pre-costituire la condizione di un’alternativa alla democrazia.

 *Ordinario di Politica economica, Università Lumsa

 www.avvenire.it 


 

venerdì 2 ottobre 2020

PAPA FRANCESCO: TRA LUNGIMIRANZA E CONTESTAZIONE


 La Santa Sede 

tra conflitto con gli Usa 

e corruzione vaticana

 

 

di Giuseppe Savagnone*

Le notizie sul gelo tra Stati Uniti e Santa Sede si stanno intrecciando, in questi giorni, con quelle sulla corruzione all’interno del Vaticano. In realtà, sono solo gli ultimi sviluppi di una storia più complessa, che dura dall’inizio del pontificato di papa Francesco e, almeno per il secondo versante, ha le sue radici in quelli precedenti.

Il papa più contestato

Quello che, alle prime battute, sembrava dovesse essere uno dei papi più popolari e amati della storia, sta sperimentando, invece – insieme a un’ammirazione che gli viene tributata spesso anche da non credenti –, una conflittualità e un dissenso senza precedenti, soprattutto all’interno della Chiesa.

Non era mai accaduto che noti intellettuali cattolici, come il giornalista Socci e il vaticanista Valli, mettessero in dubbio con libri e articoli la legittimità dell’elezione del sommo pontefice, negando la validità delle dimissioni di Benedetto XVI, né, tanto meno, che esponenti di spicco della gerarchia ecclesiastica, come l’arcivescovo Viganò, chiedessero pubblicamente le sue dimissioni. Per non parlare dell’ondata inarrestabile di attacchi contro il papa che dilaga sui social.

L’eccessiva enfasi sulla comunione ai divorziati

Tutto è cominciato quasi subito, quando lo stile, decisamente inedito e innovatore, di Francesco gli ha attirato in egual misura la simpatia e l’interesse di tanti che non si riconoscono nella Chiesa cattolica e lo scandalo di molti credenti. I due sinodi sulla famiglia e l’«Amoris laetitia» – l’esortazione apostolica che ha fatto loro seguito – hanno portato al diapason i toni della rottura, polarizzandola, con un’enfasi sicuramente eccessiva, sul problema della comunione ai conviventi fuori del matrimonio.

La vera svolta dell’«Amoris laetitia»

In realtà è vero che il magistero di papa Francesco presenta delle novità rispetto a quello dei suoi predecessori. Così, è calato il silenzio sulla dottrina degli “assoluti morali” – atti in sé malvagi, a prescindere dal contesto in cui vengono compiuti – insegnata da Giovanni Paolo II, così come è scomparsa l’insistenza sui “valori non negoziabili” – vita biologica, famiglia e libertà di educazione (cattolica) – del tempo di Benedetto XVI.  Nell’«Amoris laetitia» si è, invece, sottolineato che i comportamenti delle persone vanno sempre considerati in relazione alla loro storia e alle loro intenzioni. Dove questa relatività non è affatto relativismo – come dicono i suoi critici –, perché non esclude affatto la linea di demarcazione tra il bene e il male, ma la cerca non in una rigida regola fissata univocamente una volta per tutte, bensì nella concretezza dei percorsi esistenziali delle persone e nell’orientamento di fondo della loro coscienza.La risposta dei “conservatori” a queste distinzioni è la menzione più o meno esplicita della possibilità di uno scisma, di cui il papa sarebbe il vero responsabile, per il suo tradimento.

La lotta di Francesco contro i “muri”

Ma la loro opposizione nei confronti di papa Bergoglio si è potuta sviluppare anche per il convergere in essa di fattori politici. Mentre al tempo di Benedetto XVI la giustizia sociale e la lotta contro le cause della povertà non rientravano tra i “valori non negoziabili”, con l’attuale pontificato sono diventati obiettivi prioritari della stessa comunità ecclesiale. E, in un mondo occidentale dove in questi ultimi anni si sono alzati muri sempre più alti per impedire ai poveri del Sud della terra di accedere alle condizioni di vita dei paesi del Nord, la posizione di Francesco è suonata come una follia inaccettabile anche agli orecchi di molti cattolici.

