venerdì 5 dicembre 2025

GENITORI E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 

Genitori nell’era dell’Intelligenza Artificiale

 la sfida che non possiamo delegare

 

 

 di Giovanna Abbagnara

 

Un adolescente seduto sul letto, lo schermo illuminato davanti al viso, le cuffie nelle orecchie. Parla a qualcuno che non vediamo. Sorride. Si confida. Chiede consigli ma dall’altra parte non c’è un amico, non c’è un adulto affidabile, non c’è nemmeno un coetaneo. C’è una chatbot. Un algoritmo. Un programma addestrato a essere sempre disponibile, sempre gentile, sempre d’accordo. Questa scena non appartiene più alla fantascienza malinconica di “Her”. È già entrata nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre famiglie – spesso senza che ce ne accorgessimo.

Chi sta educando davvero i nostri figli? I nuovi chatbot “affettivi”, gli AI Companion, non si limitano a rispondere alle domande: costruiscono relazioni. Assumono identità, imitano personaggi, si modellano sulle emozioni dell’utente. E soprattutto non deludono mai: non rimproverano, non dissentono, non hanno limiti.

La tentazione per un adolescente è fortissima: un “amico perfetto” sempre disponibile, che ti ascolta anche alle tre di notte, che ti consola, che ti dà ragione ma questa perfezione è artificiale, e proprio per questo pericolosa.

Le prime ricerche – e alcune inchieste giornalistiche internazionali – mostrano quanto possa diventare forte la dipendenza emotiva, fino a sostituire legami reali, amicizie vere, il dialogo con i genitori. Stiamo consegnando ai nostri figli uno strumento capace di insinuarsi dove noi facciamo fatica ad arrivare: nel buio delle loro incertezze, nelle domande più intime, nei turbamenti dell’età dello sviluppo. E spesso il chatbot risponde. Anche quando non dovrebbe.

Google ha da poco annunciato che il suo chatbot Gemini sarà disponibile anche per i bambini sotto i 13 anni tramite Family Link. Nella stessa comunicazione invita i genitori alla prudenza e avverte che potrebbero comunque comparire contenuti inadatti. Una contraddizione che non possiamo ignorare. Il mercato dell’AI sta correndo verso gli utenti più piccoli: più sono giovani, più cresceranno fedeli alle piattaforme. Noi genitori sappiamo bene, o almeno dovremmo sapere, che non tutto ciò che è innovativo è automaticamente buono.

Vent’anni fa ci siamo detti la stessa cosa dei social: “Porteranno connessione, amicizia, creatività”. Oggi contiamo i danni di quell’entusiasmo cieco: dipendenze, ansia, disturbi del sonno, isolamento, polarizzazione. Vogliamo davvero ripetere l’errore?

 La legge esiste, ma da sola non basta. La normativa italiana ha fissato il limite dei 14 anni per l’uso autonomo delle piattaforme e dell’AI generativa. AGCOM ha imposto filtri sulle SIM dei minorenni. Sono passi importanti ma ogni educatore lo sa: nessuna legge può sostituire il legame educativo. Nessun divieto può tenere se un ragazzo è lasciato solo davanti a uno schermo che gli promette comprensione infinita. Il vero lavoro si gioca altrove: nel rapporto quotidiano, nella testimonianza degli adulti, nella capacità della comunità di assumersi la responsabilità dei più giovani.

Serve un patto educativo. Non per frenare l’innovazione, ma per salvaguardare l’umano. In molte scuole, oratori, associazioni, famiglie si sta diffondendo l’idea di un patto digitale di comunità: decidere insieme quando consegnare lo smartphone, stabilire regole comuni, sostenersi a vicenda di fronte alla pressione sociale che ci vuole tutti sempre connessi. 

Qui si trovano informazioni importanti: Patti digitali.it. 

È una strada concreta, realistica. Perché il problema non è lo smartphone, né l’intelligenza artificiale in sé. Il problema è la solitudine dei nostri figli, e la tentazione degli adulti di delegare troppo. L’AI può essere un aiuto straordinario – anche educativo. Ma non può prendere il posto di una madre che ascolta, di un padre che accompagna, di una comunità che protegge. Non ha un cuore, non ha una storia, non ha amore da donare. Ha solo dati. E agli adolescenti questo non basta. Anche se, nell’immediato, sembra rassicurante.

