domenica 30 novembre 2025

NEL CUORE DI GAZA

UN PADRE E UN FIGLIO

 NELLA TRAGEDIA 

 DI GAZA

Le stelle brillano più forte perché un fondo di notte oscura, l'ambiente più scuro fa risaltare la loro luminosità, a differenza diurnaDal punto di vista scientifico, le stelle brillano a causa della fusione nucleare che avviene nel loro nucleo, un processo che rilascia energia sotto forma di luce. La frase viene anche citata in ambito letterario e religioso per sottolineare che i momenti più bui possono far risaltare maggiormente la speranza o la luce. 


 
Nel mondo immaginario che ho costruito per lui, a Gaza, Walid e io giochiamo alla scuola. 

Mio figlio ha solo tre anni ed è dall’inizio della guerra che recito per proteggerlo. Voglio che creda che la nostra tenda da sfollati sia una villa, che i pochi vasi siano un giardino, che le bombe che piovono intorno a noi siano fuochi d’artificio. 

Ogni sorriso che riesco a strappargli vale tutte le bugie che gli dico. Walid si è appena affacciato alla vita quando la sua esistenza viene stravolta. 

Mese dopo mese, la normalità sparisce: niente scuola, niente giochi, niente dolci, e poi sempre meno tutto, casa, cibo, calore, elettricità, vita. Ma c’è una cosa che suo padre Rami decide che va salvata a ogni costo: il suo sorriso. 

Così, mentre la distruzione avanza e la famiglia è costretta a uno, due, tre, quattro trasferimenti forzati per cercare di sfuggire ai bombardamenti, passando da un appartamento a una tenda, con la complicità della moglie Rami crea intorno a Walid una bolla in cui ansia, tristezza e morte non possono entrare. 

Ogni esplosione è applaudita come un fuoco d’artificio, i droni sono uccelli che vengono a dargli il buongiorno e la tenda diventa la sua classe. Rami sa che, qualunque cosa succeda, non deve permettere che la gioia negli occhi del suo bambino si spenga. 

Accolta da straordinarie recensioni come una versione reale e poetica de La vita è bella per il dramma di Gaza, l’indimenticabile dichiarazione d’amore di un padre per suo figlio e, insieme, il più efficace e realistico resoconto di un giornalista coraggioso sulla tragedia palestinese. 

Un romanzo-verità unico e prezioso, un canto di speranza mai vinta che emoziona, informa, commuove.

Le stelle brillano più forte


sabato 29 novembre 2025

VEGLIATE !

  


PRIMA DOMENICA DI AVVENTO


Is 2,1-5; Sal 121; Rm 13,11-14a; Mt 24,37-44

 

Commento di M. Augé B.

 In questa domenica I di Avvento, ricordiamo che noi tutti siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste e ne esprimiamo la gioia quando diciamo col salmista: “Quale gioia, quando mi dissero: «andremo alla casa del Signore»” (salmo responsoriale). All’inizio dell’Anno liturgico siamo invitati a riprendere con rinnovato coraggio il nostro cammino verso la patria del cielo, in un gioioso contesto di comunione e di pace, ma anche in attesa vigilante del Signore che viene.

L’Avvento ricorda le due venute del Signore e le mette in intimo rapporto, la prima nel mistero della incarnazione e la seconda alla fine dei tempi: “Al suo primo avvento nell’umiltà della condizione umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Quando verrà di nuovo nello splendore della gloria, ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa” (prefazio dell’Avvento I). Questa Ia domenica è tutta quanta incentrata sulla venuta del Signore alla fine dei tempi, alla quale siamo invitati a prepararci. Quando facciamo delle scelte nella vita di ogni giorno, le facciamo avendo davanti l’immagine di un futuro che intendiamo raggiungere: economico, sociale, culturale, ecc. Oggi siamo invitati a farle guardando anche al futuro di Dio, di un Dio che è venuto, viene e verrà per noi.

Il brano evangelico raccoglie alcune parole di Gesù in cui egli afferma che l’incontro con lui alla fine del nostro pellegrinaggio terreno sarà improvviso e inatteso. Il testo evangelico è tutto focalizzato sull’incertezza del quando, che viene ripetuta tre volte: “vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà…”. Siamo invitati quindi a risvegliare in noi uno spirito vigilante. 

La vigilanza è la capacità di essere presenti a ciò che si vive. Non si tratta di una vigilanza passiva e inoperosa, ma attiva e dinamica; dobbiamo andare incontro al Cristo che viene e dobbiamo farlo “con le buone opere” (colletta). Tutta la vita deve essere una preparazione prolungata e fedele ad accogliere Cristo che viene. Un messaggio simile lo troviamo nella prima lettura, in cui il profeta ci esorta a percorrere il nostro cammino “nella luce del Signore”. 

Nella lettura apostolica, san Paolo, riprendendo il simbolismo della luce e, dopo aver ricordato che siamo nella notte in attesa dell’alba luminosa dell’avvento di Cristo, ci invita a svegliarci perché il giorno della salvezza è vicino. In questo contesto, l’Apostolo aggiunge che dobbiamo gettare via le “opere delle tenebre” e comportarci “come in pieno giorno”. Il futuro verso cui camminiamo deve innestare nel presente la tensione per l’impegno nei valori che, vissuti nel presente, conducono al possesso di quelli futuri e definitivi. Ogni attimo della nostra vita è impastato di eternità. Perdere la memoria del futuro equivale ad appiattire il presente. 

Il cristiano essendo una persona di memoria, è una persona di attesa. La nostra esistenza di credenti è destinata a svolgersi, come è naturale, in seno alla storia concreta degli uomini e delle donne ma allo stesso tempo è chiamata a far lievitare la storia con la novità della speranza, cioè con la fede nel progetto salvifico di Dio.

La partecipazione all’eucaristia è “pegno della redenzione eterna” (orazione sulle offerte), ci sostiene nel nostro cammino e ci guida ai beni eterni (cf. orazione dopo la comunione).

 Liturgia e dintorni

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PACE O MIRAGGIO ?

 


Ma questa

 è la caricatura 

della pace


-di Giuseppe Savagnone 

 

Tutto è bene quel che finisce bene

È quasi scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dai notiziari televisivi italiani la tragedia della Palestina. E anche l’opinione pubblica – che aveva espresso la sua indignazione con manifestazioni di un’imponenza mai vista da molti anni – sembra essersela ormai lasciata alle spalle.

