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venerdì 5 gennaio 2024

UNA DEPORTAZIONE "VOLONTARIA"

 


I palestinesi di Gaza a rischio


 di deportazione “volontaria”



-         di Giuseppe Savagnone*

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Una proposta inquietante

Ancora più inquietante delle notizie quotidiane sulla spietata conduzione della guerra, nella Striscia di Gaza, è quella, rimbalzata in questi ultimi giorni sui giornali, riguardo alla sua possibile conclusione, che sembra prevedere una deportazione dei palestinesi residenti in questo territorio (gazawi) nella Repubblica del Congo.

 Si chiama piano «The Day After». Ne avevano anticipato qualche giorno fa l’esistenza due ministri del governo di unità nazionale di Tel Aviv, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir. Sarebbe «una soluzione umanitaria», hanno garantito. E soprattutto corrisponderebbe a una precisa esigenza, visto che, hanno detto Smotrich e Ben Gvir, «il 70% degli israeliani è per un’emigrazione volontaria dei gazawi, perché non è più accettabile che due milioni di persone si sveglino ogni mattina a cinque minuti da casa nostra sognando di distruggerci», mentre «la discussione sul dopoguerra sarebbe ben diversa se nella Striscia rimanessero solo 100-200 mila palestinesi, non due milioni».

 Il Dipartimento di Stato americano, in una nota, ha duramente stigmatizzato le parole dei ministri israeliani. Il portavoce Matthew Miller ha parlato apertamente di «retorica provocatoria e irresponsabile». «Ci è stato detto ripetutamente e costantemente dal governo israeliano, compreso il primo ministro, che tali dichiarazioni non riflettono la politica del governo israeliano. Dovrebbero fermarsi immediatamente».

 Il punto di vista degli Stati Uniti, infatti, è agli antipodi di questa prospettiva: «Siamo stati chiari, coerenti e inequivocabili», ha ricordato Miller, «sul fatto che Gaza è terra palestinese e rimarrà terra palestinese, senza che Hamas abbia più il controllo del suo futuro e senza gruppi terroristici in grado di minacciare Israele. Questo è il futuro che cerchiamo nell’interesse di israeliani e palestinesi, della regione circostante e del mondo».

 Ha fatto seguito a questa la decisa presa di posizione del Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese: «La Francia ricorda che il trasferimento forzato di popolazioni costituisce una grave violazione del diritto internazionale. Non spetta al governo israeliano decidere dove i palestinesi debbano vivere nelle loro terre. Il futuro della Striscia di Gaza e dei suoi abitanti sarà parte di uno Stato palestinese unificato che vivrà in pace e sicurezza accanto a Israele».

 Tutto chiarito, dunque? Non proprio. Intanto perché i due ministri del governo israeliano non si sono affatto lasciati zittire, anzi hanno replicato senza mezzi termini: «Gli Stati Uniti sono i nostri migliori amici» ha scritto Ben Gvir su X, «ma prima di tutto faremo ciò che è meglio per lo Stato di Israele: la migrazione di centinaia di migliaia da Gaza consentirà ai residenti del confine di tornare a casa e vivere in sicurezza». Da parte sua Smotrich ha ribadito che «un Paese piccolo come il nostro non può permettersi una realtà in cui a quattro minuti dalle nostre comunità si trova un focolaio di odio e terrorismo».

 A conferma che quella dei due ministri non era un’uscita isolata, è arrivata poco dopo la notizia, pubblicata dal quotidiano «The Times of Israel», citando fonti governative, secondo cui Israele sta trattando il reinsediamento dei profughi della Striscia di Gaza con paesi africani e arabi. In particolare – secondo quanto riporta il giornale – il governo ha avviato una trattativa con il Congo, che si sarebbe detto “disponibile”. Per quanto riguarda il mondo arabo invece – spiegano le stesse fonti – sarebbero in corso sondaggi con l’Arabia Saudita.

 Da parte sua Netaniahu ha parlato pubblicamente di una deportazione, precisando che il problema è di trovare chi sia disposto ad accogliere gli esiliati, ma riferendosi finora solo ai «terroristi».

