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mercoledì 9 ottobre 2024

RIPENSARE L'ORA DI RELIGIONE


 Vale la pena di prendere sul serio le riflessioni del vescovo di Pinerolo, Derio Olivero, presidente della Commissione per l’ecumenismo e il dialogo della CEI, riportate in un articolo che compare sul n. 7/8 di Rivista del Clero Italiano, storica testata di Vita e Pensiero.

 Il titolo è già un programma: Insegnamento, religioni, spazio laico. Verso un nuovo statuto dell’ora di religione nella scuola pubblica.

 

di: Brunetto Salvarani

 Tra i motivi che, a suo parere, spingono a pensare a un nuovo statuto dell’ora di religione c’è la consapevolezza di vivere un pluralismo religioso del tutto inedito, nel quadro di quello che papa Francesco insiste a definire un cambiamento d’epoca: «uno statuto che contribuisca alla creazione di una civitas ecumenica, capace di riconoscere e apprezzare le differenze. In questa luce la Chiesa cattolica potrà fare un passo indietro, rinunciando a uno spazio che le spetta di diritto in nome del Concordato, per aiutare la società a fare un passo avanti».

 Oggi – sostiene il vescovo – è necessario un insegnamento che riconosca e includa le altre confessioni e religioni, senza trascurare quanti, in ricerca, non sono legati ad alcuna religione: «In questa prospettiva si può immaginare l’insegnamento della religione in chiave interreligiosa. Anzi, di più: se la cultura religiosa è chiamata a essere parte delle conoscenze e delle competenze dello studente in formazione, possiamo ipotizzare un insegnamento della religione per tutti, superando l’equivoco della facoltatività».

 Si aprono, ora, diversi interrogativi, ma l’autorevolezza della firma e le ragioni della proposta non possono essere facilmente accantonati. «Come essere Chiesa in uscita nello spazio pubblico?», si domanda – e ci domanda – don Derio. Si aprirà un dibattito al riguardo? Me l’auguro vivamente. Qui scelgo di toccare appena alcuni punti, per contribuire a rilanciare la questione. Chiaramente delicata, ma insieme strategica.

 Le ragioni di una reticenza

È impressionante la reticenza con cui, in ciò che resta del mondo cattolico, si riflette sulla situazione dell’ora di religione cattolica (tecnicamente, IRC) nelle scuole italiane. Meglio, potremmo dire non si riflette, per più di un motivo: paura di perdere un privilegio acquisito da tempo, scarsa volontà di aprire un possibile contenzioso con lo Stato, sottovalutazione del calo progressivo di quanti aderiscono all’IRC, e si potrebbe continuare.

 Una questione che, peraltro, s’intreccia con altre delle quali, pure, ben poco (e male) si ragiona: dal dramma cronico dell’analfabetismo religioso all’amara constatazione di quanto pesi sulla fragile identità cattolica dei nostri connazionali l’assenza della conoscenza della Bibbia nei circuiti culturali, e non solo in quelli. Fino al relativo interesse con cui pensiamo al ruolo della scuola, conclusasi la stagione gloriosa dell’associazionismo cattolico di impegno pedagogico e didattico, di cui fa fede la morìa delle riviste specializzate e dell’editoria storica non meno che delle figure di riferimento. Quella scuola che, del resto, permane l’unico ambito sociale in cui sono destinati a transitare prima o poi tutti gli italiani, in veste di discenti, docenti o genitori…

 Post-secolarizzazione

Per cogliere la necessità di uno sguardo nuovo sulla religione a scuola, basterebbe partire da un dato oggettivo. La revisione del Concordato fra Santa Sede e Repubblica italiana del 1984, quella che ha rifiutato l’ipotesi sul tappeto, detta «doppio binario» (un insegnamento curriculare per tutti e uno facoltativo gestito dalle singole confessioni religiose) e che ha sancito l’attuale situazione dell’IRC, fu pensata e firmata in un contesto storico e culturale abissalmente distante da quello odierno, in cui – per dire – erano ancora in piedi il Muro di Berlino e le Twin Towers a New York, la secolarizzazione sembrava aver trionfato sul bisogno di sacro e con essa la sensazione che più modernità equivalesse a meno religione.

 Ora, al crollo simbolico e reale di quei muri si accompagna ciò che chiamiamo post-secolarizzazione, e la convinzione diffusa che con le religioni (al plurale) non si possa non fare i conti sul piano sociale e culturale, in un quadro di religiosità fluide, porose, post-moderne. A partire proprio da quel plurale – le religioni –che rappresenta lo scenario con cui è necessario confrontarsi per quanti intendano cogliere gli attuali segni dei tempi.