La critica al neocapitalismo

Un secondo fattore politico intervenuto a sostegno della polemica contro le posizioni dottrinali del papa è legato alla sua critica nei confronti dello sfruttamento indiscriminato del pianeta e al tempo stesso dei più deboli operato da una finanza capitalistica senza scrupoli. L’enciclica «Laudato si’» non è piaciuta soprattutto negli Stati Uniti. Proprio in questi giorni in una intervista il cardinale Maradiaga ha denunciato una rete – la cui esistenza in realtà era nota da tempo – che lavora contro Francesco e che ha le sue basi economiche e politiche nella destra conservatrice americana, di cui sono esponenti di spicco l’ex consigliere di Trump, Steve Bannon, e il già menzionato arcivescovo Viganò.

L’ultimo scontro sui rapporti con la Cina

È in questo quadro che si inserisce la pesane intromissione del governo del segretario di Stato Mike Pompeo, volta a bloccare il rinnovo, il prossimo 22 ottobre, dell’accordo già stipulato dalla Santa Sede nel 2018 con il governo della Cina per consentire, per la prima volta dalla rivoluzione comunista, la nomina da parte del papa di vescovi cinesi, a condizione che siano accettati anche a quel governo. Un accordo che, come ha spiegato il card. Parolin, non implica alcun avallo dei metodi di Pechino, ma ha una valenza essenzialmente pastorale. Alla Chiesa è sempre interessato portare il Vangelo alle persone. Lo ha fatto sempre anche all’interno di contesti politici in sé inaccettabili e questo ha comportato un rischio – che c’è ovviamente anche in questo caso – di una pericolosa coesistenza e, al limite, di una connivenza, ma che si è sempre accettato di correre con innumerevoli altri regimi.

La battaglia contro la corruzione

Abbiamo parlato finora della battaglia di papa Francesco sul fronte religioso-politico. Ma ce n’è un altro, di antica data, che le vicende di questi ultimi giorni hanno portato in piena luce, ed è quello contro i “poteri forti” del Vaticano. La vicenda dell’ex cardinale Becciu è ancora troppo recente per dare giudizi definitivi. Quello che è certo, però, è il groviglio di interessi oscuri, di manovre finanziarie poco trasparenti, di operazioni gestite da personaggi equivoci, che l’attuale inchiesta sta portando alla luce.

Benedetto XVI fu vittima anche lui delle convulsioni di questo sistema malato – scandali, fughe di notizie, reciproco gioco al massacro – e, non ritenendo di avere le forze per contrastarlo, lealmente preferì rassegnare le sue dimissioni. Papa Francesco non si arrende e lotta. Non si può dire che finora la sua battaglia sia stata coronata da successo, anche per i suoi errori nello scegliere alcuni collaboratori – come fu il cardinale Pell e ora lo stesso mons. Becciu – rivelatisi del tutto inaffidabili. Ma forse è preferibile un papa che sbaglia mentre cerca di fare le cose giuste, rispetto ad uno che, per non sbagliare, si rassegnasse ad accettare le cose ingiuste.

L’apertura del terzo fronte: i “progressisti” delusi

Più recentemente è sorto però anche un terzo fronte su cui papa Francesco ora si trova a lottare, ed è quello di coloro che sono delusi della sua cautela nei confronti di riforme di fondo, come l’abolizione del celibato dei preti e l’ammissione delle donne al diaconato (alcuni in effetti pensano anche al presbiterato). La protesta è esplosa dopo la pubblicazione dell’esortazione apostolica «Querida Amazonia» che, contrariamente alla raccomandazione del sinodo non prevede nessuna delle due innovazioni.

Non solo l’Amazzonia

Non a tutti è noto che il problema non è limitato all’Amazzonia. La prudenza di Francesco è probabilmente legata al fatto che un’apertura in quel particolare contesto avrebbe rafforzato le spinte che già sono presenti nel sinodo inaugurato dalla Chiesa tedesca nel gennaio scorso e dove si parla apertamente di riforme che vanno nella direzione voluta dai “progressisti”.Da Roma si sottolinea che ci sono scelte di fondo che non possono essere adottate su base nazionale, ignorando la linea della Chiesa universale. Ma anche su su questo fronte si risponde alle prese di posizione del papa con accenni velati al pericolo di uno scisma, questa volta di marca “progressista”.

