venerdì 18 luglio 2025

LAUDATO SI' SIGNORE MIO

 


Da 800 anni il Cantico

 delle creature

ci insegna a vivere

 “senza misure”

 Nell’anno in cui si ricorda l’ottavo centenario della composizione, una riflessione sul testo di san Francesco e sulla sua capacità di rispondere all’odierna idolatria consumistica. «È un invito a riscoprire che tutto è dono»


-di GIUSEPPE CAFFULLI*

 Quest’anno, all’interno del percorso dedicato ai Centenari francescani che preparano all’ottavo centenario della morte del santo di Assisi (nel 2023 sono stati ricordati la Regola bollata e il presepe di Greccio, nel 2024 le stigmate) celebriamo la composizione del Cantico delle creature (o di Frate Sole). Il Cantico è considerato il primo testo poetico in volgare italiano, ma il suo valore trascende la letteratura per toccare corde più profonde. È una preghiera, un inno alla vita, alla fraternità cosmica, un atto di lode a Dio attraverso l’intero Creato, vissuto non come oggetto da usare ma come dono da accogliere. Proprio per questa sua struttura relazionale, il Cantico – a ben guardare – si offre oggi come un manifesto contro l’idolatria contemporanea, che si esprime nella logica del possesso, del denaro, del consumo e del dominio.

Abitare il mondo non possederlo

Francesco d’Assisi si chiamava in realtà Giovanni di Pietro di Bernardone. Il nome « Francesco» gli fu dato dal padre, ricco mercante di stoffe, forse per via dei suoi rapporti commerciali con la Francia. Francesco nasce e cresce in un ambiente di mercanti e commercianti, tra botteghe, tessuti e bilance. Impara fin da piccolo il valore delle cose, il linguaggio dello scambio, la logica del guadagno. Sa misurare, valutare, contrattare. La sua formazione è legata al mondo degli affari e alla mentalità borghese che, nel XIII secolo, si afferma con forza nelle città.

Non si può non tenere conto di questo aspetto per capire fino in fondo la radicalità della scelta di Francesco. Quando sceglie la povertà, non compie solo un gesto spirituale, ma un atto di rottura con la cultura mercantile del misurare, del valutare, del contrattare, del guadagnare... Si spoglia nudo davanti al vescovo e alla città, restituisce tutto al padre, rinuncia a ogni proprietà: un gesto simbolico che segna il rifiuto della «logica economica» nella vita che sta intraprendendo. La sua fede è imitazione concreta di Cristo povero, non solo nella parola, ma nella forma di vita. Proprio perché conosce bene la misura delle cose Francesco sceglie di vivere senza misura, nel dono totale, sottraendosi a ogni calcolo e alla logica dello scambio, del potere e del denaro.

Se rileggiamo in questa luce il Cantico delle Creature appare chiara la distinzione, implicita ma radicale, tra l’abitare e il possedere. San Francesco non celebra la natura come qualcosa da sfruttare, da soggiogare, da ridurre a oggetto, bensì come realtà vivente con cui intrattenere relazioni di fraternità. Il Sole, la Luna, il Fuoco, l’Acqua, la Terra – tutte le creature sono chiamate fratello o sorella. Il linguaggio del Cantico non è metaforico, ma teologico: ogni creatura partecipa della stessa origine, è segno della presenza del Creatore e ha una sua dignità intrinseca.

In questa visione, abitare il mondo significa riconoscere la propria collocazione all’interno di una rete di relazioni. Significa vivere di ciò che il Creato offre con gratitudine, sfuggendo all’ansia dell’accumulo. L’abitare è legato al rispetto, all’ospitalità e alla cura; il possedere, invece, genera distacco, alienazione, competizione.

Il linguaggio di Francesco è pervaso da un senso di meraviglia. Ogni creatura è lodata per ciò che è, non per l’uso che se ne può fare. Il Sole, la Luna, l’Acqua, la Terra non sono elementi da sfruttare ma realtà che esistono in sé, con la loro bellezza e la loro voce. Questo stupore è il contrario dell’atteggiamento consumistico, che riduce tutto a risorsa da consumare, esaurire o merce da scambiare.

Nel Cantico, l’economia del dono sostituisce quella dell’appropriazione. Se tutto è dono, nulla è veramente posseduto. L’uomo non è il vertice della creazione ma il fratello del Sole e della Luna, perché ad esse accomunato dall’unico Padre Creatore cui solo «se konfane le laude et onne benedictione». Insomma, il Cantico propone un’etica dell’interdipendenza e della fraternità cosmica.

Ora, potrebbe sembrare un azzardo, come accennavo all’inizio, ma credo che il Cantico si offra come un sorprendente manifesto contro l’idolatria contemporanea. Dove l’economia del desiderio, con i suoi idoli, ha sostituito il senso del limite e il marketing ha colonizzato con i suoi «fantasmi » l’immaginario (fantasmi che spingono a desiderare oltre il desiderabile), il Cantico appare come una contro-narrazione potente: non siamo padroni del mondo, ma ospiti.

Una critica all’idolatria del nostro tempo

L’idolatria contemporanea non è fatta di vitelli d’oro o divinità pagane, ma di beni di consumo, ideologia del successo e della produttività. È un’idolatria sottile, pervasiva e perversa, che trasforma i mezzi in fini e confonde l’essere con il possesso. In questa prospettiva, la casa non è più luogo delle relazioni affettive ma status symbol; il lavoro non è più servizio ma strumento di affermazione; la natura non è più madre ma risorsa da spremere. Il Cantico delle creature smaschera queste idolatrie proponendo una logica opposta: l’essere invece dell’avere, la relazione invece del dominio, la nostra finitezza come benedizione. Il mondo non è un supermarket a nostra disposizione, ma un mistero da abitare. L’uso strumentale della Creazione è una forma di idolatria perché mette l’uomo al centro, come misura di tutte le cose, cancellando ogni riferimento al Creatore e alla gratuità del dono. San Francesco, invece, restituisce la centralità a Dio, lodandolo per tutte le creature, non al posto loro. È il rifiuto umile di un antropocentrismo arrogante, che invita a riconosce il valore della realtà che ci circonda oltre la sua utilità.