 Materia incandescente e spinosissima, ovvio, soprattutto in stagioni, quali la nostra, ricca di identitarismi e di sordità reciproche fra nuovi clericalismi e laicismi impenitenti, molto più che di dialogo e di ospitalità. Proprio per questo, peraltro, l’ambito scolastico sarebbe chiamato a un supplemento di responsabilità, pena il divenire lo spazio principe per strumentalizzazioni e banalizzazioni varie.

 Pensiamo, ad esempio, ad annose querelle che si ripresentano stancamente, e puntualmente, ogni anno, come presepe sì – presepe no e velo sì – velo no…

 L’ignoranza della Bibbia

L’inatteso pluralismo delle confessioni di fede che ci sta attraversando e ha ormai messo radici è infatti destinato a porre a dura prova la tradizionale ignoranza italiana in campo religioso, invitando l’universo della scuola e della formazione permanente a un impegno più serio e approfondito al riguardo.

 Sarà impossibile, in ogni caso, continuare a considerare il fatto religioso come un elemento puramente individualistico o folkloristico, privo d’influssi culturali, economici e sociali.

 Come ogni novità, un panorama simile potrà provocare paure e indurre a chiusure intellettuali, e lo sta facendo, ma altresì stimolare a un autentico salto di qualità, se sarà vissuta con la necessaria laicità (dato che una laicità aperta è il presupposto di ogni sano pluralismo).

 Ecco, dunque, in Italia e in Europa, in negativo, i preoccupanti indizi di un risorgente antisemitismo, di un’islamofobia e di un antiziganismo montanti, di un’intolleranza crescente nei confronti dell’immigrazione dalle nazioni più povere, di un razzismo più o meno strisciante, e così via. Ma anche segni di speranza e buone pratiche…

 Quasi vent’anni fa, nell’ottobre 2007, il Ministero dell’Istruzione metteva a punto un documento dal titolo emblematico – La via italiana alla scuola interculturale – in cui si poteva leggere: «A titolo esemplificativo, in attesa di ulteriori approfondimenti collegati alle nuove indicazioni e alla revisione dei curricoli della scuola, si segnala la necessità di superare le proposte marcatamente identitarie e eurocentriche nel campo dell’insegnamento della storia, concettualizzando il nesso storia-cittadinanza; di considerare la geografia un’occasione quanto mai privilegiata per la formazione di una coscienza mondialistica; o l’opportunità di allargare lo sguardo degli alunni stessi in chiave multireligiosa, consapevoli del pluralismo religioso che caratterizza le nostre società e le nostre istituzioni educative e della rilevanza della dimensione religiosa in ambito interculturale» (corsivo mio).

 Si trattava, direi, di un buon punto di partenza… rimasto, di fatto, lettera morta. Di fronte a tale scenario, in costante trasformazione, il sistema ipotizzato all’epoca dal Concordato Craxi-Casaroli appare oggi giocoforza inadeguato, complice de facto non solo dell’odierno stato di analfabetismo religioso ma anche dell’ignoranza quasi assoluta della Bibbia, Grande codice dell’immaginario occidentale.

 Cose sotto gli occhi di tutti, volendo essere intellettualmente onesti: peraltro, visto che mi capita spesso di avere a che fare con docenti di IRC in genere preparati, dotati di buona professionalità e disponibili al confronto con il cambiamento, ma anche consapevoli del disagio che essi stessi vivono quotidianamente, credo si tratti di una questione di sistema, non di persone né di programmi. Inevitabilmente, la loro è una materia dimezzata… ben al di là delle statistiche sugli avvalentisi.

 Inoltre, il prima possibile, sarebbe importante sanare quell’increscioso vuoto culturale o insulto pedagogico, come è stato definito, creato dalla pressoché totale assenza di una qualche materia alternativa, che, per esclusiva competenza statale, dovrebbe comunque essere assicurata, nel curricolo degli alunni che non si avvalgono dell’offerta confessionale.

 Il Fattore R

Compete al sistema scolastico il ruolo di alfabetizzare la totalità degli alunni sulle grandi aree dell’esperienza umana, compresa l’area dell’universale esperienza simbolico-religiosa, alla cui lettura critica si dedicano, con serietà di metodi e plausibilità di risultati, non poche scienze storiche, filologiche, ermeneutiche, teologiche, e così via.