Effetto dell’entrata in vigore del piano di pace con cui Donald Trump ha mancato per un pelo il premio Nobel e ha comunque ricevuto un incondizionato plauso internazionale, fino ad essere paragonato a Ciro il Grande, “strumento di Dio” nella liberazione degli ebrei.

Le scene trionfali della firma del trattato, a Sharm el-Sheikh, al cospetto di più di venti presidenti e primi ministri di tutta l’Europa e dei paesi arabi, hanno assunto agli occhi del mondo il significato di una felice conclusione del dramma umanitario che aveva sempre più inquietato le coscienze e messo in difficoltà i governi.

Anche la grande maggioranza degli opinionisti, che aveva tenacemente difeso il diritto di Israele di difendersi, cominciava ad essere a disagio, di fronte agli scenari di massacri e devastazioni trasmessi ogni giorno in diretta (a costo spesso della loro vita) dai giornalisti palestinesi. Anche loro perciò hanno potuto tirare un sospiro di sollievo, inneggiando al piano di pace come alla giusta soluzione che chiudeva finalmente la questione, dando a ciascuno ciò che gli spettava.

A confermare questa percezione è venuta l’approvazione, da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, il 17 novembre scorso, della risoluzione che, sulla linea del piano Trump, affida per due anni al presidente americano il controllo della Striscia attraverso un organismo, il “Consiglio di pace”, i cui membri saranno scelti direttamente dallo stesso presidente.

Il merito che è stato unanimemente attribuito al presidente degli Stati Uniti è stato quello di aver finalmente messo fine a uno spargimento di sangue che durava da due anni. Molti hanno parlato di un miracolo, di cui Trump sarebbe stato l’autore con la sua proposta di pace che nessuno fino ad allora aveva  provato a fare.

Qualche perplessità controcorrente

In questo clima di beatificazione del Tychoon, quasi nessuno si è azzardato a far notare che questo primato dipendeva dal fatto che il massacro in corso a Gaza era sostenuto, politicamente e militarmente, dagli Stati Uniti e che perciò solo il presidente americano era in grado di fermare Netanyahu. Cosicché sarebbe stato legittimo, se mai, chiedersi perché lo avesse fatto solo ora, a prezzo della vita di migliaia di innocenti.

Così come nessuno o quasi si è posto il problema della consistenza di una pace siglata sulla testa di un popolo rigorosamente escluso dalle trattative, anche nella sua rappresentanza legittima, quell’Autorità Nazionale Palestinese che da tempo riconosce lo Stato ebraico (senza esserne ricambiata).

Perché – come ci si è ricordati invece davanti all’analogo piano di pace americano per l’Ucraina – non basta, per una vera pace, che essa faccia cessare la guerra, ma è necessario che sia giusta.

Per questo motivo gli stessi governi e gli stessi giornalisti che avevano salutato con entusiasmo la fine delle stragi a Gaza senza porsi altre domande, hanno invece ritenuto irricevibile l’ultima proposta di Trump, sia perché non rispettosa del popolo ucraino, sia perché non concordata con i suoi legittimi rappresentanti. Confermando ancora una volta il doppio standard della diplomazia occidentale, e in particolare di quella europea, nei confronti di questi due conflitti.

Un’illusione ottica

Resta il fatto che la crisi di Gaza è data ormai per risolta, anche se resta qualche pendenza da risolvere nella cosiddetta “fase due”, e l’attenzione del mondo si concentra adesso esclusivamente su quella ucraina.

In realtà, siamo davanti a una di quelle illusioni ottiche che l’apparato mediatico, al servizio di precisi interessi politici, è capace di generare a livello pubblico. Anche se alcune voci isolate si sono levate per smascherarla. Come quella Lorenzo Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino e adjunct professor alla Luiss School of Government che, dopo  la risoluzione dell’ONU, ha parlato di «un grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump», e di «un brutto giorno per la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene che ci sono nel nostro mondo».

Perché è vero che con questa pretesa pace i morti innocenti sono molto diminuiti. Ma questo è stato pagato con la discesa del sipario sulle condizioni disastrose di un popolo di più di due milioni di gazawi le cui case, i cui ospedali, le cui moschee sono stati sistematicamente rasi al suolo dall’esercito israeliano e che continua a dipendere dall’arbitrio mutevole dei suoi oppressori per quanto riguarda  l’apertura o meno dei valichi attraverso cui dovrebbero arrivare i rifornimenti di viveri.

Per due anni sono stati trattati come un gregge di bestie da Israele, che li ha deportati da un luogo all’altro a suo piacimento, sradicandoli  dai luoghi dove vivevano e privandoli di ogni punto di riferimento. Ora sono abbandonati, ancora come bestie, nello spaventoso non-luogo a cui Gaza è stata ridotta.

La tragedia è ora ulteriormente accentuata dalle condizioni atmosferiche e dalle alluvioni. Uomini, donne, bambini guazzano nel fango, sotto tendoni improvvisati, alla ricerca di  qualcosa da mangiare, nella speranza che Netanyahu decida di riaprire i valichi. E l’inverno si avvicina sempre di più.

Di tutto questo nessuno risponde. Un giornalista italiano che si è azzardato a chiedere in una conferenza stampa se Israele non debba risarcire i danni causati in questi due anni è stato licenziato dall’agenzia di stampa per cui lavorava. Ciò che è accaduto in questi due anni e, di cui il disastro attuale è il risultato, viene ormai cancellato, rimosso. Il radioso futuro aperto con la pace maschera il disastro del presente

Ma in realtà anche il futuro è estremamente incerto. Per colpa di Hamas, che rifiuta di consegnare le armi, ma anche perché la prospettiva del famoso Stato palestinese, a cui sia il piano Trump che la risoluzione dell’ONU accennano in modo molto vago e ipotetico, è irremovibilmente esclusa dal governo israeliano, che precisa di non essere disposto, su questo punto, a cedere a nessuna pressione. Come ha chiarito recentemente Netanyahu: «La nostra opposizione a uno Stato palestinese in qualsiasi territorio non è cambiata. Gaza verrà smobilitata e Hamas disarmata, nel modo più facile o nel modo più difficile. Non ho bisogno di rinforzi, tweet o prediche da nessuno».