Nell’era del riscaldamento globale, della crisi ecologica che segna una frattura tra uomo e natura, il Cantico delle creature è più attuale che mai. Non è solo un testo spirituale, ma un manifesto etico e culturale che propone un altro modo di «abitare» il mondo. Rileggere oggi il Cantico – a scuola, nelle università, nei gruppi, nelle parrocchie ma anche in famiglia – significa riscoprire la bellezza del piccolo, la forza della semplicità. Significa imparare a ringraziare invece di pretendere, a contemplare invece di possedere. San Francesco, uomo del Medioevo ma profeta del futuro, ci invita in sostanza con il Cantico a un cambiamento radicale di sguardo. Non è un testo per devoti baciapile, ma una bussola esistenziale capace orientarci nelle secche dell’idolatria consumistica.

In un mondo che ci divora e si divora, il Cantico è un invito a lodare, ad abitare, a custodire. A riscoprire che tutto è dono. E ciò che è dono non si possiede, ma si accoglie.

 *Coordinatore della Commissione per i Centenari francescani in Lombardia

 www.avvenire.it

 Immagine: Giotto, San Francesco predica agli uccelli


 

giovedì 17 luglio 2025

GAZA - ATTACCO ALLA CHIESA


TELEGRAMMA DI SUA SANTITÀ PAPA LEONE XIV TRAMITE IL CARDINALE SEGRETARIO DI STATO

 "SUA SANTITÀ PAPA LEONE XIV È STATO PROFONDAMENTE COLPITO NELL'APPRENDERE DELLA PERDITA DI VITE E DEI FERITI CAUSATI DALL'ATTACCO MILITARE ALLA CHIESA CATTOLICA DELLA SACRA FAMIGLIA A GAZA, E ASSICURA AL PARROCO, DON GABRIELE ROMANELLI, E A TUTTA LA COMUNITÀ PARROCCHIALE LA SUA VICINANZA SPIRITUALE. 

AFFIDANDO LE ANIME DEI DEFUNTI ALL'AMOREVOLE MISERICORDIA DI DIO ONNIPOTENTE, IL SANTO PADRE PREGA PER LA CONSOLAZIONE DI COLORO CHE SONO NEL LUTTO E PER LA GUARIGIONE DEI FERITI. 

SUA SANTITÀ RINNOVA IL SUO APPELLO PER UN IMMEDIATO CESSATE IL FUOCO ED ESPRIME LA SUA PROFONDA SPERANZA PER DIALOGO, RICONCILIAZIONE E PACE DUREVOLE NELLA REGIONE".

COMUNICATO STAMPA DEL PATRIARCATO

 DI GERUSALEMME

 Il Patriarcato di Gerusalemme esprime la sua più ferma condanna e denuncia dell’attacco che ha colpito la Chiesa cattolica della Sacra Famiglia nella città di Gaza. Questo attacco ha causato gravi danni e vittime all’interno del complesso parrocchiale, mettendo in pericolo la vita di persone innocenti, in particolare persone con disabilità e sfollati che avevano trovato rifugio sicuro all’interno della chiesa.

 Colpire un luogo sacro che in questo momento accoglie circa 600 sfollati — la maggior parte dei quali sono bambini e 54 persone con disabilità — rappresenta una violazione flagrante della dignità umana e un’evidente profanazione della sacralità della vita e dei luoghi religiosi, che dovrebbero essere rifugi sicuri nei tempi di guerra.

Il bombardamento ha distrutto ampie porzioni del complesso, costringendo le persone con disabilità a evacuare l’area; alcune di loro non hanno potuto ricevere i respiratori di cui dipendono per sopravvivere, con un rischio diretto per le loro vite.

 In questo momento critico, il Patriarcato ribadisce che le chiese sono fari spirituali e umanitari, al servizio di tutti senza discriminazioni. Si appella inoltre alla comunità internazionale e alle agenzie delle Nazioni Unite affinché forniscano protezione urgente alle istituzioni religiose e ai centri umanitari nella Striscia di Gaza, e garantiscano il rispetto del diritto internazionale umanitario, che proibisce il targeting di civili e luoghi di culto.

 Le nostre preghiere accompagnano le persone colpite, e speriamo che la saggezza possa prevalere sulla macchina della guerra e che la voce della misericordia superi il fragore del fuoco.



INDICAZIONI VECCHIE E NUOVE

  


Nuove indicazioni, 

vecchie = progressiste 

e nuove = di destra? 

Calvani: “Meglio parlare di evidenze sperimentali. 

Vi spiego le criticità delle vecchie e delle nuove”

Di Anselmo Penna

 

In questo intervento, Antonio Calvani – già Professore ordinario di Didattica e Pedagogia speciale e Direttore scientifico della Società S.Ap.I.E. – propone una riflessione critica e documentata sul dibattito in corso riguardante le nuove Indicazioni nazionali per il curricolo. Calvani denuncia il rischio di derive ideologiche e dogmatiche, esortando a un confronto basato su evidenze scientifiche e dati empirici. Evidenzia le fragilità delle precedenti Indicazioni – troppo generiche, scarsamente ancorate ai saperi disciplinari e disallineate rispetto agli strumenti di valutazione nazionale – e rileva le criticità emergenti nelle nuove formulazioni, giudicate retoriche, ambiziose e affette da residui di “pedagogia ingenua”. A partire dai dati Invalsi e Pisa, l’autore mette in luce una profonda crisi delle competenze di base degli studenti, denunciando il sovraccarico di progetti scolastici, il disorientamento metodologico e l’impoverimento delle pratiche didattiche fondamentali. L’intervista si chiude con un appello per una scuola più essenziale, guidata dalla ricerca evidence-based, e capace di recuperare rigore, profondità e senso critico, al di là di mode e slogan.

Prof. Calvani che idea si è fatta del dibattito in corso?