 Mi pare evidente, in tale prospettiva, che l’aspetto della confessionalità dell’insegnamento religioso in Italia risulti anacronistico, a cominciare dalla stessa sua dizione, Insegnamento della religione cattolica, come se quella cattolica fosse una religione e non una confessione cristiana accanto alle altre. Così come il meccanismo attuale di scelta dei docenti, che registra il protagonismo dei vescovi ma sovente mette a disagio chi è coinvolto (per più di un motivo, essendo una gabbia insieme dorata e precaria).

 Sarebbe un segnale importante se la Conferenza episcopale, sulla linea dell’analisi del vescovo Olivero, accettasse di avviare una ridiscussione con le autorità competenti, in un dibattito franco e aperto: ne guadagnerebbero i docenti di IRC, condannati a percepirsi e a essere percepiti necessariamente di serie B rispetto agli altri a dispetto dell’avvenuta messa in ruolo di diversi fra loro, ma anche gli studenti tutti (certo, si potrebbe rispondere, ma l’attuale Parlamento avrebbe interesse ad affrontare una questione così spinosa? non c’è che da verificarlo…). Per non parlare – e si dovrebbe farlo – del regime di facoltatività dell’insegnamento religioso, che fa acqua da ogni parte e non fa giustizia del legittimo diritto degli studenti italiani di ricevere dalla scuola, tutti nessuno escluso, una seria competenza sul Fattore R (come Religione), elemento decisivo per capire le dinamiche storiche del mondo ma anche la condizione geopolitica odierna. Come è apparso evidente negli ultimi anni, cercando di cogliere le ragioni profonde dei conflitti fra Russia e Ucraina e di quello israelopalestinese, ad esempio.

 Il Libro sacro degli altri bambini

«La Chiesa desidera entrare nella scuola» – scrive don Derio – «per contribuire non tanto a educare dei credenti, ma dei cittadini. Cittadini capaci di abitare questo tempo, plurale e post-secolare. Capaci di capire questo tempo e di impegnarsi a costruire una società in dialogo nelle differenze, in pace».

 In tale prospettiva, credo occorra muoversi nell’ottica di un sistema multireligioso in cui sia lo Stato, attraverso i suoi docenti, a educare alla cultura religiosa delle diverse fedi, ovviamente tenendo anche conto dell’incidenza preponderante della cultura cristiano cattolica nel nostro Paese, sul piano storico, sociale e antropologico. Un insegnamento di tutte le religioni, aconfessionale e destinato a tutte/i, senza alcuna facoltatività.

 Realisticamente, esso potrebbe essere tenuto dagli attuali docenti di IRC, in attesa che si formino e crescano anche insegnanti provenienti dalle università, sottoposti allo stesso regime degli altri docenti, con regolari concorsi (da qualche anno, fra l’altro, c’è stato il ritorno degli insegnamenti di teologia nel sistema universitario italiano, a centocinquant’anni dalla soppressione nelle università italiane di quelle facoltà di teologia che ci sono da sempre in Germania, Svizzera, Belgio, Inghilterra, e perfino in Francia). Sarebbe la fine di un’anomalia tutta italica, figlia di una stagione superata e, ritengo, non più destinata a riproporsi.

 Da parte mia (sono per formazione docente di lettere nei licei), penso sia opportuno che, per evitare di essere inserita in un quadro di multiculturalismo separatista – con relativo rischio di balcanizzazione delle diverse ore delle singole religioni –, un’ipotesi del genere debba trovare la sua collocazione all’interno di una prospettiva pedagogica interculturale e dialogica (pena il rischio di trovarsi di fronte, in un prossimo futuro, all’ora di islam, quella di buddhismo, e così via). Perché solo una scuola che favorisca e promuova il dialogo interreligioso e interculturale sarà in grado di contribuire a rafforzare il fondamento della civiltà e della convivenza sociale.

 Con ragione Amos Luzzatto, il grande intellettuale ebreo scomparso alcuni anni fa, sosteneva che ogni bambino ha il diritto di leggere il Libro sacro degli altri bambini, «poiché fino a quando i cattolici leggeranno solo il vangelo, gli ebrei solo la Torà e i musulmani solo il Corano sarà impossibile realizzare una vera integrazione a scuola e nella società».

 Possiamo parlarne, finalmente?

Settimana News

lunedì 12 febbraio 2024

COS''E' IL CRISTIANESIMO ?