E il comportamento dell’esercito israeliano, in queste settimane di “pace”, rimane quello di un’occupazione militare e conferma uno stile di violenza sistematica verso un popolo che non viene trattato come un possibile partner, ma come un vinto, a cui non è riconosciuta alcuna dignità umana.

Il silenzio sulla Cisgiordania

A rendere ulteriormente problematico il miraggio del futuro Stato palestinese è la situazione nella West Bank, quella Cisgiordania che secondo la risoluzione dell’ONU del 1947 dovrebbe costituire insieme a Gaza il territorio di quello Stato.

Risale a poche settimane fa l’approvazione da parte del ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich, che è anche responsabile della gestione civile in Cisgiordania, di un nuovo piano di insediamento  – l’ennesimo, dopo la svolta in questo senso a seguito della guerra dei sei giorni (1967) – che prevede la costruzione di  3.400 unità abitative per i coloni. La sua realizzazione, ha spiegato con soddisfazione Smotrich, «seppellirà l’idea di uno Stato palestinese».

E, coerentemente con questa logica, si sono sempre più moltiplicate in queste settimane le violenze dei coloni, che tagliano gli ulivi dei palestinesi, ne bruciano i raccolti, ne demoliscono le fattorie. Con l’appoggio dell’esercito israeliano, che ottempera così alla Legge Fondamentale del 2018, che in un suo articolo dice: «Lo Stato considera lo sviluppo dell’insediamento ebraico come un valore nazionale, e agirà per incoraggiare e promuovere il suo sviluppo e consolidamento». 

Non è un caso che il piano di pace di Trump non faccia parola del destino della Cisgiordania. Con l’evidente intenzione di lasciarlo agli attuali rapporti di forza, assolutamente sbilanciati a favore degli israeliani.  Anche se, per decenza, la Casa Bianca ha pressato perché venisse annullata la decisione con cui la Knesset, alla fine di luglio, ha votato a grande maggioranza una mozione che sancisce l’annessione della Cisgiordania mozione avversata anche dal premier Netanyahu – che quella annessione la vuole – perché inopportuna in questo delicato momento.  Ma è chiaro a tutti che è solo questione di tempo.

Ma  è questo il bene  di Israele?

Davanti al quadro che abbiamo delineato non mancherà, ancora una volta, chi griderà all’antisemitismo. Un’accusa resa ridicola dal fatto che, oltre a un’autorevole commissione indipendente d’inchiesta dell’ONU, molte personalità ebraiche, come Anna Foa, e anche israeliane, come David Grossman, hanno denunciato con forza i crimini di Israele bollandoli chiaramente come genocidio. Essere contro la politica di Netanyahu e del suo governo non significa avversare gli ebrei, anzi testimonia la stima e il rispetto nei loro confronti.

E del resto sono gli stessi ebrei israeliani a manifestare la loro delusione per quella politica, che alla fine sta danneggiano prima di tutto lo Stato ebraico.. Sul portale  dell’ebraismo italiano «Pagine ebraiche», del 27 novembre  scorso, c’è un articolo dal  titolo «Un quarto degli israeliani pensa di lasciare il paese».

«L’indagine, condotta ad aprile di quest’anno», dice l’articolo, «mostra che il 26% degli ebrei e il 30% degli arabi israeliani valuta la possibilità di emigrare». E continua: «Il dato emerge dal rapporto annuale dell’Israel Democracy Institute, che fotografa uno stato d’animo diffuso (…). Le ragioni del malessere sono: l’aumento del costo della vita (…) seguito dal timore per il futuro dei figli e dalla prolungata instabilità della sicurezza nazionale». Il fenomeno riguarda soprattutto i giovani

La verità è che questa guerra, scatenata in nome di un messianismo fondamentalista che vuole rendere più sicuro Israele, ha determinato un clima di violenza e di odio senza precedenti, creando le premesse per uno strascico di vendette di cui non si può prevedere la fine. Soprattutto ne ha sfigurato il volto.  A livello internazionale, ma anche agli occhi di molti ebrei della diaspora e dei suoi stessi cittadini.

E questa pace, che copre le ferite ma non vuole riconoscerle e meno che mai curarle, non ne è il superamento, ma il prolungamento permanente, a cui chi ama la pace vera non può rassegnarsi. Perché, come ha recentemente detto papa Leone in un suo discorso, «la pace ci chiede, soprattutto, di prendere posizione. Davanti alle ingiustizie, alle diseguaglianze, dove la dignità umana è calpestata, dove ai fragili è tolta la parola: prendere posizione».

Se c’è in questo momento una situazione di ingiustizia e di disuguaglianza, in cui la dignità umana è calpestata e ai fragili è tolta la parola, è quella dei palestinesi.  

Chiudere gli occhi su tutto questo non promuove la pace, ma la caricatura della pace.

 www.tuttavia.eu

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LA CASA NEL BOSCO

 


Tre fratellini, cresciuti in un rudere nei boschi abruzzesi senza scuola, utenze né controlli sanitari, sono stati allontanati dal Tribunale dei minori dell’Aquila e collocati in casa famiglia. 

Tra social scatenati, intervento del ministro e scontro sulla libertà educativa, resta la domanda decisiva: fin dove può e deve spingersi lo Stato per proteggere i figli, e quale strada permetterà un giorno di ricomporre questa famiglia in sicurezza.