Mi sembra inficiato da assunti pregiudiziali. Le ideologie sono cornici importanti, nessuno può farne a meno ma non dovrebbero diventare gabbie per una assertività dogmatica. Le posizioni dovrebbero essere sostenute da argomentazioni razionali e magari, essendo oggi più possibile di ieri, anche da evidenze sperimentali.

Presentare le nuove Indicazioni come “di destra”, e dunque da rigettare in quanto tali, a fronte delle vecchie a cui ci si dovrebbe ricollegare perché espressione di una ideologia progressista (a parte che se qualcuno verificasse le appartenenze ideologiche di chi sta lavorando alle nuove potrebbe scoprire che sono ben diverse rispetto a quelle del governo in carica), è espressione di un cliché preconcetto.

I problemi da affrontare nella scuola sono rilevanti, trasversali, e si sono radicati nel tempo. E le vecchie e nuove Indicazioni vanno valutate nel merito, senza sconti, considerando quanto siano e potranno essere capaci di confrontarsi con questi problemi reali.

Purtroppo, ministri di qualunque colore politico e le stesse commissioni di esperti hanno pochi strumenti di analisi e possono incontrare difficoltà a staccarsi da un mainstream culturale e anche dai riferimenti propri di una pedagogia ingenua, che li imbrigliano e determinano poi le decisioni della politica scolastica ripetendo spesso errori già visti nel tempo.

Si dovrebbero però intanto condividere tre punti di partenza:

a.    -  avvicinarsi quanto più possibile al mondo reale lasciando da parte sogni e desiderata;

b.   -  ammettere che si può avere sbagliato nelle scelte passate e che anche una tradizione di atteggiamenti e pratiche che ci sono apparse valide, possano essere state fonte di errori;

c.   - abbandonare una volta per tutte il solito logoro ritornello “autoreferenziale”: Noi abbiamo la scuola più bella del mondo, noi facciamo tante cose, non abbiamo bisogno di controlli esterni, Invalsi, Pisa-Ocse e così via…

NNo! Tutt’altro, la nostra scuola ha criticità forse anche maggiori di quanto si sia sinora sospettato, abbiamo assoluto bisogno di strumenti di confronto e di valutazioni esterne per uscire dal guado.

Quale è la sua valutazione delle vecchie Indicazioni e delle nuove?

Ho salutato con favore l’iniziativa di una riformulazione delle vecchie -fino ad un anno fa sembravano un tabù intoccabile- e anche che questa avvenisse all’insegna di una più robusta presenza dei disciplinaristi. Sono il prodotto culturale di un’epoca e in quanto tali vanno riconosciute e se vogliamo, anche apprezzate, ma non sono da rimpiangere avendo diversi difetti. Hanno preteso di indicare target di apprendimento (obiettivi e competenze, con un’enfasi particolare sulle seconde) senza una adeguata riflessione su come si definiscano e valutino questi concetti, presentando al loro posto solo generiche attività didattiche; hanno sottovalutato l’importanza dei saperi disciplinari (soprattutto nelle Scienze, e in questo forse sono corresponsabili del tracollo che i dati Pisa-Ocse ci mettono dinanzi), non hanno frenato adeguatamente un processo più vasto e pervasivo di concezioni e pratiche di pedagogia ingenua già diffuse da tempo.

Ci sono poi aspetti indiretti. Lasciando in forma così generica gli obiettivi, si è anche prodotto e mantenuto un gap con le prove Invalsi (che hanno dato una delle possibili interpretazioni di quei target). Ciò ha generato ansia e frustrazione in scuole e insegnanti, che non sanno bene dove orientare la loro programmazione e vedono con timore le prove Invalsi come una sorta di giudizio poco prevedibile e sconnesso dal proprio operato.

Circa le nuove Indicazioni, conviene aspettare la fine della revisione in corso per valutarle, sperando in una significativa riscrittura. Non è affatto detto che questi problemi siano affrontati con maggiore chiarezza. Nella prima formulazione risultano molte criticità: tratti evidenti di retorica, una visione dell’infanzia che non coglie le dimensioni più recenti che la ricerca ha portato in luce, parti debordanti e, a mio parere inapplicabili, come le ibridazioni ecc., altri tratti residuali di pedagogia ingenua.

A titolo puramente personale avrei preferito una scelta di fondo più coraggiosa orientata per un testo più asciutto ed essenziale. Anche il termine competenza, che considero fonte di confusione, avrebbe potuto essere eliminato. Sul piano tassonomico può essere sufficiente parlare di conoscenze di superficie (conoscenze soprattutto fattuali o dichiarative) e di conoscenze profonde (applicazioni, estensioni, usi di livello cognitivo più alto delle prime).

Inoltre, un testo di Indicazioni dovrebbe rendere chiaramente riconoscibili gli obiettivi minimi a cui tutti devono arrivare, lasciando poi per il resto maggiore libertà all’insegnante.

La scuola verte in situazioni di forte criticità. A cosa si riferisce con questa espressione?

Dobbiamo chiederci quali indicatori possiamo assumere per avere il “polso” dei risultati scolastici. Senza qui stare a ricordare le indicazioni Invalsi e Pisa-Ocse che dovrebbero essere analizzate con maggiore cura e che saltuariamente balzano all’attenzione dell’opinione pubblica, per poi essere dimenticate, abbiamo già richiamato in un altro intervento (Orizzonte scuola, 10 apr. 2025) due test che dovrebbero far riflettere, il primo concernente una prova di conoscenze basilari di fisica, il secondo ricavato da dati Invalsi stessi sulla riflessione linguistica; da entrambi emergono carenze che era difficile immaginare; su temi fondamentali di fisica la maggioranza degli alunni mantiene le conoscenze ingenue che aveva prima di aver studiato quegli argomenti e, per portare un esempio clamoroso, quasi nessuno in una scuola media sa correttamente spiegare da cosa dipenda l’alternanza del giorno e della notte; in modo quasi speculare, dal secondo test si ricava come quasi nessuno sappia riconoscere una proposizione dipendente, trovare il soggetto in una frase in cui è sottinteso, decidere se un “che” è soggetto o complemento oggetto e cose simili.