 Il carattere “volontario” del trasferimento

In realtà quella di un trasferimento della popolazione di Gaza è un’idea che circola già da settimane. In ottobre, il ministro dell’Intelligence del governo israeliano, Gila Gamliel, aveva proposto all’Egitto di piazzare «temporaneamente» i gazawi nel deserto del Sinai. E alla fine di novembre, la dichiarazione congiunta finale del vertice straordinario dei leader dei paesi del Brics (un gruppo che raccoglie le economie emergenti del pianeta) diceva che questi Stati «si oppongono alla deportazione forzata dei palestinesi». Una ipotesi che evidentemente già allora era nota a livello internazionale .

 Consapevole della difficoltà dell’espressione “deportazione forzata”, proprio in questi giorni sempre il ministro Gamliel, tornando sull’argomento, ha parlato di «creare condizioni che incoraggino i palestinesi che vogliono costruire la propria vita altrove».

 Insomma, si tratterebbe di riprodurre quel fenomeno che, nella versione di Israele, è stata la «migrazione volontaria» dei palestinesi dai territori dove avevano abitato per secoli. Oggi si parla di «reinsediamento volontario» ed è un progetto, caldeggiato, come si è visto, da una parte del governo di Tel Aviv che mira a incentivare la popolazione palestinese di Gaza a lasciare le proprie case. O, meglio, ciò che ne resta dopo tre mesi di bombardamenti, abbandonando l’idea della ricostruzione della Striscia e spostandosi all’interno dei confini di uno Stato estero.

 Certo, il Congo, con il 52,5% della popolazione al di sotto della soglia minima di povertà, non sarebbe un paradiso. Ma non lo sono neppure i campi profughi dove, sempre secondo la ricostruzione storica israeliana, gli abitanti dei territori della Palestina si sarebbero spontaneamente ritirati, vivendovi ancora oggi accampati in condizioni proibitive. Perché non dovrebbe ripetersi un analogo trasferimento “volontario”?

 Si diceva all’inizio che in tutto questo vi è qualcosa di più inquietante, forse, dei più di 22.000 morti, della fame, dello sfollamento forzato degli abitanti di Gaza dalle loro case, che la guerra finora ha provocato. Qui si tratta di un progetto che mira a sradicare un popolo dalla sua terra, uccidendone l’identità storica. Non è genocidio, certo. L’accusa del Sudafrica contro lo Stato ebraico presso il Tribunale internazionale dell’Aia persegue un falso bersaglio ed è destinata ad essere respinta. Israele non vuole sterminare i palestinesi. Vuole solo che se ne vadano. Non è genocidio. Il nome tecnico è “pulizia etnica”.

 Il compimento di un progetto

Oggi come ieri. È quello che il programma sionista che è all’origine dello Stato ebraico ha sempre voluto. Certo, va detto che all’inizio le terre furono regolarmente acquistate dagli ebrei che cominciavano a insediarsi in Palestina. Ma ciò non riguarda se non una parte – secondo alcuni il 10%  – del territorio. Come va detto che, in occasione della guerra del 1948 tra Israele e i paesi arabi, furono proprio questi ultimi ad esortare i palestinesi ad andarsene.

 Ricordare questi aspetti della complessa questione, come ha fatto Pasquale Hamel nel suo intervento pubblicato recentemente su “Tuttavia”, è un contributo significativo alla ricostruzione dei fatti.

 Ma ci sono altri aspetti che non possono essere ignorati e che sono stati messi in luce dagli studiosi israeliani della cosiddetta “nuova storia”, sorta negli anni Ottanta, i quali – come scrive uno di essi (Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina) – «utilizzando principalmente gli archivi militari israeliani», hanno dimostrato «falsa e assurda» la tesi del «trasferimento volontario», rivelando «che le forze ebraiche avevano commesso un gran numero di atrocità». 

 In realtà, come risulta da una documentazione inoppugnabile, fin dal marzo 1948 l’Haganà, la principale organizzazione armata clandestina sionista, guidata da Davide Ben Gurion (venerato dagli israeliani come “il padre della patria”) aveva programmato e avviato un programma di sistematica espulsione dei residenti palestinesi. La sua finalità era espressa nelle parole: «I palestinesi devono andarsene». A monte, c’era la «determinazione ideologica sionista ad avere un’esclusiva presenza ebraica in Palestina».

