giovedì 4 dicembre 2025

PROFETESSA INASCOLTATA

 


HANNA ARENDT, 

UNA DONNA CHE PENSA


"Sono pensata, dunque sono!"




 

 - di Roberto Righetto


 

 

 

 

 «Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. 

Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’Antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la lieta novella dell’avvento: “Un bambino è nato per noi”». Così Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. 

Julia Kristeva la descrive come «una donna che pensa» e durante tutta la sua vita non ha fatto altro. Al Cogito ergo sum cartesiano contrapponeva il motto: «Sono pensata, dunque sono». Non stupisce perciò che nel 1965 abbia avuto parole di elogio verso la figura di Papa Giovanni. Nell’arti­colo The Chri­stian Pope, apparso sulla New York Review of Books e poi inserito nel volume Men in Dark Times, scrive fra l’altro: «Generazioni di intel­let­tuali moderni, quando non erano atei – cioè scioc­chi che fin­ge­vano di sapere ciò che nes­sun uomo può sapere – hanno impa­rato da Kier­ke­gaardDostoe­v­skijNie­tzsche e dai loro nume­ro­sis­simi seguaci, den­tro e fuori il movi­mento esisten­zia­li­sta, a con­si­de­rare “inte­res­santi” le que­stioni teo­lo­gi­che. Senza dub­bio per tutti costoro sarà dif­fi­cile com­pren­dere un uomo che, sin dalla tenera età, aveva “fatto voto di fedeltà” non solo alla “povertà mate­riale”, ma a quella di “spirito”». Così manifestava il suo stupore per il richiamo alle origini del cristianesimo che il papa del Concilio rappresentava ai suoi occhi. 

Lungi da noi, a 50 anni dalla morte, avvenuta il 4 dicembre 1975 a New York, fare di Hannah Arendt una filosofa cristiana: anzi a più riprese scrisse parole dure verso la Chiesa cattolica per la sua ambiguità sulla Shoah e sull’antisemitismo. «Pensatrice senza balaustra»: così amava definirsi lei stessa per far capire che la sua posizione voleva prescindere dai “parapetti” delle ideologie preconfezionate. È stata senza dubbio una delle intellettuali più influenti del Novecento: ebrea, tedesca e americana. Sostanzialmente un’apolide. «Una fanciulla straniera» l’aveva chiamata il suo maestro Karl Jaspers. Tutta la sua opera non è stata altro che il tentativo di fare i conti con la catastrofe che ha investito l’umanità nel secolo scorso e che aveva colpito anche lei, costretta a fuggire nel 1933 dalla Germania per riparare in Francia e poi negli Stati Uniti. Quella catastrofe aveva il sembiante del totalitarismo. Al quale dedicò una delle sue opere più importanti, scritta negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, Le origini del totalitarismo. Libro citato di recente anche da papa Leone XIV, il quale, rivolgendosi a un gruppo di giornalisti il 9 ottobre e invocando la necessità di un’informazione libera e obiettiva in tempo di fake-news, ne ha sottolineato un passaggio cruciale: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma la persona per la quale non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso». 

La celebrità della Arendt è dovuta alle polemiche seguite ai suoi articoli sul processo Eichmann a Gerusalemme, pubblicati sul New Yorker, nei quali coniò il concetto di “banalità del male” che l’ha resa famosa. La figura del boia nazista nella sua terribile normalità rappresenta per lei l’espressione più inquietante del nazismo, l’individuo che sacrifica la sua coscienza al mito della collettività e dell’organizzazione e che ne diventa mero esecutore, un ingranaggio della macchina dello sterminio. La sua interpretazione provocò reazioni polemiche di molti suoi amici ebrei che l’accusavano di voler minimizzare l’Olocausto. Ma anche i tedeschi, che tendevano a fare del Terzo Reich un’eccezione brutale della loro storia, ne furono disturbati: la Germania intera veniva in tal modo accusata di complicità e finiva sul banco degli accusati. 