Se i risultati sono di questo tipo, e saremmo ben lieti se venissero smentiti, non sono forse indicativi di un vero e proprio disastro che è andato e va aggravandosi nella disattenzione di tutti? Quali previsioni si possono fare sulla formazione futura di giovani che escono con questa preparazione dalla scuola secondaria di primo grado, per non chiederci quali scienziati questo Paese immagini per il futuro di mettere in campo nelle sfide internazionali da affrontare.

Questo basta intanto per fornire qualche caveat urgente alle scuole e agli insegnanti di buon senso: si facciano controlli sistematici su aspetti analoghi a quelli segnalati relativi ad ogni ambito disciplinare. Gli alunni sanno riconoscere in un mappamondo le aree geografiche più importanti? Sanno ricordare e situare sulla linea del tempo i principali fenomeni storici studiati in precedenza? Quale è il loro livello lessicale? E così via.

Quali sono le cause principali di queste criticità?

A mio avviso il fattore più importante è il sovraccarico a cui sono sottoposti scuole, insegnanti e alunni. Se vogliamo migliorare la scuola dovremmo iniziare una battaglia culturale coraggiosa, contro corrente nei riguardi del sovraccarico, che non accenna a decrescere ma appare alimentato da una smania irrefrenabile di “innovare” (assumendo che innovare significhi tout court migliorare, il che è smentito quasi sempre). Un fiume di progetti sommerge la scuola da decenni (ora si è anche intensificato con i fondi del PNRR), progetti che non vengono mai seriamente valutati e senza che abbiano mai lasciato un sedimento di pratiche didattiche migliori.

A seguito di ciò la didattica quotidiana si presenta ormai come un continuo mordi e fuggi, un’occhiata e via, tutto in superficie, sempre di corsa, senza memorizzare. È una scuola che vede il trionfo dei pensieri veloci rispetto a quelli lenti, per dirla con Kahneman. È saltata la meccanica fondamentale dei processi di comprensione e di studio: fare letture riflessive, sintetizzare, riassumere, sono aspetti che in ogni classe dovrebbero ricevere la massima attenzione ma che sono assai poco praticati. Il “ripasso”, non inteso in una forma banalmente mnemonica e nozionistica, ma come operazione metacognitiva per cui si ritorna a distanza di tempo su quanto già studiato riorganizzando in memoria le conoscenze già apprese in forme di migliori sintesi, è uno degli aspetti che la ricerca ha riconosciuto della massima importanza. Ma quanto viene praticato in una scuola che corre sempre a cambiare, anche per paura di annoiare gli alunni?

Ha usato più volte l’espressione “pedagogia ingenua”. Cosa intende?

La ricerca in educazione si articola in diversi settori e non mancano certo lavori importanti sul piano filosofico, storico, mentre più debole è rimasta in Italia, a differenza di altri Paesi, la ricerca empirica e sperimentale.

Quello che arriva nelle pratiche didattiche sono spesso banalizzazioni di teorie che danno luogo a dannosi fraintendimenti. Se ne potrebbe fare una lunga lista. Per fare un esempio, una formuletta che si sente ripetere come il learning by doing, attribuita a Dewey, se fosse presa sul serio significherebbe immaginare che gli alunni possano arrivare a scoprire autonomamente quanto è stato imparato nel corso dell’umanità. Un altro ritornello di vecchia data è quello per cui bisognerebbe “abolire la lezione frontale”, quando tutte le evidenze più consolidate dimostrano come le scuole migliorano quando se ne migliora qualità.

Un riferimento importante come il costruttivismo è reso oggetto di cattive applicazioni: chiunque si occupa di pedagogia non può non essere costruttivista, nel senso di riconoscere che l’apprendimento muove sempre da schemi e preconoscenze già possedute e va visto come una ristrutturazione di questi schemi originari; però su questa base si è reinserita la fiumana carsica delle ingenuità di origine attivistica che periodicamente riemerge, per le quali andrebbe eliminata se non ridotta a qualche suggerimento la guida istruttiva e lasciata ampia autonomia agli alunni che dovrebbero soprattutto apprendere con pratiche di scoperta attiva da soli o in gruppi, magari con le nuove tecnologie, atteggiamenti questi che sono stati ormai definitivamente riconosciuti come causa di insuccessi, se non di veri e propri disastri educativi.

Anche l’interdisciplinarità è espressione di una pedagogia ingenua?

Certo. È una delle trappole in cui le nuove Indicazioni sono inesorabilmente cadute (ma del resto come sfuggirne se fanno parte dell’ultimo degli idola tribus dei nostri tempi, le STEM-STEAM)?

Ritengo che impiegare questi concetti prima del livello di una laurea magistrale in ambito scientifico sia una sostanziale mistificazione e una ulteriore causa di confusione. Le STEM vorrebbero esaltare la cultura di un ingegnere moderno, ma praticate già alla secondaria di secondo grado possono portare solo, nella migliore dei casi, a formare un modesto bricoleur (per usare la contrapposizione di Levi Strauss sui due modelli culturali).

Se ancora si scende a livelli più bassi ancora peggio.

Il tema meriterebbe una riflessione più critica, se ce ne fosse tempo e disponibilità. È ragionevole parlare di interdisciplinarità quando si incontrano criticità di base come quelle che abbiamo indicato? Risultano davvero convincenti quelle prove orali negli esami al termine della secondaria di primo grado in cui l’alunno “recita” un argomento a piacere con riferimenti interdisciplinari? O non sono vacui esercizi di retorica e un modo per stendere un velo pietoso su una reale inconsistenza dei saperi di base? Cosa accade quando il commissario, al di là del tema spesso altisonante scelto dal candidato, si sofferma a chiedere di spiegare uno qualunque dei termini o concetti che l’alunno ha utilizzato?

Tra chi l’interdisciplinarità la pratica sul serio (scienziati, professionisti), ce n’è qualcuno che sia arrivato a quel livello senza essere passato da una solida preparazione interna alla/e discipline?