 I risultati della sesta Ricerca sull’appartenenza ecclesiale in Germania hanno suscitato un’accesissima discussione. Alcuni ritengono che non solo l’appartenenza ecclesiale, bensì la “religione” in quanto tale sia in caduta libera; altri sostengono invece che non è vero che la religione regredisce: essa modifica, invece, le proprie forme di manifestazione. Ma dunque, in questo dibattito, che cos’è (e cosa non è) il Cristianesimo?

-di Fulvio Ferrario*

I risultati della sesta Ricerca sull’appartenenza ecclesiale (Kirchenmitglieds chaftsuntersuchung, in sigla Kmu) in Germania hanno suscitato un’accesissima discussione. La cosa potrebbe stupire, visto che il dato principale non è certo nuovo: crollo verticale del numero dei membri della chiesa cattolica e di quella evangelica.

 Addirittura, una percentuale consistente di quanti risultano ancora appartenere a una Chiesa, e pagano le relative tasse (che in Germania costituiscono il canale di finanziamento delle due chiese maggiori), esprime un marcato disinteresse per la dimensione della fede e dunque è praticamente sicuro che gli elenchi ufficiali dimagriranno ancora.

Religione o religiosità ?

Allora, il dibattito riguarda un ulteriore esito dell’inchiesta: sembra cioè che non solo l’appartenenza ecclesiale, bensì la “religione” in quanto tale, intesa come interesse per la dimensione della trascendenza, sia in caduta libera. La famosa secolarizzazione, insomma, lungi dall’essere tramontata, come sostengono i profeti e le profetesse della “postsecolarità”, sarebbe, almeno in Europa, in impetuosa avanzata.

 Tale diagnosi è tuttavia contestata con veemenza da quanti sostengono che la ricerca utilizza i termini “religione” e “religiosità” in senso troppo angusto ed ecclesiastico. Non è vero, affermano costoro, che la religione regredisce: essa modifica, invece, le proprie forme di manifestazione.

 Se prima si esprimeva andando in chiesa, oggi può farlo mediante una passeggiata nel bosco alla ricerca dell’armonia cosmica o di un semplice star bene con sé stessi, oppure nel sorseggiare una tisana in una stanza illuminata da candele e profumata mediante qualche essenza. Alla teoria della secolarizzazione si oppone quella dell’“individualizzazione” delle modalità espressive della religione.

 La domanda, però, resta: come mai una discussione socio-religiosa, per quanto interessante, agita gli animi? Perché ognuna delle due tesi determina un’idea di riforma della chiesa, almeno di quella evangelica (quella cattolica celebra sinodi ma, com’è noto, decide in altra sede).

Secolarizzazione o individualizzazione ?

Semplificando, la situazione è la seguente: chi sostiene la tesi della secolarizzazione immagina per il futuro una chiesa fortemente minoritaria, più consapevole, in grado di rendere una testimonianza in controtendenza nella società. Dunque formazione, catechesi, enfasi sulla liturgia, per quanto rinnovata, impegno sociale eccetera.

 Chi, invece, sostiene la teoria dell’individualizzazione vorrebbe una chiesa che sappia interpretare e custodire la “nuova” religiosità: se la predicazione non comunica più, passiamo alla seduta di autocoscienza, alla composizione di poesie in gruppo, magari anche al canto gregoriano, inteso in senso terapeutico.

 Qualcuno ha osservato che la fede cristiana e i suoi contenuti sono definiti dalla Scrittura, così com’è letta nella Chiesa, e non dalle inchieste sociologiche, ma altri obiettano che questo è un modo di ragionare dottrinario e di solito lo qualificano come «ennesima riedizione della teologia dialettica» (cioè derivata da Karl Barth) o simili. A dire il vero, un tipo come Adolf von Harnack, non esattamente “barthiano”, poteva iniziare un suo fortunato libretto con la domanda: «Che cos’è [e dunque: che cosa non è] il Cristianesimo?». Ciò però non sembra impressionare i fautori e le fautrici di un cristianesimo “liquido” o addirittura nebulizzato.

 Naturalmente, né la teoria della secolarizzazione, né quella dell’individualizzazione sussistono allo stato puro, ognuna di esse non potrà non tener conto di elementi di verità presenti nell’altra e lo stesso vale per la visione della chiesa e della pastorale che ne deriva. Nell’insieme, però, si tratta di una vera e propria alternativa, apparentemente sociologica, ma che in realtà oppone due modi di comprendere la Chiesa, la pastorale e, in ultima analisi, la fede stessa.

 

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