Negli ultimi anni continuano a uscire in Italia nuove edizioni dei suoi libri. Come L’umanità in tempi bui curato da Laura Boella, o Democrazia sorgiva a cura di Adriana Cavarero, entrambi usciti presso Raffaello Cortina Editore; oppure Antisemitismo e identità ebraica (Einaudi) per la cura di Enzo Traverso. «La questione è sapere – dice Arendt in L’umanità in tempi bui– quale misura di realtà occorre mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non si vuole ridurre l’umanità a vuota frase o fantasma». 

L’oscurità in cui la civiltà occidentale era precipitata ai tempi del nazismo, per essere ribaltata con i valori della ragione, non poteva eludere il confronto con la realtà, nel bene e nel male. Ed è quanto essa ha costantemente fatto nel tentativo di «rischiarare l’oscuro». 

In Antisemitismo e identità ebraica scrive: «Il XIX secolo ha prodotto la coincidenza di Stato e nazione. Poiché gli ebrei erano dovunque fedeli allo Stato si sono dovuti preoccupare di liberarsi della loro nazionalità, si sono dovuti assimilare. Il XX secolo ci mostra, nei terribili trasferimenti di popolazione e nei vari massacri – iniziati dai pogrom dell’Armenia e dell’Ucraina – le conseguenze ultime di questo nazionalismo». Siamo nel gennaio 1940 e Hannah Arendt, dopo essere fuggita dalla Germania nel 1933, si trova in Francia in attesa di riparare negli Stati Uniti per sottrarsi alle persecuzioni naziste. In quel periodo, pur soffrendo per la sua condizione di apolide, visto che era stata privata di quella tedesca nel 1937 come conseguenza delle leggi di Norimberga, elabora lucidissime analisi sulla situazione politica dell’Europa e sulla condizione delle minoranze, sempre più oppresse. Solo nel 1951 ricevette la cittadinanza americana e in una lettera all’ex marito Günther Anders poteva esclamare: «Ho il passaporto (il libro più bello che conosca, un passaporto)». 

Parole che denotano il suo sollievo dopo anni in cui lei, come i rifugiati ebrei espatriati dalla Germania e scampati all’orrore del nazismo, aveva vissuto l’esperienza angosciosa di essere priva di cittadinanza. 

Nella sua lotta contro l’antisemitismo Arendt trova alleati nel mondo cristiano e cita positivamente figure come Maritain, Tillich e Bernanos, i quali si erano espressi duramente contro le persecuzioni feroci attuate un po’ ovunque, dalla Germania alla Francia alla Polonia. Per questo continuava a sperare che il destino degli ebrei non fosse disgiunto da quello dell’Europa e immaginava per il Vecchio Continente una federazione di popoli liberi in cui anche quello ebraico trovasse spazio. Una speranza che con l’avvio della soluzione finale venne sempre più scemando. 

Nei suoi scritti spesso polemici con il mondo sionista, anche riguardo alla Palestina Hannah Arendt esprime posizioni di tono liberaldemocratico. Nel dibattito che si apre riguardo al futuro, si affaccia l’ipotesi di uno Stato binazionale in cui tutti gli abitanti, arabi ed ebrei, potessero godere degli stessi diritti: «La verità è che – scrive nel dicembre 1943 – la Palestina può essere salvata come sede nazionale per gli ebrei solo se viene integrata in una federazione». Anche in questo caso, parole profetiche e inascoltate. 

Fonte: Vita e Pensiero

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mercoledì 3 dicembre 2025

UNA PRESENZA CHE TRASFORMA IL QUOTIDIANO

 

QUEL PICCCOLO LIBRO

 CHE RIVELA 
L’ANIMA DEL PAPA

 

Durante la conferenza stampa sul volo che lo riportava dal suo primo viaggio apostolico in Turchia e in Libano, Papa Leone XIV ha sorpreso i giornalisti con un riferimento inatteso. Invitato a indicare un testo capace di illuminare la sua spiritualità personale – oltre a Sant’Agostino, da lui più volte citato – il Papa ha scelto un libretto quasi invisibile, lontano dai grandi manuali di teologia e dalla saggistica spirituale contemporanea: La pratica della presenza di Dio, del carmelitano Fra Lorenzo della Resurrezione.

«È un libro davvero semplice» ha spiegato il pontefice, «scritto da qualcuno che non firma neppure con il suo cognome, fratel Lawrence. Ma descrive un tipo di preghiera e di spiritualità con cui uno semplicemente dona la sua vita al Signore e permette al Signore di guidarlo».