Uno studioso come Ong ha dimostrato il significato profondo dell’avanzamento del pensiero scientifico con l’avvento dei manuali (testi in grado di recintare in modo coerente e esaustivo un sapere chiuso) rispetto a forme più interdisciplinari, ma scientificamente assai più gracili quali quelle dei saperi medievali o di altri modelli più primitivi. L’interdisciplinarità praticata da soggetti inesperti delle discipline non può che produrre futili accostamenti tra le idee ingenue dei bambini da cui ogni apprendimento non può prescindere.

È un altro portato della pedagogia ingenua anche sottovalutare l’importanza dei manuali. Un buon manuale rimane il medium più potente per consentire in tempi veloci la trasmissione dei saperi più importanti che l’umanità ha acquisito. Chiunque abbia incontrato nella propria esperienza scolastica un buon manuale disciplinare non può non riconoscere la validità insuperabile di questo strumento ed essere grato al suo autore. Vedo che però le nuove generazioni vengono private di questa fondamentale esperienza. I testi scolastici hanno oggi poco dei buoni manuali di una volta. Giganteschi e dispersivi, non invitano certo ad essere posseduti, riesaminati, interiorizzati. E gran parte dell’apprendimento si svolge attraverso il frammentismo delle informazioni tratte da Internet.

Lei si occupa di Evidence-based education da anni. Cosa pensa che di positivo possa venire da questo orientamento?

L’Evidence-based education non va considerata un’etichetta o una moda; in primo luogo, implica un atteggiamento mentale che invita a confrontarsi con le acquisizioni fondamentali a cui è arrivata la ricerca internazionale a seguito di bilanci sistematici (metanalisi) che fanno il punto sui diversi problemi dell’apprendimento e dell’istruzione comparando anche decine di sperimentazioni.

Ci sono diversi centri nel mondo come l’Education Endowment Foundation (EEF), che forniscono anche suggerimenti operativi alle scuole, spiegano come fare un buon programma con alte probabilità di successo, danno esempi e consigli sugli errori da evitare. Da questa cultura si impara anche come le scuole devono e possono procedere verso il miglioramento progressivo praticando forme di sperimentazioni sostenibili e migliorabili ed evitando di andare dietro agli slogan di moda.

Nell’ambito delle acquisizioni basate su evidenze, include anche la valutazione formativa, che è oggetto di discussione tra Ianes e Zanniello?

Sì. La valutazione formativa è una delle acquisizioni scientifiche più importanti che ha ricevuto alte conferme negli ultimi decenni. Alla su base c’è il concetto di feed-back, un’informazione che deve fare immediatamente capire ad un soggetto a che punto è in un percorso rivolto ad un obiettivo e cosa deve fare per avvicinarsi al suo conseguimento. È un concetto che va però collegato alla chiarezza degli obiettivi e a un sistema di complicità che si deve generare tra alunni e insegnante, all’interno del quale possono e debbono anche essere inseriti obiettivi sfidanti.

Speriamo che nelle nuove Indicazioni abbia adeguato risalto. Ma questo riferimento è stato introdotto in Italia da Domenico Vertecchi già ben cinquant’anni fa (La valutazione formativa, 1976). Nelle vecchie indicazioni, del resto poco interessate ad ogni intervento sugli studenti, che si vorrebbe ora difendere, non ce n’era affatto presenza.
Cosa pensa di Ianes che dice che le nuove indicazioni sono piene di paure

Mi sembra che semmai il problema sia proprio l’opposto, sono troppo ambiziose. L’immagine poi dei giovani che Ianes presenta sta nel mondo dei desiderata, non nella realtà.

Se poi si parla delle tecnologie verso cui si dovrebbe esser aperti e fiduciosi, occorrerebbe una visione più articolata. È una tematica multidimensionale che dovrebbe essere analizzata facendo gli opportuni distinguo, anche riconoscendo cosa è veramente utile e che rimane non utilizzato. C’è un aspetto che non mi incute paura, bensì orrore e pena allo stesso tempo.

È questo, infatti, quello che provo quando vedo una coppia di adolescenti su una panchina intenti ciascuno a guardare il proprio smartphone. Non ci si rende conto abbastanza del disastro generazionale in atto: giovani con il volto sempre abbassato, che non guardano più negli occhi, depauperati nella loro capacità di provare empatia verso gli altri. Prima di fare corsi di educazione socio-affettiva occorrerebbero sistematici interventi di collaborazione tra scuola e famiglia ed anche leggi proibitive più incisive e severe per mettere un argine contro gli effetti assai pericolosi di queste pratiche sempre più pervasive che, se lasciate a se stesse, tenderanno ad aggravarsi.

 Orizzonte Scuola


 

mercoledì 16 luglio 2025

SIONISMO e NAZISMO ?

 


Un articolo di Vito Mancuso su "La Stampa" ha aperto il dibattito. L'ebraismo è una tradizione vivente e non può essere ridotto a citazioni di singoli versetti. 

Aberrante la categoria

 di nazi-sionismo


 


Domenica scorsa, sulla Stampa, Vito Mancuso ha scritto un lungo articolo che, prendendo a pretesto il dramma di Gaza e l’angosciante guerra tra Israele e Hamas, sembra voler impartire una lezione teologica sull’essenza dell’ebraismo e sul sionismo. Quest’ultimo è fenomeno storico complesso, ad un tempo culturale e sociale oltre che religioso e politico, e non può essere liquidato con l’aberrante categoria di “nazi-sionismo”, sdoganata anche in alcune manifestazioni pro-Pal senza reticenze o il benché minimo senso critico. Ma non varrebbe la pena indignarsi per giudizi personali, seppur usati con estrema irresponsabilità pubblica, se l’articolo non argomentasse che le radici del «nazi-sionismo con la kippà» si trovano in testi sacri come il Deuteronomio (quinto libro del Pentateuco, che fa parte della Bibbia cristiana, oltre che della Torà) e nella stessa religione ebraica.

