di
Alessandra Smerilli
Chi è
l’adulto? Participio passato del verbo adolescere, è sinonimo di
"cresciuto": in quasi tutte le culture è apparso desiderabile
giungere a una reale maturità, e così il passaggio verso il mondo delle
responsabilità è stato ritualizzato in una festa. Invece sono in molti a
rilevare come oggi, almeno in Occidente, essenziale sia rimanere o ritornare giovani,
se possibile per tutta la vita. A livello antropologico si tratta di una
deregulation senza precedenti. Non è più definito che cosa sia proprio di ogni
generazione e ciò che ci si debba aspettare dalle diverse età. Ognuno può
prendersi il ruolo dell’altro. Le possibilità di ciascuno si moltiplicano, così
come una competizione in cui chiunque può rivelarsi avversario. Per il
cristianesimo si tratta dell’implosione di un rapporto tra le generazioni
apparentemente imprescindibile per la trasmissione della fede: in famiglia e
poi in comunità gerarchicamente strutturate i grandi educano i piccoli alla
vita, introducendo a un ordine spirituale che si vorrebbe riflesso in quello
sociale.
Sebbene in qualche angolo del
pianeta sembri funzionare ancora, internet materializza ovunque lo
scardinamento di quel modello, connettendo ormai "orizzontalmente"
ragazzi e adulti a ogni latitudine, senza distinzione di ruoli e identità. Non
deve dunque sorprendere che, in ambito cattolico, persino il Sinodo dei vescovi
si orienti a non concepire più i giovani semplicemente come
"destinatari" della fede: non c’è semplicemente un messaggio da
trasmettere da chi sa a chi non sa, ma un’esigenza continua di convertirsi
insieme alla novità del Vangelo. Potremmo allora legittimamente chiederci: i
giovani hanno ancora bisogno degli adulti? In che cosa possiamo aiutarli? Come
ci interpella questo tempo?
Ci sono
questioni che investono la fede stessa in cui i millennials stanno
evidentemente facendo da apripista e come da enzimi nel corpo sociale. Intensa,
ad esempio, è generalmente la loro sensibilità per la cura della casa comune,
nelle sfide che riguardano il rispetto per il creato e la necessità di
cambiamento nei nostri comportamenti quotidiani. Durante un incontro sul
rapporto tra economia e ambiente, ad esempio, un ragazzino di 12 anni
interviene raccontando a tutti che quest’anno in quaresima ha vissuto il
digiuno dalla plastica. Alla domanda: «Ma cosa vuol dire?», così risponde:
«Ogni sabato vado a fare la spesa con mia mamma e vigilo su come fa gli
acquisti, chiedendole con insistenza di limitare la plastica, in modo da
scegliere confezioni ecologiche e materiali riciclabili». D’altra parte, gli
adolescenti che fanno notare al loro prete come i foglietti della preghiera
avrebbero potuto esser stampati fronte-retro e su carta riciclata sono gli
stessi che vanno sollecitati con un certo vigore affinché non trasformino in
una discarica lo scenario alpino in cui stanno pranzando al sacco. L’adulto,
insomma, rimane determinante a strutturare in habitus ciò da cui mente e cuore
sono attratti, favorendo e accompagnando il passaggio dall’entusiasmo a
convinzioni che muovono poi i comportamenti reali.
Il punto,
forse, è riconoscere la circolarità delle sollecitazioni: anche dal più piccolo,
sempre più spesso, si è messi in questione e chiamati a crescere ancora. In
questo il contesto contemporaneo si dimostra realmente nuovo. Più si trascorre
tempo incontrando i ragazzi e i giovani del nostro Paese, più ci si rende conto
che verso i loro adulti di riferimento essi costituiscono una costante
provocazione al confronto e all’apertura. Dove le gerarchie si sono indebolite
e i ruoli sono diventati sempre più interscambiabili, la sostanza delle parole
e dei comportamenti è la vera questione. In questo, spazzando via molte
formalità, i giovani esercitano a propria volta una propria maieutica, che
chiede a chi li ha preceduti di venire nuovamente o maggiormente alla luce.