 I metodi non erano quelli della compravendita: «Intimidazioni su vasta scala; assedio e bombardamento di villaggi e centri abitati; incendi di case, proprietà e beni; espulsioni; demolizioni; e infine collocazione di mine tra le macerie per impedire agli abitanti espulsi di fare ritorno».

 «Ci vollero sei mesi per portare a termine la missione. Quando questa fu compiuta, più di metà della popolazione palestinese originaria, quasi 800.000 persone, era stata sradicata, 531 villaggi erano stati distrutti e 11 quartieri urbani svuotati dei loro abitanti».

 Scrive Pappé: «Davide Ben Gurion, nel suo libro Rebirth and Destiny of Israel, p.530, notava candidamente che: “Fino alla partenza degli inglesi, il 15 maggio 1948 nessun insediamento ebraico, anche remoto, era stato attaccato o occupato dagli arabi, mentre l’Haganà aveva conquistato molte posizioni arabe e liberato Tiberiade, Haifa, Giaff e Safad (…). Così, nel giorno del destino, quella parte della Palestina dove l’Haganà poteva operare era quasi ripulita dagli arabi”». Non si parla così del risultato di una legittima compravendita di terreni né di un esodo volontario.

 Oggi questo progetto – perseguito peraltro sistematicamente con la moltiplicazione degli insediamenti illegali in Cisgiordania – sembra prossimo a trovare il suo compimento con la espulsione dei palestinesi anche da Gaza, dove si erano rifugiati. Sempre sottolineando che questo avverrà “volontariamente”.

 Magari anche grazie a una tempesta di fuoco che ne ha già uccisi 22.000 e distrutto più del 30% delle case e a un blocco dei viveri e dell’energia che ha ridotto i superstiti – secondo tutte le agenzie umanitarie – a condizioni di vita disperate. E, come è chiaro da come sono andate le cose finora, neppure l’opposizione degli Stati Uniti sembra in grado di fermare il governo di Netaniahu.

 Come non lo sono state le imponenti proteste di piazza che da tre mesi si susseguono in tutte le città occidentali. Del resto, continua ad essere predominante nei governi occidentali, la tesi che Israele va comunque difeso perché esprime i valori della nostra democrazia e che – come ha detto un nostro uomo politico, stigmatizzando quelle proteste – , «l’odio per Israele è l’odio che l’Occidente ha per se stesso, per la libertà, l’uguaglianza e i diritti umani».

* Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo,

Scrittore ed Editorialista.

 www.tuttavia.eu

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venerdì 1 dicembre 2023

OLTRE I CAMPI DI DETENZIONE

 RITROVARE UN'ANIMA PER CONDIVIDERLA



-         di Giuseppe Savagnone*

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Le violazioni dei diritti dei migranti

La sentenza con cui, qualche giorno fa, la Corte europea dei diritti umani (CEDU) ha condannato l’Italia per la detenzione illegale e il trattamento «inumano e degradante» di quattro migranti minori (tre gambiani e un ghanese), nell’hotspot di Taranto, nel 2017, non è che l’ultima di una serie di pronunzie a carico del nostro paese da parte del Tribunale di Strasburgo – un organismo giudiziario del tutto indipendente dal Consiglio e dal parlamento della UE e dunque non sospetto di portare avanti un discorso politico.

 Lo scorso ottobre una analoga condanna nei confronti dell’Italia era stata emessa dalla CEDU per le stesse violazioni dei diritti umani, questa volta a danno di tre migranti tunisini, nell’hotspot di Lampedusa. E poco prima, in agosto, una sentenza della Corte europea aveva riguardato la mancanza di un’adeguata accoglienza e tutela di una ragazza minorenne originaria del Ghana. Ma già nel luglio 2022 ce n’era stata un’altra per i maltrattamenti ai danni di un minore del Gambia.

 Tutti gli episodi in questione riguardano il 2017, e sanzionano dunque la gestione dell’accoglienza dei migranti da parte del governo Gentiloni. Lo stesso che, grazie al ministro dell’Interno Minniti, in quello stesso anno ha stretto accordi con la Libia perché trattenesse i migranti in centri di detenzione che, secondo la denunzia dell’ONU, sono dei veri e propri lager, dove tutti i diritti umani sono sistematicamente violati.

