Visualizzazione post con etichetta baby gang. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta baby gang. Mostra tutti i post

martedì 22 agosto 2023

LA VIOLENZA DEL BRANCO

 

Il fenomeno delle "baby gang", tristemente presente in varie città italiane, dal Nord al Sud, interpella istituzioni e singoli cittadini. Serve ben poco esternare meraviglia e condanna. Occorre  vigilare, chiedersi il perchè e cercare risposte educative a questo grave problema, promuovendo opportune alleanze educative. 

Ne siamo tutti responsabili. 

                                                                                                                                                                                 -  di  Leonardo Cecchi

Per curiosità, stamani ho cercato su Google “Baby gang” e messo la sezione “Notizie”.

MMi aspettavo che la vicenda di Palermo monopolizzasse (giustamente) tutta la ricerca, ma mi sbagliavo. E di grosso.

Solo negli ultimi giorni, a Teramo un gruppo di ragazzini si è affrontato a colpi di machete (non coltello: machete).

A Ostia un branco di 60 ragazzi ha organizzato un vero e proprio tour all’insegna di vandalismo e violenza, terrorizzando il centro.

A Torino 3 persone sono state pestate a sangue per noia da un altro gruppo.

Vicino Taranto un altro branco di minorenni ha massacrato di botte e poi accoltellato un cane poco più che cucciolo “adottato” dalla comunità, solo perché voleva giocare con loro.

E ancora, ancora, ancora. Botte, raid, stupri, rapine sfide di vario genere che prevedono violenza. Non si sta dietro a tutti i fatti accaduti negli ultimi 3-4 giorni.

 Penso dunque che la nostra società, oggi, sia letteralmente sotto assedio. E il nemico alle porte si chiama “male”. E no, non è retorica: è male nel senso quasi religioso del termine. Il “male” come elemento assoluto, puro, deumanizzante. Come “vuoto”, assenza di spirito, etica, morale di qualsivoglia tipo. Quel male corre con la non-cultura di oggi. Origina dall’individualismo sfrenato, che abbatte ogni forma di etica (voglio divertirmi e se il mio divertimento è stuprare, picchiare, accoltellare lo faccio: tutto va bene per appagare i miei “bisogni”).

Dalla totale mancanza di cultura. Ma prospera – e voglio dirlo chiaro – grazie a genitori peggiori dei figli. Genitori che non solo non fanno da barriera al male che entra dentro i loro figli, ma ne agevolano la fioritura dentro gli stessi dando loro esempi di malvagità, cinismo, avidità, egoismo e bruttezza morale in maniera quotidiana (quanti ne ho visti così).

L’ennesima prova è la madre di uno degli stupratori di Palermo, che ha suggerito al figlio di nascondere il telefono e dire che la ragazza è una poco di buono. Ma troppi ce ne sono.

Intelligente sarebbe oggi riformare i servizi sociali, che per un motivo o per un altro oggi non funzionano (se funzionassero non avremmo migliaia di baby gang con genitori peggiori dei figli). E darsi davvero da fare per intervenire sempre e comunque, togliendo i figli quando si ravvisano situazioni del genere.

È drastico, lo so. Ma l’alternativa è consentire a quel male di continuare a prosperare. Mietendo altre vittime come la ragazza di Palermo.

E direi che non possiamo permettercelo.

sabato 28 maggio 2022

LE BABY GANG CI INTERROGANO


 I dati dell’Osservatorio sull’adolescenza: in Italia il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda e il 16% commette vandalismi.

Dopo i quindicenni che terrorizzavano Arezzo ispirandosi alle violenze di “Scarface”, altri 4 minori arrestati a Torino: «Il problema non è più la loro origine o la loro estrazione sociale Questa violenza va capita e intercettata»

Città ostaggio delle baby gang 

«Gli adulti? Servono in strada»

 

-      di FULVIO FULVI

 E' di nuovo allarme “baby gang”. I quattro minori arrestati che seminavano terrore a Torino – dopo quelli che ad Arezzo si ispiravano al personaggio cinematografico di Scarface – sono solo gli ultimi, in ordine di tempo, a finire nelle maglie della giustizia per aggressioni, rapine, minacce, abusi. Il fenomeno riguarda tutto il Paese, soprattutto le grandi città, da Milano a Roma, da Napoli a Palermo. E quasi sempre, ormai, non contano più l’ambiente, la provenienza o il rango sociale di chi si mette nel branco per sentirsi più forte e credendo di trovare così la propria identità. Si tratta di pestaggi tra bande rivali (e spesso ci scappa anche il morto), di atti vandalici rivolti contro la città oppure, come è accaduto nel capoluogo piemontese, di violenze e soprusi contro persone che il “branco” percepisce come più fragili, per ottenerne un tornaconto. Bullismo estremo o qualcos’altro?