 

-     -    di Francesco Anfossi 

 La storia, ormai, la conoscono anche i sassi: tre fratellini – una bambina di otto anni e due gemellini di cinque – prelevati dai boschi abruzzesi dove vivevano con mamma e papà e condotti in una casa-famiglia per ordine del Tribunale dei minorenni dell'Aquila. Una vicenda che ha spaccato in due il Paese: da un lato i paladini della libertà educativa, convinti che ogni genitore abbia il diritto di crescere i figli come meglio crede; dall'altro chi difende la mano severa della legge, quando serve a evitare che dei bambini diventino vittime di negligenze, pur in buona fede. La domanda che tutti si fanno – e che nessuno sa davvero dove piazzare – è sempre la stessa: fino a dove arriva la libertà di una famiglia? E fino a dove deve spingersi lo Stato nel proteggere i più piccoli, anche contro la volontà di chi li ha messi al mondo? Molti giornali li hanno dipinti come si trattasse del Mulino Bianco. Nel cuore dei boschi di Palmoli, dove il tempo si misura con il sole che filtra tra le foglie degli alberi, tre bambini crescevano in mezzo alla natura. La loro scuola erano gli alberi, il vento, la pioggia che bagna le frasche, la neve sulle colline; i loro amici un cavallo, come Pippi Calzelunghe, un asino, due cani; niente smartphone, niente televisione, solo un'altalena appesa a un ramo. È lì, tra la quiete bucolica senza tempo, che Catherine, 45 anni, australiana, e suo marito, Nathan, 51 anni, inglese, avevano costruito la loro fiaba, dopo aver girato mezzo mondo come dipendenti del settore del turismo. Ma siamo sicuri che dietro questo quadro bucolico non ci sia qualcos’altro? Mentre sui social si consuma l'ennesima corrida digitale, con tifoserie improvvisate che giudicano senza conoscere, conviene fare un passo indietro e ripercorrere i fatti. 

 Intossicazione da funghi 

 Il procedimento dei giudici del Tribunale trae origine da una segnalazione degli assistenti del Servizio sociale dell'Aquila, che aveva evidenziato una condizione di sostanziale abbandono: abitazione disagevole e insalubre, assenza di pediatra, mancata frequenza scolastica, vita in un rudere fatiscente privo di utenze e in una piccola roulotte. Il processo che porta all'allontanamento accelera in occasione di un accesso al pronto soccorso di Chieti di tutta la famiglia. Tutti e cinque avvertono dei malori, dovuti ad ingestione di funghi. I medici si rendono conto delle condizioni igieniche, sanitarie e sociali dei bambini e avvertono gli assistenti sociali. Va detto che su richiesta del Pubblico ministero minorile, il Tribunale aveva già adottato, in via cautelare, un decreto di affidamento dei minori al Servizio sociale, attribuendo al servizio il potere esclusivo di decidere il loro collocamento e le scelte sanitarie di maggiore rilievo. 

 Le condizioni abitative: il rudere senza agibilità 

 Uno dei punti centrali dell'ordinanza riguarda l'immobile in cui vive la famiglia. Lo si vede nei telegiornali e nelle foto sui giornali, poco più che una catapecchia di pietra senza acqua, né luce, né elettricità., né servizi igienici. Molti commenti si inneggiano alla vita all'aria aperta e nella natura, quasi bucolica, ci sono perfino intellettuali che si improvvisano Rosseau e inneggiano al mito del buon selvaggio. In realtà si tratta di una vita isolata, asociale, e soprattutto pericolosa, sospettano gli assistenti sociali. Il Tribunale aveva richiesto una relazione tecnica sulla sicurezza statica dell'edificio, considerato un rudere fatiscente. I genitori in risposta hanno prodotto una perizia di una geometra, dalla quale risulta l'assenza di lesioni strutturali pregiudizievoli per la statica, ma anche l'“assoluta assenza” di impianti elettrici e idrico/sanitario, oltre a carenze di rifiniture e infissi. 

 Per il Tribunale tale perizia è insufficiente a dimostrare la conformità dell'abitazione ai requisiti di sicurezza e salubrità previsti dal Testo unico dell'edilizia. Mancano documenti essenziali: agibilità, collaudo statico, verifiche sugli impianti elettrici, idrico e termico e sulle condizioni igienico-sanitarie, soprattutto in relazione all'umidità e al rischio di patologie polmonari. In base all'articolo 24 del Testo unico dell'edilizia, l'assenza di agibilità comporta una presunzione di pericolo per l'incolumità e l'integrità fisica dei minori: è su questo presupposto normativo che il Tribunale fonda una parte rilevante della sua decisione. 

 I rapporti difficili con i Servizi sociali 

 Dopo la prima udienza cautelare, i genitori avevano inizialmente dichiarato disponibilità a collaborare con il Servizio sociale. Era stato concordato un progetto di intervento per favorire l'integrazione, migliorare il contesto abitativo dei minori e acquisire la documentazione sanitaria e quella relativa all'obbligo scolastico. Il percorso tuttavia si interrompe: i genitori, secondo la relazione del 14 ottobre 2025, smettono di presentarsi agli incontri e negano in un primo momento l'accesso domiciliare agli assistenti sociali, impedendo un contatto diretto con i minori. Solo dopo l'intervento del difensore (che però ieri si è tirato indietro e ha rinunciato al mandato perché non accettano nulla, hanno rifiutato persino una nuova casa offerta dal sindaco «dove stare almeno di notte») accettano di discutere nuovamente un progetto di intervento, che prevede anche un accesso settimanale dell'intero nucleo familiare a un centro socio-psico-educativo comunale per attività di supporto alla genitorialità. Nonostante gli impegni assunti, i genitori non vanno ad alcun incontro. E nemmeno gli accertamenti sanitari obbligatori non vengono eseguiti. Al Servizio sociale vengono ricevuti certificati pediatrici che raccomandano visita neuropsichiatrica infantile ed esami ematochimici per valutare lo stato vaccinale e lo sviluppo psicologico e comportamentale dei minori. I genitori, però, dichiarano che consentiranno agli accertamenti solo a fronte del pagamento di 50.000 euro per ciascun figlio. Cupidigia? Provocazione? Una condizione che il Tribunale evidenzia come ostacolo all'esecuzione dei trattamenti sanitari obbligatori per legge. 

 Allontanare i bambini? La famiglia nel bosco e il bisogno di “doppia ragionevolezza” 

 Istruzione parentale e isolamento dai coetanei 

 Nel corso del procedimento, i genitori producono un certificato di idoneità alla classe terza elementare per la bambina maggiore, rilasciato da un istituto privato di Brescia, a sostegno della regolarità del percorso di istruzione parentale. Tuttavia, al Servizio sociale e al Tribunale non vengono messi a disposizione la dichiarazione annuale al dirigente scolastico della scuola più vicina, necessaria per attestare la capacità tecnica ed economica dei genitori di provvedere all'istruzione parentale, né il progetto didattico-educativo previsto dal DM 8 febbraio 2021. Il certificato stesso non risulta regolarmente depositato alla dirigenza scolastica competente per la vigilanza. 