Associare o equiparare il sionismo al nazismo è una perversione storica, dettata da puro accanimento ideologico. Si possono legittimamente criticare le politiche militari e le strategie belliche dell’attuale governo israeliano, e persino stigmatizzare parole e azioni di alcuni suoi ministri, ma non si può ascrivere alla “religione ebraica” la logica di quelle politiche. Tanto meno l’attualità del conflitto mediorientale giustifica una rappresentazione dell’ebraismo piegata, oltre l’oggettività storica e senza riguardi per la sua enorme multiformità, all’ossessione di trovare nei testi sacri ebraici il male che si intende stigmatizzare o il bene che si presume di difendere. È contrario a ogni approccio critico scindere l’ebraismo in due essenze, una spirituale (supposta buona e accettabile) e una politica (ovviamente cattiva, demoniaca sin dall’origine). Chi si muova in questo schema rischia di accusare proprio la Bibbia, o almeno alcune sue pagine, di fomentare odio e razzismo.

Ma qui si accusa la Bibbia, anzi la Torà, al fine di accusare chi l’ha ricevuta, elaborata, tramandata e interpretata per secoli, e una siffatta impresa può essere compiuta solo ricadendo nelle fragili contrapposizioni e nelle sterili precomprensioni religiose di un passato che la cristianità si è da tempo lasciata alle spalle. E come nell’ebraismo non esiste un’essenza malvagia, non esiste neppure un’essenza opposta, angelicata e sigillata in una purezza tanto spirituale quanto autistica. Lascia senza parole, poi, che si voglia rintracciare quest’essenza buona in un coccio archeologico di tremila anni fa, di cui riferisce Amos Oz in un suo libro e nel quale si perora la causa di orfani e vedove (perorazione che, Torà a parte, è già nelle leggi del codice di Hammurabi del XVIII secolo a.C.).

L’ebraismo in carne e ossa, non quello di un reperto antico che è pari a un fossile, si trova in una continuità vivente di Bibbia e Mishnà, di Talmud e midrashim e codici halakhici, illuminata dall’ininterrotta catena dei maestri di Israele. Additare l’autentica fede ebraica nel coccio di cui parla Oz (non il mago, ma lo scrittore), è assai simile a trovare il vero cristianesimo in un frammento catacombale, ignorando i Vangeli e l’unità ermeneutica tra Tanakh e Nuovo Testamento, censurando i padri e i dottori della Chiesa, i concili, i papi e i vescovi, e il codice di diritto canonico. Un progetto di ristrutturazione dell’esegesi e dell’ermeneutica della Bibbia, tesa a rimuovere versetti e capitoli oggi ostici alla nostra comprensione, significa ripetere l’errore di Marcione diciotto secoli dopo. Quella continuità porta i nomi, in ebraico, di masorà e di qabbalà ossia di “tradizione”, la quale rende inseparabili scrittura e oralità, fedeltà e innovazione, autorità del Testo e autorevolezza dei maestri che lo devono continuamente reinterpretare. Chi ostracizza i testi o ne propone radicali censure è spesso ignaro dei profondi percorsi di studio e di analisi che li hanno resi “sacri” nel corso dei secoli, senza con ciò divinizzarli.

Il giudaismo non è mai stato una religione nel senso moderno-illuministico del termine, e a ben vedere definirlo “religione” è assai improprio. Si tratta di religione per analogia, non per sua natura. Israele è da sempre anzitutto un ‘am e una kehillà, un popolo-nazione-comunità, tale in forza della sua lingua, di cultura e folklore, di una patria storica e anche, perché no?, di una rigorosa prassi religiosa. Le molte lingue usate dagli ebrei e la loro diaspora non hanno rimosso, semmai rafforzato la coscienza di essere nazione, ben prima che in Europa questo concetto venisse stuprato dai nazionalismi esasperati tra Otto e Novecento. Inoltre, il rapporto del mondo ebraico con i propri testi sacri non è di tipo fanatico o idolatrico, perché essi non sono presi alla lettera.

Nessuna halakhà o normativa ebraica è mera applicazione della Torà scritta. È invece tipico di una mentalità fondamentalista pensare che le scelte politiche dell’attuale governo israeliano derivino da qualche versetto del Deuteronomio (estrapolato dal contesto e dai commenti rabbinici che lo spiegano). Usare le Scritture ebraiche (Torà e Talmud in particolare) per delegittimare la fedeltà degli ebrei alla loro identità, per disprezzarne la fede e convincerli che il vero ebraismo è altra cosa da quel che praticano e credono, ecco il tratto peculiare della lunga storia dell’antigiudaismo a matrice religiosa, per il quale gli unici ebrei buoni erano quelli che smettevano di essere tali e si convertivano alla fede cristiana.

Infine, lo schema di un Israele spirituale versus un Israele politico (non si diceva “carnale”?) non evoca tanto una dialettica paolina, assai meno antiebraica di quel che comunemente si pensi, quanto tradisce un dualismo di tipo gnostico, a cui in vero ripugnano le idee stesse di rivelazione, di presa in carica del governo del mondo, di terra promessa e persino, se mi si permette, di “resurrezione della carne”.

La gnosi di certi teologi è agli antipodi sia della tradizione ebraica sia della fede cristiana e ha presupposti manichei che la rendono del tutto incapace di comprendere non solo l’ebraismo ma anche l’agone della storia e le odierne sofferenze dei popoli in conflitto.

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IL FANATISMO RELIGIOSO


Nazi-sionisti 

contro nazi-islamisti

C’è un lato oscuro

 nell’ebraismo 

che nasce 

dalla sua radice politica:

 l’israelismo.

Il ministro della sicurezza nazionale di Israele Itamar Ben Givr non poteva essere più chiaro nel dichiarare l’obiettivo: “Una sospensione totale degli aiuti umanitari”. Motivando così l’affermazione: “Fermare gli aiuti ci porterà rapidamente alla vittoria”. La vittoria che ha in mente è indicata da questa parola ebraica: herem, “sterminio totale”, in tedesco Endlösung, “soluzione finale”, il termine che inaugurò la Shoah. Altri ministri del governo Netanyahu, premier compreso ovviamente, sono su questa linea. Ciononostante alcuni sostengono che non si può e non si deve parlare di “genocidio”. Che nome dare allora a questa volontà di far morire di fame un intero popolo? Come nominare questo sterminio sistematico? È possibile trovare un altro nome che non sia genocidio per questa ferocia perseguita lucidamente da questi nazi-sionisti con la kippah che mirano ad annientare tutta la popolazione di Gaza e ci stanno riuscendo? 