Alla fine, la questione è una sola, ed è urgente: vogliamo che i nostri figli imparino a vivere da un algoritmo, o da noi? La risposta non la daranno le aziende, né le istituzioni, né la tecnologia. La daremo noi genitori, scegliendo se restare vigili, presenti, coraggiosi – oppure lasciare che siano le chatbots a educare i nostri ragazzi nel momento più fragile della loro crescita. Siamo ancora in tempo. Ma il tempo sta correndo veloce. Come sempre, più della tecnologia corre il cuore dei nostri figli, che cercano qualcuno che li guardi negli occhi e dica loro: “Ci sono. Possiamo parlarne”. E questo, nessuna chatbot potrà mai farlo al posto nostro.

 Leggi anche: L’uomo nell’era delle macchine

Punto Famiglia



GIOVANI E VIOLENZA


Io, magistrato, vi dico dove nasce

 la violenza 

dei ragazzi perbene

 

-         di Luciano Moia

 

Dopo il caso di corso Como, in cui è stato accoltellato uno studente, parla il procuratore minorile di Milano, Luca Villa: «Guardate ai dati delle aggressioni fisiche che alcuni adolescenti infliggono agli stessi genitori: le denunce erano 5 o 6 qualche anno fa, oggi sono 106 all'anno.

E sono la spia di possibili reati futuri, a danno di donne e coetanei».

Ma può capitare che un ragazzo che studia e frequenta l’oratorio, che non ha mai dato problemi in famiglia, che appare equilibrato e addirittura educato, a un certo punto si lasci invischiare da un gruppo di coetanei balordi, prenda l’abitudine di uscire di casa con il coltello in tasca e finisca per essere protagonista di violenze assurde e immotivate, come quelle capitate qualche giorno fa in corso Como, a Milano?

Episodi che, visti in superficie, sembrano creati apposti per suscitare reazioni stupite e quasi incredule: ma come?

Un ragazzo così a modo, un figlio di famiglie perbene.

Impossibile.  No, purtroppo.

Sono situazioni che si verificano sempre più spesso e su cui occorre riflettere.

Luca Villa, magistrato di lungo corso, vasta esperienza con i giovanissimi più fragili, procuratore minorile a Milano, scuote la testa con amarezza.

Se fosse un politico, uno di quelli abituati a ributtare la palla nel capo avversario e a lavarsene le mani, risponderebbe più o meno così: «Ma come facciamo noi magistrati a raddrizzare quello che né la società, né la famiglia, né la scuola sembrano ormai non riuscire più a controllare».

E in buona parte avrebbe ragione.

Ma per fortuna non è un politico di quella pasta e lui le mani se le sporca tutti i giorni, ascoltando ragazzi e genitori, raccogliendo la loro sofferenza, cercando nuove soluzioni a problemi sempre più complessi.

È un magistrato, certo, ma anche un padre di tre figli.

Conosce fin troppo bene il mondo che abbraccia e talvolta confonde, disorienta i giovanissimi.

È convinto che solo un rinnovato e originale impegno educativo possa servire per sanare ferite che la repressione non riuscirà mai a fare.

E poi ci sono alcune derive, insospettabili solo fino a pochi anni fa, che lo preoccupano in modo particolare.

Mercoledì, Giornata mondiale contro le violenze sulle donne, ci sono stati grandi dibattiti anche sui maltrattamenti in famiglia, si è riparlato di maschilismo e di patriarcato.

Tutto giusto, ma Villa invita a considerare anche qualche altro dato, a cominciare dall’abbassamento dell’età degli autori di reato.

E, in queste violenze familiari, ci sono anche i maltrattamenti che i figli adolescenti infliggono ai genitori.

Violenze verbali ma anche e soprattutto fisiche, percosse, danneggiamenti gravi che costringono madri e padri, di fronte all’impossibilità di arginare diversamente la furia dei loro ragazzi, a far intervenire la polizia.

«Fino a qualche anno fa registravamo 5 o 6 denunce l’anno per casi del genere.

Nel 2024 siamo arrivate a 106 denunce solo a Milano.

E parliamo di famiglie che, secondo un certo modo di dire, definiamo “normali”, famiglie italiane ma anche immigrate di seconda generazione, perfettamente integrate, con una casa e un lavoro».

La violenza è diventata uno stile di vita che i ragazzi scelgono per una sorta di adeguamento al peggio.

I maltrattamenti che oggi infliggono ai genitori domani diventeranno abituali verso i figli o le compagne.

La ragione di questa spirale che appare sempre più diffusa?

Il responsabile della procura minorile di Milano non ha dubbi. «Il fattore scatenante – spiega – è l’isolamento relazionale in cui piombano questi ragazzi.