Un’indicazione che dice molto: mentre il mondo guarda alle grandi sfide geoponiche affrontate nel viaggio, Leone XIV preferisce richiamare l’attenzione a un testo che invita al raccoglimento, al silenzio interiore, al dialogo continuo con Dio nel cuore delle occupazioni quotidiane. Un invito alla semplicità evangelica, alla vita spirituale incarnata nella ferialità.

Ma che cos’è, realmente, questa “pratica della presenza di Dio” che il Papa propone come via per comprenderlo meglio?


La presenza che trasforma il quotidiano

Fra Lorenzo della Resurrezione, carmelitano vissuto in Francia tra il 1614 e il 1691 e oggi venerabile, non ha lasciato trattati sistematici né opere teologiche elaborate. Ci rimangono soprattutto le sue lettere e alcuni colloqui, nei quali emerge con limpidezza un’idea centrale: la pratica della presenza di Dio è il mezzo più semplice ed eccellente per vivere un’unione profonda con il Signore.

Non si tratta di una forma di preghiera delimitata, con un inizio e una fine, né di un metodo complesso riservato a momenti particolari. È, piuttosto, uno stato dell’anima, un atteggiamento continuo, una conversazione silenziosa che accompagna ogni istante della vita.

Per Fra Lorenzo vivere alla presenza di Dio significa coltivare un sguardo amoroso e costante verso di Lui, una specie di attenzione semplice ma reale, che non si basa sullo sforzo intellettuale, bensì sull’amore. È come mantenere il cuore rivolto a Colui che ci ama, senza parole superflue: un “colloquio muto e segreto” che non abbandona mai chi lo pratica.

Questa presenza non è un’astrazione spirituale: è un fatto concreto. Fra Lorenzo la chiamava “presenza attuale di Dio”, come se Dio fosse realmente e fisicamente accanto a lui, nelle pentole della cucina del convento, nella bottega dove riparava i sandali, nei corridoi dove passava inosservato. La sua cura principale – raccontano i confratelli – era essere sempre con Dio, e non fare nulla, neppure il gesto più minimo, che non fosse per amore.

È una spiritualità estremamente quotidiana, quasi domestica. Per chi desidera abbracciarla, Fra Lorenzo suggerisce gesti piccoli, quasi impercettibili: un ricordo improvviso durante il lavoro, un atto di adorazione al passare di un pensiero, una breve domanda di aiuto, l’offerta delle proprie fatiche, un movimento del cuore verso Dio mentre si conversa o si mangia. Non gesti eroici, ma fedeltà nei dettagli.

Fondamentale è ciò che il carmelitano chiama lo “sguardo interiore”: un rivolgersi al Signore prima di qualunque azione, anche per un brevissimo istante, lasciando che quella presenza accompagni l’agire e lo concluda. È un movimento tanto dolce quanto costante, che non chiede sforzi titanici ma continuità, umiltà, amore.

Fra Lorenzo insiste anche su un’idea potentissima: il cuore può diventare un oratorio. Non occorre essere in chiesa per stare con Dio; non è necessario isolarsi dal mondo o sospendere le attività. Dio è lì, nelle cose più semplici e ordinarie. Basta ritirarsi dentro di sé, per un momento, e fargli spazio.

Una spiritualità per il nostro tempo

Aver scelto proprio questo libro, da parte di Papa Leone XIV, non è un dettaglio secondario. In un’epoca di distrazioni continue, di frenesia, di identità frammentate, la proposta di Fra Lorenzo appare sorprendentemente attuale. È una via alla portata di tutti, che non chiede perfezione ma disponibilità, non richiede particolari condizioni esterne ma un cuore che si lasci abitare.

In un mondo che corre, il Papa indica un uomo che camminava lentamente in una cucina del Seicento, ma che in quella lentezza aveva trovato la pace.

E forse è proprio questo che la sua citazione vuole ricordare: che la spiritualità cristiana non vive soltanto nei grandi eventi o nelle parole solenni, ma nel segreto dei cuori che, anche mentre pelano patate o affrontano le sfide di ogni giorno, scelgono di non dimenticare la presenza di Dio.