Si professano religiosi e non si deve pensare che facciano finta: lo sono veramente. Come lo sono i nazi-islamisti di Hamas. Tutti estremamente religiosi. Ma ora qui non è in gioco l’islam, bensì l’ebraismo: che razza di religione è, se produce esseri come Ben Givr e non pochi altri come lui, tutti rappresentati dai partiti religiosi che sono l’anima e il fondamento del governo Netanyahu? La religione ebraica ha una duplice essenza: spirituale e politica. La prima è propriamente l’ebraismo, la seconda è ciò che io denomino “israelismo”. Per descrivere la dimensione spirituale dell’ebraismo mi rifaccio a questo antichissimo testo rinvenuto su un coccio risalente alle origini del popolo ebraico e che riprendo da Amos Oz: “Non fate così e servite il vostro Signore. Giudicate lo schiavo e la vedova. Giudicate l’orfano e lo straniero. Supplicate per il bambino, supplicate per il povero e la vedova. La vendetta in mano al re, l’umile e il servo proteggete. Lo straniero supportate”. 

Commento magistrale di Oz: “Questo messaggio, scritto in un inequivocabile ebraico di tremila anni fa, contiene imperativi morali e di equità nati in seno a una cultura che esige giustizia per i deboli e i perdenti […] Il nocciolo della questione sta proprio nel servo, nella vedova, nell'orfano, nello straniero, nel povero, nel disgraziato, in chi ha bisogno”. Questo stare dalla parte dei deboli nel nome dell’etica è ciò che Oz denomina “fiamma interiore dell’ebraismo”. È il medesimo messaggio veicolato dall’ebreo Gesù che legava intrinsecamente amore di Dio e amore del prossimo. 

Nella Bibbia ebraica però è presente da subito e in modo altrettanto decisivo anche l’essenza politica che io definisco israelismo. Ha scritto al proposito Joseph Klausner, raffinato intellettuale nonché prozio di Amos Oz: “Un semplice dato di fatto non deve essere dimenticato, anche se molti studiosi ebrei con un senso di «missione» e quasi tutti i teologi cristiani lo trascurano; questo fatto è che l’ebraismo non è solo una religione, ma anche una nazione - una nazione e una religione nello stesso e unico tempo”. Qui a prevalere non è la coscienza morale, ma la ragione politica; non è la comunione con gli stranieri, ma la supremazia; non è la solidarietà con i più deboli, ma la forza e il potere. 

Esattamente per questo motivo nella Bibbia ebraica, accanto alla spiritualità della solidarietà, vi è un’ideologia del potere e dell’oppressione nazionalista e razzista verso altri popoli che partorisce i molti Ben Givr. Di tale israelismo vi sono ampie attestazioni nella Bibbia. Prendiamo il libro del Deuteronomio, la cui ideologia è tra le più settarie e le più violente della letteratura biblica e in genere del mondo antico. All’inizio del settimo capitolo Mosè si rivolge al popolo che sta per entrare nella terra promessa, allora chiamata Canaan, in seguito dai romani Palestina, e in quel momento abitata da altri popoli, ordinando il seguente comportamento verso i popoli che vi risiedono: “Dovrai distruggerli completamente, non dovrai fare un patto con loro e non dovrai averne pietà” (Deuteronomio 7,2). Per quale motivo? “Perché tu sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio. Te scelse il Signore tuo Dio per essergli un popolo, possesso particolare tra tutti gli altri popoli che sono sulla terra” (Deuteronomio 7,6). Secondo l’ideologia deuteronomistica l’elezione divina comporta l’amore per Israele e, contemporaneamente, l’odio per gli altri popoli: “Tu divorerai tutti i popoli che il Signore tuo Dio è per dare in tuo potere, non avrai pietà di loro” (Deuteronomio 7,16). 

L’israelismo rappresenta il lato oscuro dell'ebraismo (ogni religione, anzi ogni realtà, ha il proprio). Questa ideologia vorace e generatrice di ingiustizia e di violenza è la base dell'azione politica che ai nostri giorni in Israele guida l’attuale governo nella guerra di sterminio contro la popolazione di Gaza e i cosiddetti “coloni” nei loro sistematici furti della terra dei palestinesi in Cisgiordania. Governo e coloni si sentono autorizzati a perpetrare questo eccidio e questi furti della proprietà altrui sulla base delle pagine bibliche che propagandano l’israelismo.

Ma una cosa deve essere chiara: come esistono le fake news, così esistono le “fake scriptures”. Quelle pagine violente e cariche di odio delle Scritture ebraiche non hanno nulla a che fare con la vera essenza dell’ebraismo, espressa dal coccio di tremila anni fa e da molte altre pagine bibliche. 

La coscienza morale dei credenti che considerano la Bibbia il loro libro sacro deve ristrutturare completamente l’esegesi e l’ermeneutica dei testi, in modo tale che non possano più nascere persone come Ben Givr che ritengono di essere autenticamente religiose perché impediscono gli aiuti umanitari e fanno morire di fame un intero popolo. È questo, a mio avviso, il compito che la coscienza morale detta alle chiese e alle comunità ebraiche che intendono essere davvero fedeli alla fiamma interiore dell’ebraismo. E che soprattutto spetta a quei politici che dichiarano pubblicamente la loro fede nel Dio rivelatosi ad Abramo dicendogli che in lui saranno benedette “tutte le famiglie della terra” (Genesi 12,3).