Il meccanismo d’innesco può essere una canna a cui segue il nirvana dei videogiochi e dei social in cui si immergono troppo spesso fino a notte fonda.

In questa realtà parallela i risultati scolastici peggiorano, si medita il ritiro e si scatenano le liti familiari.

Le relazioni si deteriorano, cominciano i maltrattamenti, la violenza diventa linguaggio abituale».

In questo cortocircuito relazionale, in cui troppo spesso le reazioni di madri e padri sembrano contrassegnate da profondo analfabetismo affettivo, si finisce inconsapevolmente per consegnare i figli alla logica della violenza.

Escono di casa con taglierini, lame a serramanico, ma anche con coltelli da cucina.

E le ragazze si adeguano.

Lo spray al peperoncino che tutte ormai hanno in borsetta, meglio se fuorilegge perché con una percentuale di principio attivo più alto, sembra più uno strumento offensivo che difensivo.

«Quando in udienza ascolto i ragazzi che affrontano il periodo della messa alla prova, chiedo loro: “Com’è la tua routine serale?”.

La maggior parte è contenta di misurarsi nelle varie attività di volontariato ma poi in pochissimi riescono a liberarsi dal ricorso alla cannabis.

“Mi serve per dormire”, si giustifica qualcuno.

Ma non è vero e se io propongo loro di rivolgersi alla nostra assistenza medica per superare il problema, avverto resistenze, spesso non si intende neppure tentare».

Insomma, se i tentativi di recupero di questi ragazzi sono un dovere, le probabilità di successo non sono mai scontate.

Anche perché, come già accennato, i giudici minorili troppo spesso sono costretti ad operare senza il sostegno delle famiglie e con risorse limitate.

«Il venir meno della socialità spontanea, quella di piazza, è un altro degli aspetti che più mi preoccupano.

Oggi la socialità è quella del web, della rete.

Tanto comoda ma anche tanto ingannevole.

Sui social la violenza, tanto per tornare ai nostri argomenti, è sempre spostata sul piano ludico.

Quando poi si pretende di trasferire quel tipo di violenza nella realtà, si fanno grandi guai e si causano sofferenze profonde.

Ma i ragazzi non si accorgono, spesso non immaginano neppure quanto dolore producono quei gesti».

Per questo, quando si tratta di stilare progetti di messa alla prova, il procuratore minorile di Milano chiede sempre che vengano inseriti momenti di consapevolezza per quanto riguarda la relazione d’aiuto con una persona fragile.

«Obblighiamo questi ragazzi a stabilire una relazione empatica, a riscoprire il contatto con l’umanità sofferente.

Più realtà e meno virtuale.  Non credo esista altra strada.

Ma noi genitori dobbiamo essere i primi a dare il buon esempio.

E invece…».

 

www.avvenire.it

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I GIOVANI E LA SPERANZA


 Il cardinale Zuppi: 

per i ragazzi serve un’alleanza sociale

 per la speranza

L’intervento del presidente della Conferenza episcopale italiana al convegno di studio ‘Giovani e dipendenze’ promosso, il 3 dicembre a Roma, dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile. Da gennaio un percorso di ascolto unirà per un anno Cei, Caritas, comunità terapeutiche e di accoglienza

 

- Giovanni Zavatta – Città del Vaticano

C’è un problema grave in Italia, forse sottovalutato, che «sembra invisibile», e riguarda i giovani. Prende vari nomi (alcol, cannabis, sigarette elettroniche, psicofarmaci, gioco d’azzardo, smartphone, pornografia) ma in tutti i casi nasconde disagio, solitudine, sofferenza. E «la sofferenza è un grido: dobbiamo ascoltarlo e capire cosa ci chiede». C’era anche il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Maria Zuppi, ieri 3 dicembre al seminario di studio Giovani e dipendenze promosso a Roma dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile. L’occasione per un confronto e una riflessione sulle dipendenze giovanili ma soprattutto per proporre strumenti concreti e costruire alleanze. Non solo parole, quindi, ma fatti che a partire dal gennaio del 2026 si espliciteranno in un percorso di ascolto promosso assieme da Cei, Caritas Italiana, Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) e Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti), attraverso laboratori territoriali ai quali parteciperanno studenti, famiglie, insegnanti, educatori e referenti diocesani: ascolto dei giovani, raccolta delle buone prassi nei territori, successiva lettura dei dati, restituzione finale nel dicembre del 2026, come hanno spiegato don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana, ed Elisabetta Piccioni, responsabile comunicazione della Fict.