 A Torino la banda agiva col cappuccio in testa e un atteggiamento sprezzante, soprattutto nel sottopasso della metropolitana della stazione Carducci, dove puntava tra i passanti una possibile preda, quasi sempre un ragazzo della loro età, che veniva infastidito con molestie verbali, minacciato con un coltello e infine derubato di denaro, del cellulare, della felpa o di un capo firmato. Sempre la stessa, come negli altri casi, la metodica usata. In quattro sono finiti in manette, tra i 15 e i 17 anni, tre italiani e uno di origine marocchina, con l’accusa di rapina aggravata in concorso, tentata e consumata, resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento aggravato, lesioni personali e detenzione di armi da taglio. Gli episodi di violenza che vengono attribuiti alla gang di adolescenti, molti dei quali registrati dalle telecamere di sorveglianza, si riferiscono al periodo tra il novembre dell’anno scorso e il febbraio 2022: una decina di “colpi” messi a segno anche nelle vie intorno alla Mole Antonelliana e nella periferia torinese di Nichelino. Gli ordini di custodia cautelare in carcere sono stati emessi dal gip del tribunale dei minori. Ma da gennaio ad oggi i carabinieri hanno arrestato, solo in città, 15 giovanissimi per reati contro il patrimonio, parte di loro appartenenti a bande organizzate, altri 22 sono stati invece denunciati e 13 sottoposti a daspo urbani, due dei quali – inutili – proprio nei confronti dei ragazzini fermati ieri.

 Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, istituito presso il ministero per la Famiglia, in Italia il 6,5% dei minorenni fa parte di una banda, il 16% ha commesso vandalismi, 3 ragazzi su 10 hanno partecipato a una rissa. Rabbia e disagio sarebbero la molla dei loro comporta-È menti da codice penale. «Il fenomeno delle “baby gang” va però analizzato con molta attenzione, perché, per esempio, se all’inizio riguardava quasi esclusivamente i figli di stranieri, oggi sono i ragazzi italiani a farne parte: il contesto culturale, ma anche quello territoriale, erano aspetti che potevano spiegare il problema, ora non più» spiega Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell’adolescenza all’Università cattolica di Milano. 

«È stata la pandemia da Covid- 19, sicuramente, uno dei fattori che hanno reso più evidenti i disagi e i malesseri psico-sociali dei giovani – precisa Confalonieri –, le misure di restrizione della libertà, come il  lockdown e il distanziamento fisico, hanno allentato fortemente la possibilità di relazioni e incontri, e questo ha esacerbato i comportamenti di molti adolescenti». Ma se la violenza ha preso piede tra i minori la colpa, secondo gli esperti, è soprattutto degli adulti. «I ragazzi hanno capito, infatti, sbagliando, che seguire i modelli dei grandi è l’unica possibilità di sopravvivere – sostiene la psicologa –, altrimenti costerebbe loro troppa fatica, non sentendosi sostenuti da famiglia, scuola e comunità, non trovando risposte ». Cosa serve, allora? «Manca una rete di protezione sul territorio – dice la professoressa Confalonieri –, non ci sono centri di aggregazione, spazi di incontro dove i giovani possono esprimersi con laboratori ed esperienze: però le iniziative non devono essere imposte dagli adulti ma proposte dai diretti interessati». Un lavoro educativo che rovesci le solite logiche. «Andrebbero formati e messi in azione – spiega la docente della Cattolica – educatori di strada che cercano di andare nei luoghi dove i giovani vivono, di parlare con loro e recepirne le istanze, farsi dire quali sono i loro desideri. Ma la politica – conclude – finora non ha dato segnali, esistono certo le associazioni di volontariato, gli oratori, ma non bastano: sono necessarie figure professionali in grado di ingaggiare e sostenere con i ragazzi un dialogo costruttivo: siamo noi che dobbiamo andare da loro e non viceversa». «Va detto, però, che non tutti i comportamenti di offesa, violenza finalizzati all’impossessamento di cose altrui, come nel caso della banda della metropolitana – precisa Franco Prina, docente di Sociologia giuridica e della devianza all’Università di Torino – sono razionali, perché dietro c’è quasi sempre la voglia di umiliare e prevaricare chi si ritiene essere “più fortunato di me”, portare via il telefonino o la felpa ha un valore simbolico, ha a che fare l’immagine che si vorrebbe avere ed esprime frustrazione e rabbia verso il mondo, è una sfida alle istituzioni». Un’ingenuità: quasi sempre i “bulli” vengono presi. «Anche perché il più delle volte si filmano essi stessi col cellulare e postano sui social le loro malefatte – spiega Prina –, vogliono che altri li vedano, mettano dei like riconoscendoli come soggetti coraggiosi che sfidano il mondo». 