 

Il timone

 

Genere: Scienze umane - Religione - Cristianesimo

Editore Vidyananda

Formato Brossura

Pubblicato 01-01-2009

Pagine 122

ISBN 9788886020091

 

 

martedì 2 dicembre 2025

DOVE VA IL MATRIMONIO ?

 


Dalla legge sul divorzio alla cultura dell’interruzione facile: un anniversario che ci interroga

 

di Giovanna Abbagnara

Il 1° dicembre 1970 l’Italia approvava la legge sul divorzio. Cinquantacinque anni dopo, questa data torna come uno specchio: ci costringe a guardarci dentro e a chiederci cosa siamo diventati, quali strade abbiamo imboccato, quali ferite abbiamo aperto – e soprattutto cosa abbiamo smesso di vedere. Pier Giorgio Liverani, giornalista fine e lungimirante, che più volte ha denunciato un meccanismo sottile ma devastante, diceva che una legge pensata per regolamentare casi eccezionali, con il tempo, diventa una prassi ordinaria e poi una cultura.

È accaduto con il divorzio. Doveva essere un’“eccezione umana”, una via d’uscita per situazioni davvero drammatiche. È diventato molto più: un’abitudine sociale, quasi un automatismo, talvolta perfino un’opzione rapida – e spesso superficiale – davanti alle prime difficoltà. E così, lentamente, l’amore stesso si è trasformato. Da promessa, è diventato contratto; da dono, patto rescindibile; da vocazione, esperienza a tempo determinato.

Il problema è che, quando la cultura cambia, cambiano anche i desideri, i comportamenti, le attese, le soglie di sopportazione. Non è solo “colpa della legge”. È che una legge apre immaginari, autorizza nuovi modi di pensare. Lo schema si ripropone oggi per molte altre questioni, e una in particolare mi inquieta: il suicidio assistito. Si comincia sempre così: “Solo per pochi casi estremi. Solo quando la sofferenza è insopportabile. Solo in situazioni limite”. Lo abbiamo già sentito. Lo sappiamo già. Perché ciò che diventa legittimo, presto diventa normale. E ciò che diventa normale, prima o poi diventa culturalmente desiderabile.

Ma la domanda che nessuno affronta è un’altra: come prevenire? Ci appassioniamo alla regolamentazione delle uscite, mai alla costruzione dei ponti. Ci muoviamo sempre sul terreno delle emergenze, mai su quello della formazione. Perché non investiamo sulle coppie prima che arrivino al punto di rottura? Perché non sosteniamo i giovani fidanzati, i neo-sposi, le famiglie alle prime armi? Perché non offriamo strumenti psicologici, relazionali, spirituali per attraversare le crisi e non solo per uscire da esse?

Siamo pieni di slogan sulla “prevenzione” – prevenzione dei tumori, delle malattie cardiache, degli incidenti stradali. Ma sulla salute interiore, emotiva e relazionale, sulla salute dell’amore e della speranza… niente. Silenzio. Eppure, non c’è campo in cui la prevenzione sarebbe più decisiva. Lo stesso vale per il tema del suicidio: si parla di legittimare un gesto estremo, ma quasi nessuno parla seriamente di prevenzione della disperazione. Di come intercettare la solitudine prima che diventi abisso. Di come accompagnare chi soffre prima che perda il senso. Di come far sentire alla persona che esiste una comunità, una relazione, un futuro possibile.

Il nodo vero è culturale: tornare a credere che la vita valga. Che l’amore valga. Che restare valga. Una società matura non facilita la fuga, ma sostiene la fedeltà. Non normalizza la rinuncia alla vita, ma moltiplica le ragioni per desiderarla. Cinquantacinque anni dopo il divorzio, abbiamo imparato molto sui diritti individuali e pochissimo sulla responsabilità relazionale. Sappiamo come “chiudere” una storia, ma non come salvarla. Sappiamo come interrompere una vita, ma non come ravvivarla. Ma l’amore non si protegge a valle, quando è quasi finito. Si protegge a monte, quando lo si forma. E lo stesso vale per la vita. possiamo fare molti di più ma vogliamo veramente farlo?