 Il Tribunale sottolinea che la misura cautelare non si fonda tanto sul pericolo di lesione del diritto all'istruzione, quanto sulla lesione del diritto alla vita di relazione (articolo 2 della Costituzione): i minori vivono in condizioni di marcato isolamento, senza rapporto stabile con bambini di pari età. L'ordinanza entra nel merito, richiamando in modo sintetico la letteratura scientifica (VygotskijPiagetBanduraBronfenbrennerErikson) per descrivere i potenziali effetti negativi della deprivazione del confronto tra pari: difficoltà nell'apprendimento cooperativo e nel lavoro di gruppo; possibile riduzione dell'autostima e della motivazione scolastica; problemi nella regolazione emotiva e comportamentale, con rischio di isolamento o aggressività; minore empatia e difficoltà nel riconoscere l'altro; rischio di isolamento sociale, ansia o depressione; maggiore debolezza alla pressione del gruppo quando l'esposizione ai pari si verifica in ritardo; difficoltà nella gestione dei conflitti e nella costruzione dell'identità. 

 L'esposizione televisiva di minori 

 La socializzazione tra pari, conclude il Tribunale, è un ambiente necessario allo sviluppo di competenze sociali, emotive e cognitive essenziali. La sua assenza ostacola l'adattamento del bambino sia nel sistema educativo sia nella società. L'esposizione televisiva: i minori in prima serata Un ulteriore elemento che incide sulla decisione è la partecipazione dei minori a una trasmissione televisiva nazionale, Le Iene , l'11 novembre 2025. Il curatore speciale dei minori, in una memoria del 12 novembre, segnala che i genitori hanno fatto comparire i figli in TV, illustrando le condizioni di vita della famiglia. Il Tribunale rileva che ciò comporta la violazione del diritto alla riservatezza e all'identità personale dei minori, tutelato dall'articolo 16 della Convenzione di New York del 1989, dall'articolo 8 della Corte europea dei diritti dell'uomo e dall'articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE. Viene richiamato l'articolo 50 del Codice in materia di protezione dei dati personali, che estende il divieto di pubblicare o diffondere notizie o immagini idonee a identificare i minori a tutti i procedimenti giudiziari nei quali i minori siano coinvolti, non solo penali ma anche civili. L'ordinanza segnala che le vicende del procedimento sono state ampiamente diffuse su stampa, TV, online e social media , con pubblicazione di elementi idonei a identificare i bambini sia direttamente (foto, immagini) sia applicare (generalità e residenza dei genitori). Secondo il Tribunale, i genitori hanno così “fatto uso” dei figli per ottenere un risultato processuale a loro favorevole in un procedimento de potestate, ponendosi in conflitto di interessi con i minori e cercando di condizionare l'esercizio della giurisdizione attraverso la pressione dell'opinione pubblica, invece che utilizzare gli strumenti e le garanzie del processo. 

 La decisione: sospesa la responsabilità genitoriale e collocamento in casa-famiglia

 Alla luce di questo complesso quadro – condizioni abitative non sicure, rifiuto di collaborare stabilmente con il Servizio sociale, mancata esecuzione degli accertamenti sanitari isolamento, sociale e esposizione mediatica pregiudizievole – il Tribunale ritiene sussistenti “gravi e pregiudizievoli violazioni” dei diritti dei figli: all'integrità fisica e psichica; all'assistenza materiale e morale; alla vita di relazione; alla riservatezza. Sulla base dell'art. 473-bis.22 del codice di procedura civile, il Tribunale: 

1. sospende la responsabilità genitoriale di Nathan Trevallion e Catherine Birmingham nei confronti dei tre figli; 

2. nomina un tutore provvisorio, individuato nell'avvocata Maria Luisa Palladino, foro di Vasto; 

3. ordina l'allontanamento dei minori dalla dimora familiare e il loro collocamento in casa-famiglia; 

4. conferma l'affidamento esclusivo al Servizio sociale, incaricandolo di dirigere l'esecuzione dell'ordine di allontanamento, di garantire sostegno psicologico ai minori e di disciplinare le modalità di frequentazione tra genitori e figli, con particolare attenzione al rischio di sottrazione; 

5. autorizza l'esecuzione con l'assistenza della forza pubblica, secondo modalità dettagliate in motivazione. 

 Esecuzione dell'allontanamento e ruolo della forza pubblica 

 L'ordinanza entra in modo anche nel piano operativo: sia i genitori (anche se sospesi) sia il Servizio sociale sono specifici tenuti a dare attuazione ai provvedimenti a tutela del minore; l'inosservanza può comportare responsabilità civile e, in determinate condizioni, penale; la forza pubblica, se richiesta, deve assistere il Servizio sociale quando vi sia pericolo per l'incolumità delle persone o rischio di resistenza attiva; può intervenire autonomamente per interrompere eventuali reati, ai sensi dell'art. 55 del codice di procedura penale; si richiamano i criteri operativi tipici delle attività di soccorso e repressione/interruzione di reati, tenendo conto che nel caso concreto vi è un pericolo – accertato o anche solo temuto in pendenza di istruttoria – per l'integrità fisica o psichica di persone incapaci, quali sono i minori secondo il provvedimento giurisdizionale; le modalità concrete di esecuzione rientrano nella discrezionalità tecnica degli operatori, con possibilità di coinvolgere anche professionisti dell'area sanitaria. Comunicazione alle autorità consolari e al giudice tutelare. Infine, il Tribunale dispone che il provvedimento sia comunicato alle autorità consolari del Regno Unito e dell'Australia, in applicazione dell'articolo 37, comma 2, della Convenzione di Vienna del 1963. L'obiettivo è favorire un'eventuale collaborazione per individuare risorse familiari alternative in grado di fornire alle carenze genitoriali. Una copia dell'ordinanza viene trasmessa anche al giudice tutelare presso il Tribunale di Vasto, mentre cancelleria e Servizio sociale del Comune di Palmoli sono incaricati delle ulteriori comunicazioni alle parti costituite, al tutor e agli uffici coinvolti. 

