giovedì 4 maggio 2023

SALVIAMO IL NOSTRO SAPERE


-  di Enzo Bianchi

Sempre di più siamo consapevoli che il sapere oggi, soprattutto con l’introduzione dell’intelligenza artificiale, viene colpito nelle sue due principali funzioni: la ricerca intesa come quaerere e la trasmissione della conoscenza. Lo profetizzava già Jean François Lyotard: “L’antico principio secondo il quale l’acquisizione del sapere è inscindibile dalla formazione dello spirito, e anche della personalità, cade e cadrà sempre più in disuso … Il sapere viene e verrà prodotto per essere venduto e consumato e dunque per essere scambiato: si arriverà alla mercificazione del sapere”. Dunque l’insegnamento tenderà a formare competenze piuttosto che ideali e il rapporto con il sapere non sarà più una via di realizzazione della vita interiore, di umanizzazione.

Perciò è necessario e urgente riflettere nuovamente sull’insegnare innanzitutto in senso assoluto, senza specificazione dell’oggetto, per mettere in evidenza che l’insegnamento è un atto generato da una persona che ha l’exousía, l’autorevolezza e la conseguente umiltà di mettersi in relazione. Siccome ha imparato, le è stato insegnato, è capace di insegnare. Insegnare significa infatti “fare segno”, e designa il compito di persone che si fanno portatori, datori e trasmettitori di segni. L’insegnante consegna simboli, chiavi ermeneutiche per interpretare la realtà e la vita: è colui che indica l’orizzonte, che “orienta”, cioè aiuta a trovare l’“oriente”, il luogo dove sorge la luce della vita.

È significativo che secondo la tradizione sapienziale ebraica la sapienza è l’arte del dirigere la vita e il sapiente è colui che sa anche orientare gli altri nella vita, colui che tiene saldamente il timone della nave e la sa guidare. Sta scritto nel Libro dei Proverbi: “L’uomo sapiente tiene saldo il timone” e in Qohelet “Esperto della vita, avrà parole che saranno come pungoli”, cioè stimoli all’indagare, alla ricerca, all’approfondimento, e “pietre miliari”, cioè indicatori di via e argini che segnalano il limite. Suggeriscono, non impongono, non tacciono ma non gridano. Come l’oracolo di Delfi, attraverso il quale il dio non dice, non nasconde: fa segno (Eraclito f. 93).

Sì, gli insegnanti sono chiamati a porre gesti espressivi, gesti carichi di senso e di vita, dove il senso va inteso nella sua triplice accezione di significato, di direzione, di sapore, senza tralasciare la dimensione estetica nella quale la bellezza dà compiutezza a ogni senso.

In questa relazione tra l’insegnante e il destinatario dell’insegnamento, chiamato discepolo, il rapporto non deve certo essere asettico perché l’insegnare ha sempre un aspetto generante e come ogni generazione deve essere intriso di “eros”, di capacità affettiva.

 Così si educa in modo serio e fecondo, come suggerisce il verbo educere, “condurre fuori da… verso…”: facendo uscire, ispirando un esodo da se stessi e accettando il rischio della libertà connesso alla vita. L’insegnante diventa così anche un passeur, un traghettatore che fa passare il giovane ad altre rive. Certo il rapporto educazione-insegnamento non è facile, infatti “non si può educare senza, allo stesso tempo, insegnare; e l’educazione senza insegnamento è vuota e degenera facilmente in una retorica emozionale e morale. Ma si può facilmente insegnare senza educare e si può continuare a imparare fino alla fine dei propri giorni senza mai però educarsi”, scrive Hannah Arendt, che osserva anche: “L’educazione è il punto in cui si decide se noi amiamo abbastanza il mondo per assumerne la responsabilità, per salvarlo dalla rovina inevitabile senza il rinnovamento delle nuove generazioni!”.

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