Durante una conferenza sui temi della finanza due adolescenti si stavano dimostrando
attentissimi. Erano collaboratori di Radio Immaginaria, un network dei ragazzi.
Dialogando con loro a margine dei lavori arrivano importanti domande: «Che cosa
possiamo dire ai nostri genitori per convincerli ad essere più consapevoli di
come usano il denaro? Come possiamo far capire loro che non possono lamentarsi
di un mondo che non funziona, se poi loro stessi con le loro scelte
contribuiscono a farlo andare così? Si dice che noi giovani non siamo
interessati ai grandi temi, per esempio all’economia e della finanza, ma quanto
dipende dal modo in cui ci vengono trasmessi?». Domande a degli adulti, sugli
adulti: l’incontro tra generazioni rimane quindi imprescindibile, a condizione
che includa l’interlocutore e divenga uno scambio.
In realtà,
il cambiamento d’epoca ci riconduce così ai fondamentali dell’educazione.
Adulto è chi si assume la responsabilità di ciò che dice e di ciò che fa, del
mondo così come è configurato, della sua bellezza e delle sue miserie. Sa di
non sapere, riconosce il proprio potere e i suoi limiti: quelli strutturali, ma
anche quelli necessari a dare agli altri spazio e respiro. Fragile, limitato,
in movimento, l’adulto fa una proposta, si posiziona, si colloca con un
carattere proprio nella complessità. È il contrario del bambino che scalpita,
si gonfia e grida pretendendo di esser tutto e di ottenere tutto. Non è rigido,
perché della realtà conosce le sfumature e l’instabilità: la sua coerenza non è
ostentazione di principi, ma duttilità e costanza, partecipazione ai problemi
altrui, affidabilità. Di fronte alle domande dei giovani, l’esortazione
Christus Vivit (CV) di papa Francesco lancia un appello alla Chiesa che per
essere credibile ai loro occhi «a volte ha bisogno di recuperare l’umiltà e
semplicemente ascoltare, riconoscere in ciò che altri dicono una luce che la
può aiutare a scoprire meglio il Vangelo. Una Chiesa sulla difensiva, che
dimentica l’umiltà, che smette di ascoltare, che non si lascia mettere in
discussione, perde la giovinezza e si trasforma in un museo. Come potrà
accogliere così i sogni dei giovani?» (n. 41).
La prima
generazione del nuovo millennio non vuole fare a meno o liberarsi di noi
adulti, anzi. Il punto è che molte volte non riusciamo a interagire, perché le
aspettative reciproche non si incrociano. Vorremmo che fossero pronti ad
ascoltare quello che abbiamo da dire e da trasmettere e loro si aspettano,
piuttosto, di trovarsi davanti a persone che li comprendano, che li guardino
con fiducia e che li sollecitino nelle loro potenzialità e nel superamento di
difficoltà e disagi. È capitato durante una lezione con diverse classi di licei
e di istituti tecnici di Matera. Ci eravamo preparati, volevamo dare il meglio
di noi; abbiamo cercato di arrivare con una presentazione ben fatta e
accattivante; rischiavamo di parlare troppo. Fino a quando una insegnante ha
chiesto la parola: possiamo mostrarvi quel che abbiamo realizzato noi? I
ragazzi hanno cominciato, allora, a condividere la loro preparazione al nostro
evento: in modo più originale e innovativo si sono fatti portavoce, gli uni
verso gli altri, dei principali messaggi che noi adulti intendevamo
trasmettere. E allora, perché chiamare dei relatori? La risposta non ha tardato
a venire, con un momento di dialogo insieme ai ragazzi. Domande precise, puntuali,
profonde: chiedevano una testimonianza credibile, aiuto, speranza e racconti di
vita. «Siamo chiamati a investire sulla loro audacia ed educarli ad assumersi
le loro responsabilità» (DF 70): a questo ci richiama il Sinodo. «Si tratta
prima di tutto di non porre tanti ostacoli, norme, controlli e inquadramenti
obbligatori a quei giovani credenti che sono leader naturali nei quartieri e
nei diversi ambienti. Dobbiamo limitarci ad accompagnarli e stimolarli,
confidando un po’ di più nella fantasia dello Spirito Santo che agisce come
vuole» (CV230).
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