 Un caso internazionale 

 È un caso nazionale, addirittura internazionale. I media si scatenano. I bambini vengono protetti ma ormai è tutto un ribollire di commenti e prese di posizione. Persino il ministro della Giustizia Carlo Nordio annuncia l’invio degli ispettori al Tribunale dei minori, suscitando il sospetto che l'operazione sia di natura politica, viste le polemiche per la recente riforma della magistratura. Sembra addirittura che la vicenda abbia colpito il subconscio collettivo degli italiani, sedotti dall'idea di poter vivere nella natura. Se uno vuol vivere come Hansen e Gretel chi può impedirglielo? Sui social girano meme assortiti che ritraggono cappuccino rosso che non ha paura del lupo ma dei giudici dell'Aquila e altre scempiaggini del genere. 

 I bambini prima di tutto 

 In realtà questa vicenda, che sembra la trama di un film di Comencini, ha anche a che fare con la salvezza dei bambini. Se può turbare e persino urtare la letteratura scientifica inserita con grande sfoggio di titoli e autori per giustificare l'ordinanza, quasi che si possano allontanare dei bambini sulla base di disquisizioni accademiche, il vero punto cruciale è uno solo: fino a che punto può andare avanti la vita di quei bambini che bevevano acqua di pozzanghera o di ruscello (il padre diceva che in quella potabile c'era troppo cloro) rischiando la leptospirosi, che è un batterio mortale, o sono soggetti ai pericoli di prendersi una trave in testa, o di morire di polmonite, aggirandosi tutto il giorno per i boschi, magari per finire nelle mani di qualche malintenzionato o di perdersi venendo braccato da qualche animale? 

 Cosa dice la Costituzione 

 D'altro canto la Costituzione dice che spetta ai genitori educare i figli. È anche un problema di principio: se si possono allontanare i figli di una famiglia del genere allora lo si potrebbe fare con molti rom che mandano i figli a rubare, i padri e le madri inadempienti rispetto ai loro doveri, quelli che li lasciano tutto il giorno davanti al cellulare e non si curano di loro e via di questo passo. fino a considerare tutti coloro che non rispondono ai requisiti della letteratura scientifica ostentata dai giudici dell'Aquila. Ma i figli vanno protetti, educati, non basta l'amore incondizionato, sono loro l'interesse primario. Sempre. E i genitori sono responsabili della loro integrità fisica e morale. Se un genitore non vuole la trasfusione di sangue per suo figlio per motivi religiosi lo Stato ha il dovere di intervenire per salvargli la vita, o no? Non è il caso dei coniugi in questione, amorevoli nei confronti dei propri figli. Ma si può parlare anche di responsabilità di fronte al rifiuto di una casa (in campagna) con luce, acqua e servizi offerti gratuitamente dal sindaco? Un interesse primario, quello per i fanciulli, che per chi crede, ma anche per chi non crede, che ha radici fino al Vangelo. La speranza – e forse un po' anche il sogno – è che questa vicenda trovi un finale diverso dal presente: una famiglia riunita, un padre e una madre che accettano le regole minime per vivere con i loro figli senza metterne a rischio la salute o addirittura la vita. 

 Anche perché, se fosse accaduto un incidente – un fungo sbagliato, una trave malferma, una polmonite trascurata – oggi parleremmo di tutt'altro, saremmo qui a chiederci perché non abbiamo saputo proteggerli.

Famiglia cristiana

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giovedì 27 novembre 2025

L'ARTE DELLA VECCHIAIA

La terza età ci coglie sempre impreparati. 

E attiviamo molte difese, spesso disfunzionali. 

Invece questo tratto di vita può essere un periodo di crescita, nella relazione con l'altro.

 

-         di Mariolina Ceriotti Migliarese


Pensare all’attesa ci porta a interrogarci anche sull’invecchiamento, fase della vita in cui il tempo prende un modo diverso di avanzare, perché ci avvicina all’ignoto. Qual è il momento in cui diventiamo vecchi? È difficile rispondere a questa domanda. La vecchiaia ci coglie sempre un po’ all’improvviso; non ci accorgiamo di invecchiare, ma ci accorgiamo piuttosto di essere diventati vecchi: di essere entrati in una dimensione in cui il senso del tempo si modifica, il passato si schiaccia su se stesso e il futuro si accorcia. Come ha scritto recentemente il Cardinale Scolala vecchiaia «…mi è venuta addosso con un’accelerazione improvvisa e per molti aspetti inaspettata». Forse un primo segnale è il presentarsi inconsueto e insistente di pensieri di confronto con i nostri genitori: cosa facevano alla nostra età, fino a che età sono vissuti, quanti anni ci mancano per raggiungere o superare quel traguardo, come stavano di salute alla nostra età. E poi ci sono (anche per chi sta bene) i piccoli e inevitabili segnali di scricchiolamento del corpo: segnali a cui non facevamo particolarmente caso e che ora invece attivano in noi un’ ansia nuova e fastidiosa, che ci accompagna come un sottofondo sgradevole. 

 Anche se la vecchiaia fa parte delle età della vita, non è facile pensarla davvero come le altre età: pensarla cioè come un tempo di sviluppo, con un proprio specifico “compito evolutivo” secondo il linguaggio dello psicanalista E. Erikson. Che compito evolutivo, e dunque migliorativo, può esserci in una fase della vita in cui tutto ci parla di perdita e di involuzione? Mentre tutte le tappe precedenti promettevano vita, l’approdo certo della vecchiaia è la morte, e la morte è un pensiero che sbarra la strada e che angoscia, perché si affaccia su qualcosa che non è pensabile. L’inquietudine della fragilità ci coglie impreparati, e la cultura in cui siamo immersi non ci aiuta a misurarci con l’idea della nostra finitezza, ma ci spinge piuttosto a mettere in atto strategie difensive che tengano lontano le vere domande, che sono domande di senso. 

Una prima difesa consiste nel proiettare sul mondo esterno l’aspettativa (o la pretesa) di soluzioni risolutive, come ad esempio la magia di un sistema sanitario così perfetto da sconfiggere ogni malattia e annullare la morte. La morte così non appare più come un evento ineluttabile che non possiamo controllare, ma piuttosto come l’effetto del fallimento di un sistema ancora imperfetto, e che possiamo perciò perfezionare. Si muore per colpa di qualcuno o di qualcosa, e non semplicemente per la nostra mortalità. 