Puntofamiglia

 

 

 

 

L'ARTE DI FARSI MALE

 


«Lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi con "Farsi male" infrange qualche tabù: "Il dolore autoinflitto non è sempre una sciagura, a volte si rivela una strada per crescere.» -

 Teresa Ciabatti, La Lettura

 

Un racconto sulla vita di tutti i giorni, con un finale sul masochismo politico e il dolore del mondo. Pagine scritte con le parole della psicoanalisi, della poesia, del cinema.


Succede a tutti di farsi male, ma possiamo imparare a riconoscere le sofferenze che ci colpiscono alle spalle da quelle a cui noi stessi, più o meno consapevolmente, ci consegniamo.

Vittorio Lingiardi delimita un territorio vastissimo e oscuro: percorre la storia dei nostri dolori e traccia un confine tra convivenza e connivenza. 

Masochista è un aggettivo che turba, ma qui non si parla di fruste e manette: lo sguardo è sulla personalità e sulle relazioni.

Lingiardi ci accompagna in stanze interiori, arredate con gli spigoli aguzzi dell’autocritica, le mensole inaccessibili dell’ideale dell’Io, le casseforti del sabotatore interno, le lavatrici interminabili del senso di colpa.

 

Farsi male. Variazioni sul masochismo

EQUITA' E INCLUSIONE

 


L’istruzione leva

 per l’uguaglianza 

di genere




Quando si parla di inclusione uno dei punti dolenti che emergono è quello delle disuguaglianze di genere e delle ingiustizie che a livello sociale si legano alla loro stereotipizzazione. Sono differenze dalle quali il sistema di istruzione è tutt’altro che immune, come mostrano gli esiti delle indagini nazionali e internazionali, con effetti che si riverberano inevitabilmente sulla crescita economica e sull’inclusione sociale, con conseguenze più sottili e pervasive di quanto a volte non appaiano.

Le disuguaglianze di genere in ambito educativo sono cambiate nel tempo, assumendo una complessità diversa per quanto riguarda il rendimento scolastico.

In molti Paesi, così come in Italia, l’accesso delle donne ai diversi livelli di istruzione formale è un risultato raggiunto e consolidato; tuttavia, permangono squilibri nella distribuzione per materie, nei tassi di abbandono e nella transizione scuola-lavoro.

Differenze di rendimento e scelte disciplinari                                 

Due esempi che le Rilevazioni sugli apprendimenti a livello nazionale e internazionale mettono in luce da tempo circa la disuguaglianza di genere nell’istruzione sono individuabili nel minore accesso da parte delle ragazze a percorsi di istruzione superiore e universitaria nelle discipline STEM (matematica, scienze e tecnologie) e una probabilità più alta che i ragazzi abbiano risultati più modesti in ambito linguistico e maggiori difficoltà scolastiche, dalle quali deriva un rischio più elevato di sotto rendimento o di abbandono.

Queste due dinamiche parallele – la sottorappresentazione femminile nelle discipline tecniche e la maggiore fragilità maschile nelle competenze di base – sono fattori che orientano la distribuzione delle preferenze disciplinari nel breve come nel lungo periodo, sottolineando quanto le questioni legate al genere in educazione siano un problema multidimensionale e multiforme.

Il concorso di molte cause

Le ragioni che determinano queste differenze e il loro persistere sono sicuramente molte e agiscono combinandosi tra loro in diversi modi, dei quali non sempre siamo consapevoli.

Uno di questi fattori sono gli stereotipi di genere, il cui peso influenza le aspettative dei docenti, delle famiglie e degli stessi studenti in quanto sono legati a opinioni sociali e culturali. Le ragazze possono essere indirizzate lontano dalle materie tecniche in base a convinzioni ingenue su attitudini “naturali” che sarebbero loro prerogativa in quanto appartenenti al genere femminile.

Sul fronte opposto i maschi possono ricevere minore supporto nelle competenze linguistiche, con una sottovalutazione immotivata delle difficoltà in lettura o comunque nell’area linguistica. A queste ragioni se ne aggiungono altre di tipo strutturale, come la qualità dell’offerta formativa locale, la presenza di modelli professionali visibili e le modalità di orientamento scolastico.