 Già allora, dunque, con una maggioranza parlamentare e un esecutivo di centro-sinistra, che a parole si pronunziavano a favore di una politica di integrazione, non solo non si faceva praticamente nulla per realizzarla, ma si mantenevano in piedi strutture di “finta accoglienza” – in realtà più simili a campi di concentramento – dove la dignità delle persone veniva calpestata.

 Le cose potevano solo peggiorare – e sono infatti peggiorate – con l’avvento del governo di destra, il quale aveva messo tra i punti qualificanti del suo programma elettorale la «difesa dei confini nazionali ed europei» e il «controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani». Dove l’espressione «difesa dei confini nazionali ed europei» implicava, già di per sé, l’assimilazione dei migranti a invasori da respingere.

 E su questa linea si è mossa – anche se con scarsissimo successo – l’esecutivo guidato dalla Meloni, adottando misure fortemente restrittive nei confronti delle navi delle Ong impegnate nel salvataggio dei naufraghi nel Mediterraneo, rinnovando e rafforzando gli accordi con la Libia, stringendone di nuovi (poi disattesi dall’altra parte) con la Tunisia e lanciando, ultimamente, il fantasioso progetto di “deportare” i migrati adulti in Albania.

 È in questa logica ostile e penalizzante che il Consiglio dei ministri, il 6 ottobre 2023, con decreto-legge, ha consentito il collocamento di migranti minorenni con più di 16 anni nei centri detenzione riservati agli adulti.

 Una prassi già purtroppo ampiamente in voga e che si è voluto così rendere legale, favorendo una promiscuità che tutti gli esperti ritengono rovinosa per i più giovani, tanto più che quei centri sono già di per sé sovraffollati, con servizi igienici assolutamente inadeguati (si parla di due per quaranta persone) e privi di assistenza legale e psicologica e di insegnamento dell’italiano.

 Anche attualmente a Taranto – denuncia l’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) –, «nell’hotspot allestito su un parcheggio nel porto, completamente isolato dal contesto urbano e sociale locale, e assolutamente inadatto ad ospitare minori, attualmente ci sono 185 minori stranieri trattenuti di fatto in assenza di ogni base legale e di vaglio giurisdizionale, alcuni addirittura da agosto».

 Ora, la prima delle violazioni dei diritti umani sanzionate dalla Corte europea con la sua più recente sentenza è proprio che i quattro minori africani fossero stati alloggiati, nel 2017, nell’hotspot di Taranto, previsto per soli adulti!

 Aspettiamoci dunque altre condanne, questa volta non nei confronti di una prassi occasionale, ma di una legge che nasce all’insegna del misconoscimento delle più elementari esigenze delle persone più giovani.

 Insomma, sia la sinistra che la destra – al di là dei proclami di segno opposto – hanno ampiamente dimostrato la loro mancanza di un vero progetto di accoglienza e di integrazione, capace di trasformare il fenomeno migratorio da drammatica minaccia in risorsa.

 Certo, sulla carta l’atteggiamento del PD è stato molto diverso dall’accanimento xenofobo della Lega e di Fratelli d’Italia. Ma è significativo che, nel tempo in cui è stato al governo, questo partito non abbia neppure provato a smantellare quei “decreti sicurezza” che avevano costituito la gloria dell’ex ministro dell’Interno Salvini.

 Una politica suicida dal punto di vista economico

E che questa sia una politica autolesionista, da parte de nostro paese, lo dice il dato incontestabile che, nella misura in cui gli stranieri vengono messi in condizione di inserirsi nella nostra società – invece di esserne tenuti ai margini, isolati in campi di detenzione fuori dei circuiti civili –, sono già oggi in grado di dare un apporto decisivo alla nostra economia.

 Questo è vero, per esempio, se si guarda al loro ruolo nel sistema pensionistico. È dell’aprile scorso l’intervista su «La Stampa» in cui il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, ha detto chiaramente che, per quanto riguarda il rapporto tra lavoratori e pensionati, con l’attuale andamento demografico «dopo il 2040 arriviamo alla soglia dell’uno a uno, un numero che definirei davvero critico» e aveva indicato come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche», spiegava il presidente dell’Inps, «hanno tutte molti migranti».