Per fortuna l’Italia non è messa peggio di altri Paesi. «La marginalità dei nostri ragazzi – sostiene il sociologo Prina – è diversa, per esempio, da quella delle banlieu parigine, o da quella dei loro coetanei statunitensi: nelle nostre città non ci sono ghetti; il fatto che li accomuna tutti, però, è la fragilità dei genitori nell’esercitare il ruolo educativo, di avere un controllo sui figli e capire cosa è giusto fare e cosa no. Bisogna intercettare il disagio – conclude anche lui – andando nelle strade e nelle piazze, bisogna lavorare con genitori, insegnanti, ci vorrebbe un “progetto giovani” promosso dalle amministrazioni locali, serve investire su prevenzione e sostegno ai più fragili».

 www.avvenire.it

 

sabato 12 febbraio 2022

MINORENNI SENZA MODELLI

"
Non hanno un modello serio, sono circondati da adulti infantili”

I dati sugli adolescenti segnalano un forte aumento di violenza e devianza sociale. 

I giovani, senza modelli adulti, li cercano nei pari

Sono dati allarmanti quelli resi noti dall’Osservatorio nazionale sull’adolescenza. Il 6,5% dei minorenni italiani fa parte di una delle cosiddette baby-gang che tanto si sono tristemente distinte nella cronaca recente per atti di violenza, aggressioni, rapine, risse. Il 16% ha commesso atti vandalici e tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. Un fenomeno sociale prima che criminale, lo definisce il procuratore capo dei minori di Brescia, Giuliana Tondino. Alla base di tutto, più che “deficit cognitivi” come sottolinea il rapporto, c’è “un problema educativo” ci ha detto Mario Pollo, professore di Pedagogia generale e sociale alla Lumsa di Roma: “I ragazzi di oggi in qualche modo sono abbandonati a se stessi.

Coi più per loro il gruppo di pari che le relazioni verticali con genitori e professori”. Se il gruppo dei pari è composto da elementi che fanno esperienze di devianza, ci ha detto ancora Pollo, “ecco che il ragazzo viene influenzato a prendere un percorso analogo”. Tutto questo perché gli adulti, che con il loro esempio dovrebbero aiutare i giovani a vivere quel momento critico che è il passaggio dall’adolescenza all’essere adulti, “sono oggi adulti infantili, incapaci di proporre loro un modello a cui guardare, obbligandoli a cercarlo tra di loro”. In sostanza, “mancano figure di adulti che sanno ascoltare, mostrare il senso del loro stare al mondo”.

Il rapporto dell’Osservatorio nazionale sull’adolescenza parla di “deficit cognitivi non riconosciuti o riconosciuti tardivamente” per spiegare questo disagio giovanile. Che ne pensa?

Non sono d’accordo, il deficit cognitivo non è causa di violenze o di trasgressioni. Posso avere una bassa capacità di elaborare un pensiero logico, un basso livello culturale, ma questo non comporta necessariamente che io sia un trasgressore o un deviante. Era una vecchia ipotesi della criminologia che collegava il compiere un gesto criminale a una carenza mentale. Studiosi più seri hanno rilevato come per compiere certi gesti occorre, anzi, avere una intelligenza molto sviluppata.