L’analisi delle disuguaglianze mette in luce anche ulteriori cause, come le differenze territoriali e generazionali, che amplificano gli effetti di genere, creando percorsi educativi e di vita molto diversi in base al contesto di appartenenza.

Conseguenze economiche e sociali delle differenze di genere

Le conseguenze delle diseguaglianze di genere nel rendimento e nel percorso scolastico non si limitano alla singola studentessa o studente; il persistere di differenze nelle competenze e negli accessi ai diversi settori disciplinari hanno infatti ricadute a livello economico e sociale.

Una presenza femminile ridotta nelle professioni ad alta innovazione ha ripercussioni negative sulla crescita economica e sulla capacità di un Paese di competere in settori strategici, come quelli collegati alle tecnologie; allo stesso modo risultati educativi più deboli tra i ragazzi possono generare maggiore disoccupazione giovanile e favorire la marginalizzazione.

In entrambi i casi si rischia la perdita di capitale umano, con l’inevitabile impoverimento che ne consegue in termini economici e di benessere, individuale e collettivo.

Uscire dal circolo vizioso

Affrontare efficacemente le disuguaglianze richiede un approccio strategico che combini più misure, quali:

  • Rafforzare l’orientamento e la promozione delle discipline STEM tra le ragazze con programmi didattici, mentoring e l’offerta di modelli femminili in questo settore
  • Intervenire precocemente per migliorare le competenze di lettura e linguaggio nei bambini, con attenzione specifica ai ragazzi a rischio e interventi di rete che coinvolgano scuola, famiglie e comunità
  • Favorire la formazione dei docenti con percorsi focalizzati sulle differenze di genere e sulle pratiche inclusive, per evitare che aspettative differenziate in base al genere portino al replicarsi di convinzioni di senso comune e si traducano di fatto nell’offerta di differenti opportunità formative
  • Sostenere politiche integrate scuola-lavoro che contrastino le discontinuità femminili nella carriera e facilitino la transizione verso professioni ad alto valore aggiunto, collegando istruzione, orientamento e mercato del lavoro.

Conclusioni

Per affrontare costruttivamente le disuguaglianze di genere nell’istruzione, e più in generale in ambito educativo, non basta promuovere l’accesso ai diversi percorsi scolastici. Occorre comprendere come e in quali aree si manifestano le differenze di rendimento, scegliere gli strumenti idonei per rimuovere barriere strutturali e culturali per favorire una reale inclusione.

La ricerca in campo educativo e scolastico è strumento essenziale per assicurare a ogni allieva e allievo l’offerta di pari opportunità disciplinari e il rafforzamento delle competenze di base, sottolineando una volta di più il ruolo di leva per l’uguaglianza e lo sviluppo sostenibile proprio dell’istruzione.

 

Approfondimenti



 

 

 

 

CHARBEL MAKHOUF

 

Un monaco dai molti miracoli: 

san Charbel Makhlouf. 


Papa Leone XIV 

in preghiera sulla sua tomba

 

-         di Raffaele Iaria

 

E’ stata una tappa molto significativa quella di Papa Leone XIV al Monastero di San Maroun ad Annaya, dove ha pregato sulla tomba di San Charbel Makhlouf, conosciuto da molti come il “Padre Pio libanese”. La sua devozione ha superato i confini del “Paese dei Cedri” e continua a richiamare fedeli da tutto il mondo. All’intercessione del santo, beatificato e canonizzato da Papa Paolo VI rispettivamente nel 1965 e nel 1977, sono attribuiti numerosi miracoli e guarigioni straordinarie: circa 30mila.

La tomba di San Charbel, divenuta luogo di pellegrinaggio dopo la sua morte, fu segnata da fenomeni misteriosi: una luce particolare attirò l’attenzione dei monaci, che decisero di riesumare il corpo trovandolo incorrotto e caldo, come se fosse ancora vivo. Questo accadde altre due volte, poiché il corpo trasudava un liquido misto di sangue e acqua. Durante l’ultima ricognizione, nel 1950, il volto del santo rimase impresso su un panno e si verificarono guarigioni istantanee tra i presenti, come riportato dal Dicastero per le Cause dei Santi. Dopo la beatificazione, il corpo di frate Charbel non ha più trasudato.