La diffusione di sostanze illegali

«Dobbiamo lasciarci ferire dalla sofferenza delle persone», ha detto Zuppi: «Non bastano calmanti ai problemi, servono progetti che liberano davvero. La repressione da sola non risolve le dipendenze, ci vuole un’alleanza sociale per la speranza. La complessità non si affronta con semplificazioni o polarizzazioni. Serve conoscenza, coraggio e pazienza. Non possiamo perdere gli “incubatori” di umanità: la loro esperienza e motivazione sono un tesoro», ha aggiunto il presidente della Cei citando lo sport come «grande via di socializzazione». Walter Nanni, sociologo Caritas, ha ricordato dati preoccupanti: tra i ragazzi fra i 15 e i 19 anni l’uso di sostanze legali e illegali è diffuso, soprattutto fra i maschi, mentre molte femmine utilizzano psicofarmaci senza prescrizione. Senza parlare dei giovani che, specialmente nei fine settimana, si stordiscono con superalcolici e droghe pesanti.

Coinvolgere i giovani

«Per ricostruire insieme bisogna avere il coraggio di rimettere in discussione il sistema», ha osservato Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche. Per anni, ha quindi indicato, è stato costruito «un modello fatto di categorie, settori, comparti; un modello frammentato che non parla più ai ragazzi e non parla più tra sé». Ciò che serve oggi, è il coraggio «per rimettere in discussione i presupposti su cui abbiamo costruito i nostri servizi e i nostri percorsi educativi. E farlo non da soli, ma insieme ai giovani, coinvolgendoli davvero nella costruzione dei percorsi, nelle scelte, nelle visioni». Tutto questo significa, ha proseguito Squillaci, fare dei ragazzi non più destinatari passivi, quanto parte integrante del processo, «creando luoghi veri, laboratori, tavoli, spazi di confronto, in cui dirci le cose con sincerità. Perché senza verità non si costruisce nulla. Altrimenti continueremo a immaginare un mondo di cartone, dove persino il Covid non ci ha insegnato il senso del limite e della finitezza. E rischiamo di offrire ai giovani una vita senza fine e quindi senza un fine. Ripartire dalla verità, dalla relazione e dalla co-costruzione è l’unico modo per ricominciare davvero». 

Di fronte ad un fenomeno così complesso e diffuso serve quindi un approccio integrato, mettendo assieme uffici, parrocchie, gruppi e realtà ecclesiali, il che «non è solo una strategia efficace ma un dovere verso i nostri giovani».

Vatican News

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giovedì 4 dicembre 2025

NONOSTANTE TUTTO


 Volontari, l’esercito 

dei “nonostante”

Nella Giornata mondiale del Volontariato, dedichiamo a loro la homepage del nostro sito, con le “dieci parole” che oggi sono i motori del volontariato. È il nostro "grazie" ai 4,7 milioni di italiani che si spendono gratuitamente per gli altri e per il bene comune: oggi, nonostante tutto. Le dieci parole sono tratte dal magazine di novembre, "Volontario perché lo fai?”: un numero schierato, che difende con forza le ragioni e il senso del “noi ci impegniamo”. Insieme, rappresentano una sorta di riscrittura, ai giorni nostri, del bellissimo testo che don Primo Mazzolari scrisse nel 1949, che vi riproponiamo qui nella sua versione originale

 di Sara De Carli

 A muovere l’azione volontaria, le ricerche ce lo dicono da qualche anno, non è più la solidarietà. In un tempo segnato dalla cifra dell’impotenza, il “voler cambiare il mondo” suona per lo più come utopia. E se c’è chi sceglie rage-bite come “parola dell’anno”,  noi diciamo che il volontariato è l’antidoto più potente alla rabbia, al cinismo, alla rassegnazione. Come scrive su VITA Riccardo Guidi, «il volontariato è una delle più preziose strategie collettive per reagire alla frustrazione attraverso la cura». E come ci ha ricordato Andrea Cardoni, citando il poeta Angelo Maria Ripellino durante la presentazione del magazine che abbiamo fatto a Firenze, «siamo tutti dei “nonostante” sferzati dal vento, che cercano di resistere alle sofferenze della vita».

Il numero di VITA dedicato ai volontari, “Volontario, perché lo fai?” è un numero schierato: una scelta di campo e un grandissimo “grazie” ai milioni di volontari che in Italia, ogni giorno, si dedicano agli altri e al bene comune. Nella Giornata mondiale del Volontariato, dedichiamo a loro la homepage del nostro sito, con le “dieci parole” che oggi rappresentano i motori del volontariato: da “comunità” a “frustrazione”, da “desiderio” a “immaginazione”.