 Un’altra difesa traspare dal moltiplicarsi delle proposte assicurative, che dovrebbero rassicurarci e diminuire l’angoscia attraverso la protezione contro ogni genere di evento avverso. C’è poi il tentativo di anestetizzare le paure con la negazione: l’anestetico proposto è da un lato l’iperattività, il non rallentare mai nemmeno quando si invecchia; ma lo sono anche le innumerevoli forme di dipendenza che ci vengono proposte, accompagnate dall’idea che per sopportare la vecchiaia l’unica soluzione sia immergersi in una sorta di costante intrattenimento. Ancora più estrema appare poi la nuova difesa che oggi ci viene suggerita tra le righe, e cioè quella di buttarsi attivamente contro ciò che ci fa paura anticipandolo: difesa disperata che mi sembra almeno in parte spiegare una delle dinamiche inconsce del movimento a favore dell’eutanasia, che è il tentativo illusorio di prendere un controllo attivo su ciò a cui non è in alcun modo possibile sfuggire. L’esperienza ci insegna che tutte queste difese sono in realtà fortemente disfunzionali e inefficaci, perché l’inquietudine dilaga e la paura non scompare affatto. Non solo, ma l’uso massiccio di queste difese impedisce di riconoscere e utilizzare le difese realistiche, funzionali e adeguate di cui potremmo invece disporre davanti alla nostra vulnerabilità e alle nostre paure. 

 Per l’essere umano di qualsiasi età la vera protezione dall’angoscia passa infatti dalla relazione con altri esseri umani; la difesa dal limite e dalla fragilità richiede che siamo capaci di soccorrerci e sostenerci l’un l’altro con il reciproco affetto: una solidarietà concreta e calda che può realizzarsi solo rimettendo al centro del nostro vivere insieme l’affidamento reciproco e la reciproca responsabilità. In questo mondo così sfiduciato, l’anno giubilare ci invita a fermarci per riflettere anche su questo: è possibile rileggere la vecchiaia (che accompagna verso la morte) non solo nella paura, ma anche sotto il segno della Speranza? Nessuno di noi può conoscere in anticipo come sarà per lui il tempo della vecchiaia: un tempo lungo o breve, di salute o di malattia, di dipendenza importante dagli altri o di relativa indipendenza. E nessuno di noi può capire davvero in profondità la lotta personale di ogni singola persona che ci precede invecchiando. Possiamo osservare chi è più avanti di noi in questo cammino, per cercare di imparare da chi ci precede “invecchiando bene”, senza però giudicare chi ci sembra in difficoltà, chi “invecchia male”. Sappiamo che dovremo lasciar andare le cose cui siamo attaccati: la bellezza, la salute, le attività che ci permettevano di controllare almeno un po’ la realtà intorno a noi. A volte dovremo rinunciare anche a controllare la nostra realtà interna, perché potremo perdere almeno in parte la lucidità e la memoria. Nessuno di noi può credere di essere davvero preparato a questo. 

 Più che in ogni altra età della vita, nella vecchiaia il compito di ciascuno si fa del tutto personale: ognuno dovrà esplorare la “sua” vecchiaia, che sarà del tutto unica e in continuità con la sua storia così come è stata. Non c’è “la vecchiaia” e non c’è un modo solo per affrontarla: c’è o ci sarà la “mia” vecchiaia, e dovrò trovare il mio modo per viverla. Si può partire solo da ciò che siamo, senza infingimenti: la nostra storia, le nostre relazioni, le nostre risorse, i nostri limiti, i nostri errori. Ciò che siamo oggi è il punto di partenza, il “dato” da cui partire. Non si tratta di contare gli errori del passato, o di coltivare inutili rimpianti: questa nuova età ci pone di fronte una sfida tutta da vivere, giorno dopo giorno, e dobbiamo domandarci non solo come stare nel presente, ma anche come andare verso il futuro. Dobbiamo iniziare a chiederci cosa è davvero essenziale, per cui vale la pena investire le risorse che ci restano; possiamo chiederci cosa in noi può ancora crescere, dove possiamo ancora cambiare (nel carattere, negli atteggiamenti, nella pazienza, nella capacità di affidarci) e cosa abbiamo trascurato di importante. La crescita nell’anziano è possibile, ma si muove in direzione della profondità, fino a intuire che l’anima umana può espandersi fino a voler uscire da un corpo divenuto ormai troppo stretto per contenerla. 

 L’eternità che ci viene promessa e verso cui coltivare la Speranza non è un tempo. Può capirlo chi ha perso una persona molto cara e ha sperimentato come questo incide sulla sua percezione del tempo. Dopo un lutto importante il tempo sembra sdoppiarsi, e accanto al tempo cronologico (che continua inesorabilmente a scorrere allontanando la persona che amiamo) iniziamo a percepire una dimensione più sotterranea, che riesce a mantenere vicino a noi chi se ne è andato, in un costante presente. Non si tratta solo di una dimensione psicologica; se guardiamo più da vicino e più profondamente questa esperienza singolare, iniziamo anche a comprendere cosa significa che l’eternità è un presente senza fine: possiamo percepire che chi ci ha lasciato rimane vicino a noi, al di là del tempo che scorre, nella dimensione senza tempo dell’eternità. 

E’ quello il luogo dove stiamo andando, e dove ci troveremo di nuovo: il luogo dove ci accompagna la Speranza, e dove potremo contenere tanto più Amore quanto più saremo diventati capaci di contenerlo, magari utilizzando bene proprio l’ultimo tratto della nostra vita, in apparenza così faticoso e inutile. 

 www.avvenire.it

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EMERGENZA NIGERIA

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Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto. 


Attacco alle scuole cristiane e rapimento di insegnanti e alunni.

Centinaia di alunni "scomparsi"

Scuole chiuse per evitare il rischio

La “fabbrica dei rapimenti” in Nigeria dal jihadismo alla criminalità mafiosa


Il governo federale non ha saputo rispondere prima alle azioni di Boko Haram, alle persecuzioni sui fedeli e ora alle gang. E solo ieri il presidente ha dichiarato l’«emergenza nazionale» per i sequestri.