In realtà si parla anche di “deficit educativi”, ragazzi bocciati o che abbandonano presto la scuola senza inserirsi in modo regolare nel mondo del lavoro.

Questo è un evento che può innescare un percorso di devianza. Il fallimento scolastico non deriva quasi mai da un deficit cognitivo, ma da modelli di ragazzi non integrati nell’ambiente scolastico, che non colgono cosa significhi la scuola, che hanno probabilmente una famiglia che non li supporta in questo. Sono però ragazzi molto intelligenti.

Non a caso non si tratta solo di fenomeni relegati a certe zone particolarmente disagiate, ma si verificano anche in città come Milano da parte di giovani appartenenti a famiglie del ceto medio-alto. C’è quindi un problema educativo alla base di tutto?

Il problema vero è il modello educativo, che è in crisi. Questi ragazzi non trovano nel loro percorso, in un momento di passaggio delicato come è quello adolescenziale, chi li sostenga nel progettare la loro vita. Non vengono offerti loro degli esempi, delle esperienze che li aiutino a scoprire il proprio potenziale umano e gli obbiettivi del loro percorso di vita.

A mancare, quindi, è proprio il percorso mentale e psicologico in un momento essenziale nello sviluppo della personalità?

Sono in qualche modo abbandonati a se stessi. Nell’adolescenza oggi conta di più il gruppo di pari che le relazioni verticali con genitori e professori. Se nel gruppo dei pari si verificano episodi di violenza o di uso di droghe, ecco che accadono gli episodi di devianza citati dall’Osservatorio.

È il fenomeno delle cosiddette baby gang. È corretto, secondo lei, affermare che in queste gang gli adolescenti cercano un’appartenenza che non trovano altrove?

Il gruppo, sia quello normale che quello che si rende autore di episodi di devianza, è diventato il luogo principale dell’elaborazione del distacco dalla famiglia, e dalla sua dipendenza, per acquisire l’autonomia adulta. Una volta questo processo avveniva nel rapporto con il mondo adulto, oggi avviene nel mondo dei pari.

Cosa accade in concreto?

Accade che, se un ragazzo capita in un gruppo deviante, le esperienze che il gruppo gli propone diventano i percorsi di iniziazione al distacco dall’origine e l’elaborazione dell’autonomia adulta. È un modo disfunzionale. Quando la questione giovanile era oggetto di maggiore attenzione, in alcune realtà comunali e sociali esistevano centri di aggregazione giovanile dove si incontravano figure educative. Esistevano addirittura i cosiddetti educatori di strada con il compito di agganciare questi gruppi, entrare in relazione e lavorare con loro, al fine di prevenire e di sostenerli nel loro cammino di crescita.

Anche gli oratori avevano questa funzione.

Sì, ma per coloro che non avevano a disposizione gli oratori c’erano iniziative di carattere pubblico, sebbene non diffusissime, con uno spiccato interesse per i giovani e che oggi invece mancano completamente.

Cosa manca invece oggi nella famiglia e nella scuola? Che cosa ha causato la rottura di questo percorso educativo?

Spesso mancano figure adulte che l’adolescente desideri imitare, figure significative che possano avviare un processo di identificazione nel ragazzo. Molti adulti oggi, in famiglia e anche a scuola, sono adulti infantili che non diventano modelli, ragione per cui i ragazzi scelgono qualche altro adolescente per il processo di identificazione. In più, non c’è nella famiglia una capacità di dialogo. In passato più volte mi sono imbattuto in giovani che dicevano che i genitori non li ascoltavano, ma li giudicavano. È la capacità di ascolto, di essere propositivi di un modello che educa. Non si tratta solo di stimolare i figli al successo, ma di aiutarli a diventare se stessi. 

L’adulto che sa ascoltare, che sa mostrare il senso del suo stare al mondo è la figura che manca oggi. Lo ha ricordato anche Papa Francesco parlando al programma televisivo “Che tempo che fa”: adulti che sappiano stare con i figli. Bergoglio ha parlato di società crudele, che con i suoi ritmi di lavoro allontana genitori e figli. Che ne pensa?