 E, facendosi interprete delle pressanti richieste degli imprenditori, che chiedono l’allentamento delle restrizioni all’ingresso di lavoratori stranieri, aveva aggiunto: «Anche noi abbiamo l’esigenza di coprire lavori medio-bassi da Nord a Sud con gli stranieri.

 La soluzione non può che essere l’accesso di immigrazione regolare e fluida». Così, del resto, è stato altrove. A questo proposito Tridico si è appellato all’autorità del premio Nobel americano Paul Krugman: «Krugman segnala come negli Stati Uniti gli immigrati siano stati la leva più dinamica nel contributo alla crescita dell’economia».

 Ma perché questo inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro sia possibile non basta, ovviamente, lasciarli arrivare, evitando che affoghino nel Mediterraneo: bisogna anche insegnare loro la nostra lingua, valorizzare le abilità e le competenze di cui spesso sono portatori, renderli partecipi di una vita sociale in cui le relazioni tra di loro e quelle con gli italiani siano sviluppate e diventino normali.

 Qualcosa che finora non è stato mai organicamente perseguito dai governi precedenti ed esattamente il contrario di ciò che quello attuale sta cercando di realizzare.

 Ritrovare un’anima per condividerla

Tutto ciò però riguarda ancora solo l’aspetto economico. Il problema di fondo che si prospetta è più generale, e ha come suo punto fondamentale la questione culturale. È soprattutto sotto questo profilo che la politica inconcludente della sinistra e quella risolutamente ostile della destra sono suicide. In particolare, la linea ferocemente difensiva di quest’ultima appare ispirata alla preoccupazione di evitare una «sostituzione etnica» – come l’ha chiamata il ministro Lollobrigida in un suo discorso, –, che sarebbe anche una “sostituzione” culturale.

 Ed è vero che la percentuale di stranieri, in Italia, pur essendo nettamente più bassa che in altri paesi europei, come la Francia e la Germania, è destinata a crescere abbastanza rapidamente, anche solo per effetto del differente tasso di natalità tra essi e gli italiani.

 In particolare, preoccupa il fatto che la maggior parte di loro è di religione islamica (anche se non mancano, anzi sono numerosi, i cristiani!) e sono dunque portatori non solo di una fede, ma anche di una cultura molto diversa dalla nostra.

 Ma proprio per evitare uno scontro di civiltà da cui alla fine usciremmo perdenti, la sola politica adeguata non è quella dei muri e dei campi di concentramento, bensì quella basata su una ragionevole accoglienza (nessuno ne vuole una indiscriminata) e soprattutto su una capillare opera di integrazione culturale, che consenta ai nuovi arrivati di diventare non solo lavoratori, ma cittadini italiani.

 E per questo un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata proprio ai minori, più suscettibili di essere educati in questo senso. Dove lo scopo non dev’essere di cancellare la loro identità con una assimilazione forzata, ma di valorizzarla in tutti gli aspetti che possono favorire un dialogo costruttivo e una cooperazione – non solo una convivenza! – civile in funzione di un unico bene comune.

 Solo che, per sperare di realizzare questo, l’Italia stessa – come del resto tutta l’Europa – deve uscire da un vuoto spirituale e valoriale che la sta desertificando e di cui purtroppo sono evidente espressione sia la classe politica della sinistra che quella della destra.

 Il nostro paese – e non solo quello – deve ritrovare un’anima. Come potrà, altrimenti, chiedere a chi arriva dall’esterno di condividerla?

 Si tratta di ricostituire un tessuto di valori comuni, una prospettiva di senso condivisa, che consentano di uscire dalla logica dell’individualismo selvaggio e del consumismo oggi dominanti.

 Continuare a puntare sulla difesa disperata di questo vuoto, alzando barriere e costruendo campi di concentramento, non fa che evidenziarlo e rendere sempre più reale il pericolo che si vuole esorcizzare.

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura, Diocesi Palermo

www.tuttavia.eu