 

-         di GIULIO ALBANESE

-          L’attuale scenario nigeriano è caratterizzato da una geografia della violenza altamente articolata e stratificata, un insieme eterogeneo di dinamiche che sfugge a letture riduttive e a narrazioni mediatiche di taglio sensazionalistico. Tra le manifestazioni più significative di questa complessità si colloca il fenomeno dei rapimenti, evolutosi negli ultimi due decenni in una forma di economia parallela e, simultaneamente, in un dispositivo simbolico e operativo del potere. Analizzare le trasfor-mazioni in atto nel principale Paese dell’Africa occidentale significa riconoscere l’insufficienza di un approccio interpretativo circoscritto al jihadismo: il sequestro di persona costituisce oggi, infatti, uno strumento adottato da una pluralità di soggetti, collocati entro cornici sociali, politiche e culturali tra loro interconnesse.

La narrazione mediatica internazionale tende sovente ad associare i rapimenti alle operazioni delle milizie estremiste islamiste attive nel Nordest del Paese, a partire dalla sigla tristemente nota di Boko Haram e dalle sue diramazioni. Indubbiamente, queste formazioni armate utilizzano i sequestri come arma di terrore, come fonte di finanziamento e come strumento di propaganda. Le loro incursioni nei villaggi del Borno, dello Yobe e dell’Adamawa, così come gli attacchi contro le scuole, hanno inciso in modo indelebile sulla memoria collettiva, alimentando un clima diffuso di paura e sfiducia nelle istituzioni. Il rapimento delle studentesse di Chibok nel 2014 – che fece irrompere sulla scena globale una tragedia già profondamente radicata – rappresenta solo uno dei casi più emblematici. L’aver colpito e in parte colpire ancora (vista la più ridotta portata del movimento) le comunità cristiane risponde a logiche parallele alla “tradizionale” persecuzione, ma non più principale obiettivo dell’azione.

Una prospettiva anti-cristiana

Limitarsi a questa prospettiva di deprecabile azione anti-cristiana (molti più limitata nell’ultimo quinquennio ma non per questo meno grave come dimostrano anche i sequestri di numerosi sacerdoti e pastori), tuttavia, significherebbe ignorare una parte sostanziale del quadro. In molte regioni della Nigeria i sequestri sono oggi perpetrati anche – e talvolta soprattutto – da bande armate prive di un’ideologia religiosa, motivate invece da un intreccio di marginalizzazione sociale, povertà strutturale, corruzione sistemica e competizioni per il controllo delle risorse. Attive principalmente nel Nordovest, negli Stati di Kaduna, Zamfara, Katsina, Sokoto e Niger, queste organizzazioni non perseguono alcuna ambizione teocratica: costruiscono piuttosto un’economia predatoria alimentata dal vuoto di sicurezza e dalla fragilità del controllo territoriale. Il terreno su cui tali dinamiche prosperano è quello di una crisi socio-economica di lungo corso, segnata da livelli elevatissimi di disoccupazione giovanile, da un’amministrazione pubblica inefficiente e da un uso distorto delle immense ricchezze nazionali – petrolio, gas, carbone, zinco, terre fertili – concentrate nelle mani di ristrette élite. In questo contesto, il rapimento si configura come un vero mercato: agricoltori, commercianti, viaggiatori e studenti diventano merce di scambio, sequestrati per ottenere riscatti che alimentano un circolo vizioso di violenza e impunità. La linea di confine tra criminalità organizzata e militanza armata è inoltre spesso sfumata: alleanze tattiche, collaborazioni temporanee e scambi di armi e informazioni rendono i confini estremamente porosi.

Dimensione antropologica e storica dei conflitti

Un elemento particolarmente rilevante riguarda la dimensione antropologica e storica dei conflitti in Nigeria. Il Paese, popolato da circa 230 milioni di persone, è un arcipelago etnico e culturale in cui la competizione per la terra e per le risorse agricole si sovrappone alle tensioni tra comunità pastorali e agrarie – spesso semplificate come uno scontro tra “Fulani” e “non-Fulani”, quando la realtà è in verità molto più complessa. In molte di queste zone, la proliferazione delle armi leggere e l’indebolimento delle tradizionali strutture di mediazione hanno favorito la trasformazione di contrasti locali in violenza sistemica. Alla radice dei rapimenti si trova dunque un sistema di insicurezza multiforme, che coinvolge diversi attori. La risposta del governo – oscillante tra repressione militare e tentativi di negoziazione – risulta inefficace. E solo ieri, dopo più di 350 rapimenti in dieci giorni, il presidente ha dichiarato un’emergenza nazionale di «sicurezza» sul fenomeno.

La corruzione diffusa erode la fiducia dei cittadini e delegittima ogni intervento istituzionale. Le comunità locali, lasciate in larga parte a sé stesse, elaborano forme autonome di autodifesa, dando vita a milizie civili che, pur nate con finalità protettive, rischiano di aggiungere ulteriori livelli di violenza a uno scenario già estremamente complesso. A pagare il prezzo più alto sono le persone comuni: famiglie distrutte, bambini segnati dal trauma, comunità costrette a lasciare le proprie case. Un Paese giovane, vitale e pieno di energie si ritrova a convivere con la paura del viaggio, della scuola, della quotidianità che altrove si dà per scontata. Eppure, nonostante la gravità del fenomeno, la Nigeria non può essere definita unicamente attraverso le sue ferite. È anche un luogo di straordinaria resilienza, animato da reti comunitarie, organizzazioni civili, autorità religiose e figure tradizionali che promuovono dialogo, riconciliazione e protezione dei più vulnerabili. Cristiani per primi, soprattutto negli Stati del centro e del sud dove continuano gli attacchi ai sacerdoti, nella quasi totalità dei casi a scopo di estorsione. Raccontare in modo autentico il fenomeno dei rapimenti in Nigeria significa dunque rifiutare il binarismo – jihadisti da una parte, popolazione inerme dall’altra – e riconoscere la coesistenza di molteplici Nigeria: quella delle metropoli globalizzate e dinamiche, quella delle campagne marginalizzate, quella dei giovani in cerca di futuro e quella di chi, privo di alternative, viene risucchiato dal mercato della violenza. Solo assumendo questa complessità è possibile cogliere il dramma autentico di un Paese che chiede di essere ascoltato e compreso prima di venire travolto da giudizi e reazioni.

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