di Antonio Spadaro
Che posto ha il discepolato
cristiano nella moderna società democratica? Come possono i cristiani
contribuire a una sana democrazia e a un governo veramente popolare della
nostra Italia? Per affrontare queste domande si è sviluppato un
interessante dibattito
sull’eredità di don Sturzo in occasione dell’anniversario del suo
appello «a tutti gli uomini liberi e forti» (1919). Per proseguire la
riflessione, pensiamo sia necessario tornare
al V Convegno della Chiesa italiana, che si è svolto a Firenze nel 2015: un
evento sinodale.
In quell’occasione papa
Francesco ha pronunciato un discorso che potremmo definire «profetico» alla
luce dell’oggi. Bisogna tirarlo fuori dai sussidi chiusi da tempo e tornare a
meditare su quelle parole che pongono un legame forte tra fede e politica,
perché «i credenti sono cittadini».
«La nazione non è un museo –
affermava Francesco –, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in
cui sono da mettere in comune proprio le cose che
differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose». Ma
soprattutto aggiungeva che è inutile cercare soluzioni in «condotte e forme
superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative».
Ed eccoci all’attuale crisi della democrazia. In un tempo in cui il bisogno di
partecipazione si sta esprimendo in forme e modi nuovi, non è possibile tornare
all’«usato garantito» o alle retoriche già sentite. Tantomeno, quindi, possiamo
immaginare di risolvere la questione mettendo i cattolici tutti da una «parte»
(considerando tutti «gli altri» dall’altra). Non basta più neanche una sola
tradizione politica a risolvere i problemi del Paese.
La forza propulsiva del
cattolicesimo democratico ha bisogno di essere resistente in questi tempi
confusi, ma anche di ascoltare e capire meglio, perfino coloro che oggi sono
riusciti a intercettare umori e idee della gente. Agostino e Benedetto, davanti
al crollo dell’Impero, hanno messo le basi del cristianesimo del Medioevo. Il
cristianesimo non ha mai temuto i cambi di paradigma.
Che fare, dunque? La Chiesa
italiana saprà farsi interpellare dal mutamento in corso senza limitarsi ad
attendere tempi migliori? E come? Abbiamo compreso che è impossibile pensare il
futuro dell’Italia senza una partecipazione attiva di tutti i cittadini. Per
questo prendiamo spunto da un passaggio del discorso introduttivo del card.
Gualtiero Bassetti alla sessione invernale del Consiglio permanente della Cei:
«Ripartiamo, fratelli, da questo stile sinodale, viviamolo sul campo, tra la
gente…».
Ecco il punto: soltanto
un esercizio effettivo di sinodalità all’interno della Chiesa potrà aiutarci a
leggere la nostra storia d’oggi e a fare discernimento. Che cos’è la
sinodalità? Essa consiste nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva di
tutto il popolo di Dio alla vita e alla missione della Chiesa attraverso la
discussione e il discernimento. Essa respinge ogni forma di clericalismo,
incluso quello politico. La crisi della funzione storica delle élites –
che fino a poco fa era riuscita a far dare alle democrazie occidentali il
meglio di sé – deve aprirci gli occhi. La sinodalità è radicata nella natura
popolare della Chiesa, «popolo di Dio».
Perché la sinodalità? Perché questo ampio coinvolgimento?
Perché innanzitutto dobbiamo capire che cosa ci è accaduto. Dopo anni in cui
forse abbiamo dato per scontato il rapporto tra Chiesa e popolo, e abbiamo
immaginato che il Vangelo fosse penetrato nella gente d’Italia, constatiamo
invece che il messaggio di Cristo resta, talvolta almeno, ancora uno scandalo.
Sentimenti di paura, diffidenza e persino odio – del tutto alieni dalla
coscienza cristiana – hanno preso forma tra la nostra gente e si sono espressi
nei social networks, oltre che nel broadcasting personale
di questo o di quel leader politico, finendo per inquinare il senso estetico ed
etico del nostro popolo. Il fenomeno – sia chiaro – non riguarda solamente la
nostra Italia.
A questo si aggiunga il fatto
che il potere politico oggi ha anche ambizioni «teologiche». Pure il crocifisso
è usato come segno dal valore politico, ma in maniera inversa rispetto a quello
che eravamo abituati: se prima si dava a Dio quel che invece sarebbe stato bene
restasse nelle mani di Cesare, adesso è Cesare a impugnare e brandire quello
che è di Dio, a volte pure con la complicità dei chierici.
Il «nemico», dunque, non è più
solamente la secolarizzazione, come spesso abbiamo detto, ma è la paura,
l’ostilità, il sentirsi minacciati, la frattura dei legami sociali e la perdita
del senso di fratellanza umana e di solidarietà. Nella società sta venendo meno
la fiducia: nei medici, negli insegnanti, nei politici, negli intellettuali,
nei giornalisti, negli uomini del sacro… Risuonano su questa situazione confusa
le parole che il Papa a Firenze ha rivolto alla Chiesa italiana: «Sia una
Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di
perdere qualcosa». E aveva chiesto alla Chiesa: «discutere insieme, oserei dire
arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti».
Francesco proseguiva raccomandando
la ricostruzione dei legami per favorire «l’amicizia sociale». Quindi, compito
della Chiesa italiana – diceva – è «dare una risposta chiara davanti alle
minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle
forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società
comune». È da fuggire, dunque, l’opzione tombale, cioè l’eresia che le nostre
comunità non abbiano più nulla da dire nel fermento della nostra società.
Quale deve essere, allora, il
senso di questa risposta? Possiamo riconoscerlo nel discorso di fine anno 2018
del presidente Mattarella, il quale ha affermato l’importanza dell’impegno «per
riconoscersi come una comunità di vita» che ha un «comune destino». Sentirsi
comunità significa «condividere valori, prospettive, diritti e doveri»,
«“pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme»». D'altronde, la
forza della Chiesa cattolica in politica è la sua cattolicità, cioè
la sua capacità di ricordare l’universalità e di tenere insieme i pezzi lì dove
tutto sembra andare in frantumi. E ciò vale anche per la nostra Chiesa
italiana.
A questo punto torniamo alla
nostra domanda iniziale. Possiamo riconoscere il nostro compito oggi come discepoli
di Cristo impegnati nelle tensioni della nostra moderna democrazia in due punti
evidenziati dal Presidente: da una parte, contrastare le «tendenze alla
regressione della storia»; dall’altra, fare la nostra parte per costruire il
Paese come «comunità di vita», curando le ferite dei legami spezzati e della
fiducia tradita. E questo potrà avvenire solamente grazie a un largo
coinvolgimento del popolo di Dio, in un processo sinodale non ristretto né
alle élites del pensiero cattolico né ai contesti (specifici e
importanti) di formazione.
L’esercizio della sinodalità e
quello della democrazia sono cose diverse come metodo. Ma si può facilmente
cogliere quanto sia importante la sinodalità nella Chiesa per
discernere le forme dell’impegno democratico dei cristiani affinché
essi siano – come ci chiedeva Francesco alla fine del suo discorso di Firenze –
«costruttori dell’Italia». Che dunque stia maturando il tempo per un sinodo
della Chiesa italiana?
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