Vito MancusoLa Stampa 13 luglio 2025

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PERSONA NON IDEOLOGIE


 S
alute e istruzione si sviluppano

 guardando alla persona

 non alle ideologie


Il rappresentante della Santa Sede all'Onu di New York è intervenuto in due momenti al Forum politico di alto livello sullo sviluppo sostenibile: necessarie "politiche integrate" per promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne

Vatican News



Raggiungere la salute e il benessere per tutti, promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne: sono due obiettivi fondamentali dell’Agenda 2030 che, secondo la Santa Sede, richiedono un approccio centrato sulla persona e sulle relazioni, non su mere agende ideologiche. Lo ha ribadito l’arcivescovo Gabriele Caccia, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite, intervenendo il 14 e il 15 luglio a due sessioni dell’High-Level Political Forum, dedicate rispettivamente agli obiettivi di sviluppo sostenibile (SDG) 3 e 5.

Il diritto alla salute

Parlando del diritto alla salute, l’arcivescovo ha ricordato che «la salute non è semplicemente l’assenza di malattia, bensì uno stato olistico di benessere fisico, psicologico, sociale, spirituale ed emotivo». Essa, ha sottolineato, «è parte vitale dello sviluppo umano integrale». Eppure, monsignor Caccia ha constatato che «i progressi verso il raggiungimento dell’SDG 3 rimangono disomogenei». Le disparità restano profonde: «Milioni di persone non hanno ancora accesso all’assistenza sanitaria di base», i tassi di mortalità materna sono stagnanti e tante sofferenze legate alla salute mentale «restano invisibili». Per affrontare questi ostacoli, servono «politiche integrate» che riconoscano l’interdipendenza tra la salute e altri obiettivi, come la lotta alla povertà, la nutrizione, l’istruzione, l’acqua e i servizi igienico-sanitari, il finanziamento allo sviluppo. Soprattutto, ha rimarcato Caccia, la salute deve essere garantita «ai membri più vulnerabili della famiglia umana: i nascituri, i bambini, gli anziani, le persone con disabilità, i migranti e coloro che vivono in aree di conflitto».

La famiglia come luogo originario di relazioni

E proprio di dignità umana, uguale e «inalienabile», monsignor Caccia ha parlato nel suo secondo intervento, citando la dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la Dottrina della Fede. La piena uguaglianza, ha detto, richiede più del semplice riconoscimento formale: servono «condizioni che permettano lo sviluppo integrale delle donne», come l’accesso all’istruzione di qualità, all’assistenza sanitaria, a un lavoro dignitoso e alla vita pubblica. Ha poi messo in guardia contro una visione individualista e utilitaristica del ruolo femminile: «Le donne non vanno ridotte a strumenti di agende economiche o politiche». Occorre invece valorizzare «la complementarità tra uomo e donna» e riconoscere la famiglia come luogo originario di relazioni. Per questo, ha concluso, le politiche di genere devono «sostenere e proteggere le famiglie, la maternità e la genitorialità», insieme alla promozione dell’uguaglianza.

Vatican News

 

L'ARTE DEL DISCUTERE


 Crepet: “Discutere è sintomo di umiltà, difendere le proprie idee se sbagliate è il segno della povertà intellettuale di una persona"



La Redazione

In un tempo in cui l’omologazione è la norma, Crepet invita a riscoprire il valore del pensiero critico, del confronto e dell’unicità della personalità...

Ciò che caratterizza l'essere umano rispetto ai suoi simili è, senza ombra di dubbio, la sua personalità. La personalità è il tratto distintivo di ciascuno di noi, permettendo alle nostre qualità, attitudini ed inclinazioni di emergere e di contraddistinguerci in maniera unica e speciale. Cosicché, sin dalla nascita, ci viene continuamente insegnata l'importanza della personalità e di tutta la sua evoluzione.

Tuttavia, nel panorama attuale, si assiste sempre più ad una sorta di omologazione, dimenticandosi di un elemento degno di nota, e cioè - proprio come sottolineato con fermezza dal sociologo e psichiatra Paolo Crepet - che una persona deve essere discutibile, deve fare "discutere per le idee che propone, lo stile di vita e i comportamenti che ha adottato...imponendo una propria visione di sé"

In altre parole, occorre distinguersi, coltivare delle idee e portarle avanti con fierezza, senza infrangere le regole ma sempre con l'intento di affermare la propria personalità.

“Che vi siano così pochi uomini e donne discutibili per molti è un sollievo, per me è il segno di un declino culturale. Essere indiscutibili significa essere «normali», accontentare tutti, ricercare e ottenere il più ampio consenso come se questo fosse indice di chissà quali qualità dell’essere umano. Più consenso meno atipicità, quindi più omogeneità, dunque miseria creativa”, queste le significative e mai scontate parole dello psichiatra attraverso le quali si sottolinea l’importanza di non ricercare consenso a tutti i costi perché ciò comporterebbe un appiattimento ed un annullamento della propria personalità.

È necessario, dunque, insegnare ai giovani a diffidare dall'omologazione e dalla misera emulazione. L'importanza di tutto ciò ci viene tramandata dalla storia stessa poiché non vi è stato creativo o artista che non fosse discutibile.

Ma cosa significa, allora, far discutere di sé, ingenerando visioni contrapposte? Significa avere personalità. Lo stesso Paolo Crepet sostiene che personalità è ciò che caratterizza un'unicità, e quindi tale concetto va tenuto del tutto distinto ed avulso dal concetto di neutralità. 

Purtroppo, oggi, invece, va di moda la normalità e nessuno ha il coraggio di portare avanti le proprie idee, soprattutto quando quest’ultime si differenziano da quelle del "gregge", proprio perché si ha il terrore di essere emarginati, esclusi, uscendo così dall'alveo sicuro ed ovattato dell'omologazione.

È importante, pertanto, che genitori ed insegnanti inducano i giovani "a difendere la propria posizione, ma anche ad avere il coraggio di correggersi, di modificare il proprio pensiero, che non deve mai essere rigido e invalicabile come le mura di un castello medievale. Entrare nel merito di una questione e discuterne è sintomo di umiltà, difendere a oltranza le proprie idee anche quando sono evidentemente sbagliate è il segno della povertà intellettuale di una persona".

Ascuolaoggi

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