Un compito immane

Insomma, tra minacce di scismi di segno opposto e corruzione vaticana, papa Francesco è uno dei pontefici più in difficoltà della storia, probabilmente quello che ha più aperte opposizioni da molti secoli a questa parte. Eppure, con i suoi 83 anni, combatte con coraggio le sue ardue battaglie, che in realtà non sono state originate soltanto dalle sue scelte, ma nascono da situazioni pregresse che egli ha ereditato. Traghettare la Chiesa nella post-modernità non era un’impresa facile e forse proprio i suoi predecessori, evitando personalmente i conflitti che sarebbero nati da passi decisi in questa direzione, hanno reso ora più difficile il compito del papa attuale.

Valorizzare la partecipazione sinodale

C’è da chiedersi se non si possa aiutare in qualche modo il pontefice, non lasciandolo solo. Per la verità non sembra che ci sia, in questo momento, un deciso apporto da parte della base della comunità ecclesiale e dello stesso episcopato. E i pochi che parlano lo fanno, ad altissima voce, solo per protestare. Forse è il momento di valorizzare la sinodalità, lo stile che nella Chiesa permetterebbe, anzi esigerebbe, la partecipazione attiva di tutti, ognuno nel suo ruolo, al confronto e al discernimento comunitario. Le battaglie di papa Francesco sono quelle di tutti coloro che vogliono una Chiesa diversa da quella del passato, ma al tempo stesso avvertono la responsabilità di un cammino che eviti rotture rovinose. Ogni credente è chiamato, in questa difficile congiuntura, a farsene carico. Oggi non è possibile ritagliarsi solo un ruolo di spettatore, che tifa per l’uno o per l’altro, evitando di uscire allo scoperto e prendere posizione, senza rischiare di sentirsi rivolgere un giorno il rimprovero che il Signore nell’Apocalisse rivolge a coloro che non sono né caldi né freddi, e che Egli perciò ha rigettato.

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

www.tuttavia.eu

mercoledì 2 settembre 2020

MARIA MONTESSORI. IL SUO SUCCESSO NEGLI USA


Grande consenso negli USA, sin dal 1907, per la nascita delle scuole Montessori, con il loro nuovo e innovativo metodo di insegnamento.
Il messaggio educativo di Maria Montessori segnò  un grande rinnovamento tra l’800 e il ‘900 nella storia della pedagogia e della didattica. Il suo metodo riconosceva al bambino, sempre desideroso di apprendere, un ruolo attivo e creativo nel processo educativo e, all’educatore, il ruolo di mentore che lo guidasse “ a saper fare da solo".