È vero. Però vorrei citare l’esempio di mio padre: faceva due lavori, uno di notte e poi di mattina da un’altra parte. Nel pomeriggio doveva dormire, eppure non l’ho mai sentito assente. Non è tanto l’assenza fisica il problema, che certamente ha la sua importanza. Ma questa assenza può essere surrogata da un certo tipo di attenzione, anche quel poco tempo che si passa insieme può diventare un tempo significativo. E poi si può educare anche senza dire una parola: non si educa con le prediche, ma con il proprio modo di essere. Quando dico una cosa, chi mi ascolta sa che è una cosa che io vivo profondamente e a cui resto fedele. Ed è questa la cosa più importante, più della quantità di tempo trascorso insieme.

(Paolo Vites)

Il Sussidiario

 

sabato 4 maggio 2019

ALLARME BABY GANG. CHE COSA PUO' FARE LA SCUOLA?

L’analisi degli ultimi terribili fatti di cronaca mette in luce la difficoltà degli adolescenti a rapportarsi col mondo degli adulti e la necessità delle agenzie educative di intervenire.
Secondo il vicepresidente Agesc Claudio Masotti la scuola non deve abdicare a quelli che sono i suoi diritti/ doveri ricordando e ricordandosi che una società non può reggersi in assenza del principio di autorità. Ribadire quali sono i valori fondanti in cui si basa una società è un dovere che non può essere messo in discussione e che va continuamente ribadito ed affermato.
Il dilagare della violenza esercitata da bande di delinquenti minorili è un argomento di stringente attualità che preoccupa i genitori. Secondo lo psichiatra ed educatore Maurizio Colombo la necessità, in età adolescenziale, di riunirsi in gruppi di coetanei, è un fatto fisiologico e parte integrante del percorso di presa di coscienza di sé e di emancipazione del ragazzo. Ciò può portare anche ad assumere atteggiamenti critici nei confronti dei genitori e del contesto sociale, ma non dovrebbe mai assumere contenuti devianti. «L’adolescente che un po’ per volta si distacca dal nucleo familiare, per elaborare la perdita è spinto a cercare sostegno in qualcosa che possa sostituirlo, magari contrapponendosi ad esso. Il genitore, che nell’infanzia era percepito come depositario di grandi virtù, sottoposto ad un più acuto esame critico, si rivela come “umano” e quindi fallibile e affetto da molte umane debolezze» spiega Colombo.
Sovente il ragazzo in una società consumistica in cui i valori tradizionali sono andati in crisi, rimprovera i suoi per non avergli garantito una “adeguata” ricchezza che gli può garantire uno status che spesso identificato nella possibilità di possedere oggetti di lusso. «Questo è particolarmente vero nelle comunità degli immigrati. Statisticamente la seconda generazione è la più a rischio: se la prima, infatti, ha patito il distacco dal paese natio ma ha continuato a valersi dei principi appresi nella terra natale, i figli degli immigrati si sentono completamente disancorati e lontani tanto dalla cultura di origine, tanto da quella del paese natale. «Si percepiscono discriminati e qualche difficoltà a scuola, unita al fatto di crescere in quartieri di periferia, acuiscono la frustrazione ed alimentano la convinzione di non poter riscattare la loro infelice condizione. Il risentimento e la conseguente disperazione si traducono in comportamenti smodatamente aggressivi». Ma, come hanno dimostrato i fatti terribili di Manduria – con una baby gang tutta italiana arrivata ad accanirsi contro un uomo anziano e disabile fino a farlo morire – «la convinzione di non potersi riscattare in alcun modo conduce ad un abietto nichilismo, evidenziato dalla teatralità che spesso identifica le loro imprese» in ogni contesto. Anche in quelli più agiati. Il desiderio di apparire ai propri occhi come a quelli dei compagni come onnipotenti, gioca un ruolo non secondario, ma l’aspetto più significativo è la volontà di urlare in faccia alla società la loro diversità, il furore, il disprezzo, «Contrariamente al delinquente comune, che si preoccupa di non essere identificato, il giovane teppista agisce in modo da essere riconosciuto come tale. Filma le sue malefatte, si abbiglia in modo inconfondibile, reitera il delitto in modo goffo e non studiato rinunciando così implicitamente alla possibilità di sottrarsi alla inevitabile punizione. Questo non per autopunirsi, ma perché – ribadisce Colombo – vuole testimoniare la sua esistenza, il suo rancore, e il suo odio nei confronti della società».