Giuseppe (Youssef) Makhlouf nacque nel 1828 in un villaggio del Libano e rimase orfano di padre a soli tre anni. Fin da ragazzo mostrò una forte devozione verso la Madonna, dedicando molte ore alla preghiera e alla meditazione. Entrò nel monastero della Madonna di Mayfouq a 23 anni e, due anni dopo, emise i voti religiosi nel monastero di San Marone ad Annaya, assumendo il nome di Charbel. Ordinato sacerdote nel 1859, visse per quindici anni nel monastero di Annaya, conducendo una vita di preghiera e di attenzione verso i più umili e gli ammalati. Dieci anni più tardi si ritirò in un eremo per dedicarsi esclusivamente alla preghiera, alla penitenza e all’ascesi. Morì il 24 dicembre 1898, dopo essere stato colto da un malore durante la celebrazione eucaristica il 16 dicembre. “Egli può farci capire, in un mondo affascinato dal comfort e dalla ricchezza, il grande valore della povertà, della penitenza e dell’ascetismo, per liberare l’anima nella sua ascensione a Dio”, disse di lui Paolo VI.

 I luoghi di venerazione dedicati a San Charbel sono numerosi, tra cui quello a Roma, presso il Monastero San Charbel, meta di pellegrinaggio non solo per i romani ma anche per fedeli provenienti da altre città italiane. Qui giungono lettere con testimonianze di grazie ricevute, anche da persone non credenti, conservate dalla Procura generale dell’Ordine libanese maronita.

Ogni 22 del mese, molti fedeli si ritrovano nella cappella che custodisce le sue reliquie per un momento di preghiera, conforto e ricerca di guarigioni, partecipando alla celebrazione eucaristica secondo il rito maronita. La liturgia è accompagnata dalla recita di una coroncina composta da cinque gruppi di grani: tre rossi (simbolo dei voti monastici), uno bianco (simbolo dell’adorazione eucaristica) e uno azzurro (simbolo della venerazione alla Madonna). I gruppi sono separati da cinque grani neri, sui quali si recita il Padre Nostro. All’inizio della corona si prega “O Padre della Verità”, invocazione recitata da San Charbel durante la sua ultima Messa, fino al momento della sua morte nella notte di Natale.

 Accanto alla coroncina, spesso accompagna la preghiera il cosiddetto “Olio di San Charbel”, benedetto presso la sua tomba in Libano. Questo olio viene distribuito in occasioni speciali e utilizzato per l’unzione dei malati, come gesto di fede e di richiesta di guarigione. Numerose testimonianze raccontano di miracoli attribuiti a questa pratica. La tradizione dell’olio risale a un episodio della vita del santo: una notte, Charbel chiese dell’olio per la sua lampada, ma, non essendocene disponibile, fu versata dell’acqua. In modo inspiegabile, la fiamma rimase accesa fino al mattino, permettendogli di pregare e meditare. La Chiesa maronita affonda le sue radici nell’eremita San Marone del IV secolo e conserva ancora oggi la lingua liturgica aramaica, la stessa parlata da Gesù.

 AgenSir

 

EDUCARE IN TERRA SANTA


Si può vivere in Terra Santa 

un'educazione inclusiva?

 Le scuole 

del Patriarcato Latino

La testimonianza di don Ibrahim Shomali, direttore delle scuole in Israele del Patriarcato Latino di Gerusalemme

-di Emiliano Eusepi

 

Si può vivere in Terra Santa un’educazione inclusiva che può superare gli ostacoli e difficoltà presenti nella terra dove "tutti siamo nati"? Abbiamo provato a parlarne con don Ibrahim Shomali, direttore delle scuole in Israele del Patriarcato Latino di Gerusalemme che ci ha aperto il cuore e ci ha mostrato i timori e le speranze di una realtà, quella degli Arabi Cristiani che vivono in Israele, di cui forse si parla poco, ma che invece si tratta di una testimonianza da far conoscere e che ci fa riflettere su quante problematiche sono presenti nella Terra di Gesù.