di Rosa Musto *

.Nel 1911 H.W Holmes dell’Università di Harvard manifestò profondo interesse per il metodo Montessori della “Scuola dei Bambini” di Roma leggendo un articolo di lei sulla rivista di McClure e lo dichiarò in una lettera pubblica, a cui seguirono visite e incontri conoscitivi di docenti e accademici statunitensi a Roma. Il successo fu grande e dopo alcuni mesi furono subito aperte le prime due scuole Montessori, a Boston e New York. Nel 1913 Maria Montessori giunse negli USA e fu accolta come “una regina” e per realizzare la diffusione del suo metodo pedagogico in tutti gli States furono organizzate dal suo editore McClure numerose conferenze.  La prima conferenza fu a Washington e poi Maria Montessori proseguì il tour nelle città di New York, Philadelphia, Boston, Chicago, San Francisco. Conferenze che produssero un grande rilievo mediatico.
Negli anni’20, dopo la grande guerra, si ebbe invece un arresto della diffusione del metodo Montessori, per diversi motivi e anche per il fatto che si pensasse che non potesse essere adottato con tutti i ragazzi, ma solo per casi di ritardati o socialmente deboli. D’altro canto, negli USA si assisteva all’avvicendarsi e diffondersi del metodo di John Dewey, grande sostenitore della democrazia, che rappresentò una voce importante del funzionalismo nascente e del mondo delle scienze dell’educazione. Dewey fu per molto tempo il principale riformatore negli USA in materia di istruzione e di inclusione sociale in favore delle nuove generazioni.
Bisogna attendere gli anni’60, quando il Metodo Montessori ritornò a diffondersi. Infatti, nel 1958 fu istituita la Scuola Montessori di Whitby  nel Greenwich-Connecticut-  la prima scuola accreditata dalla Americana Montessory Society (AMS) negli Stati Uniti, seguita poi, nel 1960, dalla Sophia Montessori School fondata da Screen -attore, regista, scrittore- scuola che in seguito fu ribattezzata Santa Monica Montessori School e, nel 1962, a  New York fu istituita la Scuola Caedmon e poi altre scuole a seguire sono sorte e ancora continuano tutte ad operare ad alto livello nella ricerca educativa.  Oggi sono molto più di 5000 le scuole nel mondo che adottano i programmi Montessori nella didattica, a garanzia del successo nell’apprendere nelle scuole pubbliche, da parte dei bambini appartenenti alle fasce sociali più deboli, con i quali lei medesima si era impegnata quando aveva iniziato la sperimentazione del suo metodo didattico a Roma. Il metodo montessoriano fu quindi ispirato dalle suggestioni di Itard e Seguin, studiosi dei comportamenti dei cosiddetti “bambini deficienti”. A testimonianza di questo, nel gennaio 2007, in occasione del centenario del metodo di Maria Montessori negli USA,  il Washington Post pubblicò l’articolo "Montessori, ora 100, Goes Mainstream", in cui pose in evidenza il crescente numero di programmi della scuola pubblica Montessori, in particolare nelle comunità afro-americane per il successo conseguito da bambini e ragazzi.  
La doppia valenza di medico neurologo e di educatore consentirono a Maria Montessori di perfezionare nel tempo un percorso didattico-educativo efficace per tutti, avendo posto al centro del suo interesse la “singolarità di ogni persona”, nella sua specifica completezza organica e cognitiva. L’intervento educativo montessoriano prevede che esso abbi inizio sin dalla prima infanzia, come “imprinting efficace”, quale forma precoce di apprendimento capace di porre le basi ad orientare uno stile autonomo di vita, un sano sviluppo integrale della persona lasciando spazio alla creatività e favorendo attraverso il gioco il carattere e i diversi tempi di apprendimento di ciascuno.
Inoltre, è doveroso non tralasciare un altro aspetto, reso meno noto, ma di certo importante e che si rifà a una rinnovata coscienza femminile proposta da Maria Montessori e che la vide impegnata seriamente nella lotta contro i pregiudizi di genere, compresi quelli “lombrosiani”, volendo dimostrare come fosse importante assegnare il riconoscimento scientifico al “valore umanizzante e culturale” delle cosiddette “azioni femminili” attivate durante il processo educativo nella prima infanzia, dichiarazioni scientifiche avvalorate in seguito, dagli studi realizzati dallo svizzero Jean Piaget,  psicologo, biologo, pedagogista e filosofo. fondatore dell'epistemologia genetica.
Infine,  l’attualità del metodo Montessori lo si riscontra ancora oggi nelle dichiarazioni dei fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin. Costoro hanno affermato nella loro biografia scritta da Steven Levy (”Rivoluzione Google”, Hoepli), come il metodo Montessori abbia segnato le loro scelte nel creare un’azienda diversa da qualsiasi altra. L’ambiente Google per i loro dipendenti, come il “Googleplex” di Mountain View,  rappresenta ad esempio un grande “asilo Montessori per adulti”. Qui si trovano palle colorate da pilates, frigoriferi colmi per soddisfare ogni esigenza alimentare e qui vi è anche la disponibilità di tempo libero retribuito ai dipendenti se desiderano “inventare qualcosa”… Il metodo Montessori risulta sempre efficace, anche in questa epoca super tecnologica in quanto, come osserva per Brin, “…insegna davvero a fare le cose da soli e a pianificare ogni cosa con il proprio ritmo”
Cosa dire? Lo spirito di avventura negli USA di Maria Montessori continua ad esistere ancora oggi grazie ai due più celebri “bambini Montessori del mondo”, che guidano una società americana da 100 miliardi di dollari e che ha cambiato la vita degli uomini di tutto il pianeta.

*Sociologa dell’educazione

www.meridianoitalia.tv