venerdì 22 dicembre 2017

OMOLOGATI DALLA SCUOLA FORMATO OCSE

Si parla di autonomia scolastica, nei fatti però lo sforzo legislativo degli ultimi due decenni si è risolto in un processo di standardizzazione Ma questo è davvero insegnamento?

                                                                                                                                                          di ROBERTO CARNERO

Forse mai come in questi ultimi anni, nella storia repubblicana si è parlato e si parla di scuola. Il dibattito intorno alla legge sulla 'buona scuola' (la legge 107 del 2015) è stato assai acceso, determinando una polarizzazione delle posizioni, a favore o contro i contenuti della legge. Secondo molti osservatori, quel provvedimento (un monstrum costituito da un unico articolo con 212 commi, per evitare emendamenti) passato grazie alla fiducia (quindi in assenza di un’adeguata discussione parlamentare) è stato una delle ragioni della caduta del governo di Matteo Renzi ('punito' al referendum da tanti insegnanti che non avrebbero accettato un simile diktat su una materia così complessa e delicata).                  Tuttavia con quella legge l’Italia non faceva altro che adeguarsi alle politiche scolastiche raccomandate dall’Ocse ai suoi Paesi membri (e recepite in quanto tali dall’Unione Europea), vale a dire gli Stati più industrializzati del mondo: dagli USA al Canada, dal Regno Unito alla Germania, dalla Svezia alla Corea del Sud. Che cosa viene chiesto di mettere in atto? Procedure, norme, programmi volti a implementare sostanzialmente due voci: la standardizzazione dei percorsi didattici e la misurazione dei risultati raggiunti. Sono obiettivi che stanno diventando sempre più una sorta di nevrosi ossessiva per i governi, i ministri dell’Istruzione e, a cascata, i responsabili degli uffici scolastici regionali, i presidi, gli insegnanti.
Standardizzare significa che tutti devono fare la stessa cosa. Misurare vuol dire valutare in maniera oggettiva il raggiungimento di certi parametri. Peccato che queste siano cose spesso antitetiche a un autentico lavoro educativo. Ogni vero maestro ha una sua dose di originalità che rifugge all’omologazione. L’educatore semina, ma molte volte non fa in tempo a vedere i frutti, che matureranno dopo. Esempio della pretesa di misurazione del successo dell’azione formativa sono le famigerate prove Invalsi, che dal prossimo anno scolastico verranno somministrate anche agli studenti dell’ultimo anno di scuola superiore. Si pretende di misurare anche il valore delle iniziative di aggiornamento dei docenti, comprese quelle programmate dagli enti formatori accreditati dallo stesso ministero dell’Istruzione.
Qualche giorno fa ho avuto una garbata discussione con il dirigente di un prestigioso liceo milanese, presso il quale alcuni docenti mi hanno chiesto di intervenire a un incontro sulla narrativa italiana degli ultimi decenni. Mi chiama al telefono questo preside, peraltro amico di vecchia data, e mi dice: «Carissimo, il convegno che state organizzando da noi è davvero bello, non vedo l’ora di parteciparvi. Ma quale sarà la ricaduta sulla didattica? Come possiamo misurare questo aspetto?». Ecco, anche lui vittima di questa ideologia del metro e del centimetro. La risposta alla sua domanda è infatti evidente: è chiaro che se i docenti di Italiano approfondiscono la produzione letteraria più recente saranno spinti ad affrontare in classe quei testi e quegli autori, giungendo così a svolgere finalmente una parte di programma quasi sempre trascurata.
Nel suo recente volume “Le dieci leggi del potere. Requiem per il sogno americano” (Ponte alle Grazie, pagine 178, euro 14,00) il celebre linguista Noam Chomsky denuncia esattamente tale tendenza «a ridurre l’istruzione a competenze meccaniche e a sminuire la creatività e l’autonomia, sia negli studenti sia negli insegnanti». Quegli slogan del 'didatticamente corretto' che oggi va per la maggiore, .....

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