La testimonianza di don Shomali aiuta a comprendere quanto possiamo imparare dalle pietre vive della Terra Santa, che sono i giovani che aiutati nella loro formazione attraverso le scuole del patriarcato rappresentano la speranza di una nuova epoca segnata dalla riconciliazione e dalla pace, proprio là nella terra del "principe della pace".

Questa speranza testimoniata dalla vivacità delle attività delle scuole del patriarcato si alimenta e cresce nella preghiera che è l'unica sorgente a cui attingere per superare i nostri conflitti interiori e con gli altri. Il Santo Padre nella lettera Apostolica " Disegnare nuove mappe di speranza" mette in primo posto proprio la vita spirituale del giovane, e scrive che " ... i giovani chiedono profondità; servono spazi di silenzio, discernimento, dialogo con la coscienza e con Dio".

Ma quale importanza ha la fede negli studenti delle scuole del patriarcato e che valore ha l'accompagnamento spirituale nella loro vita di studenti? 

Don Ibrahim risponde che la domanda le lega alla Chiesa Universale e a quello che scrive il Papa, perché la fede ha certamente un ruolo centrale nella vita degli studenti, "perché noi offriamo radici spirituali , senso di appartenenza e strumenti anche per affrontare le sfide dove viviamo, e l’accompagnamento spirituale è fondamentale per guidare gli studenti nel discernimento ma anche di crescita della coscienza, crescita, interiore, personale, ma soprattutto una coscienza cristiana per essere consapevoli di quello che stiamo vivendo" e don Shomali insiste che" la fede dà identità in un posto dove abbiamo perso la nostra identità, non sappiamo chi siamo, perché siamo qui e cosa dobbiamo fare". La missione spirituale delle realtà educative in Terra Santa ha certamente un’importanza proprio perché ha le sue radici nella storia dei luoghi santi e nonostante la presenza ridotta dei Cristiani in questi luoghi, si tratta però di un piccolo seme che può dare frutto se il terreno dove loro vivono viene "curato e preparato". E il terreno più produttivo è il cuore dei giovani che in Terra Santa necessitano di attenzioni particolari e che veramente hanno bisogno di un’educazione" cuore a cuore".

"Si, afferma don Ibrahim l’educazione cristiana in Israele, svolge un ruolo fondamentale nel promuovere l’identità, il rispetto reciproco e il dialogo in un contesto molto pluralista, le scuole affrontano questa realtà in modo inclusivo e con programmi mirati alla convivenza", convivenza, afferma però, è una parola che non esprime molto, secondo lui, la realtà in cui vivono i Cristiani in Terra Santa, e ci dice che" non mi piace molto la parola convivenza ed io preferisco dire vivere insieme ma sicuramente un punto importante delle scuole è l’identità e le radici, e nelle nostre scuole proviamo ad educare i nostri studenti cristiani a rafforzare la propria identità perché si è capaci di dialogo con gli altri, soprattutto quando sappiamo chi siamo". 

Nella lettera apostolica " Disegnare Mappe di Speranza ", il Santo Padre ha aggiunto tra le priorità educative quella di educare ad una pace disarmata e disarmante, in un contesto segnato da tensioni e conflitti, ma don Shomali ci ricorda che "per il Papa la pace non è solo un obiettivo ma un metodo educativo, e le beatitudini sono il cuore dell’insegnamento cristiano, bisogna trasformare questo “beati gli operatori di pace” in un’occasione per costruire ponti, che è quello di cui ha bisogno la Terra Santa. Nel contesto nostro, anche nei nostri programmi educativi significa anche il parlare con calma, anche con gli studenti e gli insegnanti, e soprattutto favorire la riconciliazione aiutando la gente anche a riconciliarsi con sé stessi e con il loro vicino educando al vivere insieme".

E dopo aver ricordato le difficoltà che la comunità cattolica in Israele deve affrontare, conclude la sua riflessione dicendo che "...dobbiamo superare quell'odio che sta creando questa guerra, un odio profondo e difficile.

La guerra prima o poi finirà con la vincita di uno e la perdita dell'altro o un accordo, ma l'odio rimarrà per anni e anni quindi il ruolo dello dei cristiani é quello di creare ponti per far sparire questo odio da dove viviamo.


ACI Stampa

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