Le dieci firme che riflettono sui nuovi motori del volontariato

Insieme, rappresentano una sorta di riscrittura, ai giorni nostri, del bellissimo e sempre attuale testo che don Primo Mazzolari scrisse nel 1949, Il nostro impegno, qui nella versione originale condivisa dalla Fondazione don Primo Mazzolari. Ripartiamo da qui, ripartiamo da noi.

Il nostro impegno

Ci impegniamo

noi e non gli altri

unicamente noi e non gli altri

né chi sta in alto né chi sta in basso

né chi crede né chi non crede.

Ci impegniamo

senza pretendere che altri s’impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo.

 Ci impegniamo

senza giudicare chi non s’impegna

senza accusare chi non s’impegna

senza condannare chi non s’impegna

senza cercare perché non s’impegna

senza disimpegnarci perché altri non s’impegna.

Sappiamo di non poter nulla su alcuno né vogliamo forzar la mano ad alcuno, devoti come siamo e come intendiamo rimanere al libero movimento di ogni spirito più che al successo di noi stessi o dei nostri convincimenti.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo si muta se noi ci mutiamo si fa nuovo se alcuno si fa nuova creatura imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi

Noi non possiamo nulla sul nostro mondo, su questa realtà che è il nostro mondo di fuori, poveri come siamo e come intendiamo rimanere e senza nome. Se qualche cosa sentiamo di potere — e lo vogliamo fermamente — è su di noi, soltanto su di noi.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo

si muta se noi ci mutiamo

si fa nuovo se alcuno si fa nuova creatura

imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi.

L’ordine nuovo incomincia se alcuno si sforza di divenire un uomo nuovo.

La primavera incomincia col primo fiore

la notte con la prima stella 

il fiume con la prima goccia d’acqua  

l’amore col primo sogno. 

Ci impegniamo  perché… 

Noi sappiamo di preciso perché c’impegniamo: ma non lo vogliamo sapere, almeno in questo primo  momento, secondo un procedimento ragionato, l’unico che soddisfi molti anche quando non  capiscono, proprio quando non capiscono. 

Questo sappiamo e più che agli altri lo diciamo a noi stessi: 

Ci impegniamo  perché non potremmo non impegnarci. 

C’è qualcuno o qualche cosa in noi — un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia — più forte  di noi stessi. 

Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che non si sa di preciso donde vengano, ma che  costituiscono la più sicura certezza, l’unica certezza nel disorientamento generale. Lo spirito può aprirsi un varco attraverso le resistenze del nostro egoismo anche in questa maniera,  disponendoci a quelle nuove continuate obbedienze che possono venire disposte in ognuno dalla coscienza, dalla ragione, dalla fede. 

Ci impegniamo 

per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita, una ragione che non sia una delle tante ragioni che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore, un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte ai giovani dalla gente pratica. Si vive una sola volta e non vogliamo essere «giocati» in nome di nessun piccolo interesse. 

non ci interessa la carriera 

non ci interessa il denaro 

non ci interessa la donna se ce la presentate come femmina soltanto 

non ci interessa il successo né di noi stessi né delle nostre idee 

non ci interessa passare alla storia. 

Abbiamo il cuore giovane e ci fa paura il freddo della carta e dei  marmi 

non ci interessa né l’essere eroi né l’essere traditori davanti agli uomini se ci costasse la fedeltà a noi stessi. 

Ci interessa  di perderci per qualche cosa o per qualcuno che rimarrà anche dopo che noi saremo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci. 

ci interessa 

di portare un destino eterno nel tempo  

di sentirci responsabili di tutto e di tutti 

di avviarci, sia pure attraverso lunghi erramenti, verso l’Amore, che ha diffuso un sorriso di poesia  sovra ogni creatura, dal fiore al bimbo, dalla stella alla fanciulla, che ci fa pensosi davanti a una culla  e in attesa davanti a una bara. 

Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo 

Ci impegniamo 

non per riordinare il mondo  

non per rifarlo su misura  

ma per amarlo 

per amare 

anche quello che non possiamo accettare  

anche quello che non è amabile  

anche quello che pare rifiutarsi all’amore  

poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è, insieme a una grande sete d’amore, il volto e il cuore  dell’Amore. 

Ci impegniamo 

perché noi crediamo all’Amore,  

la sola certezza che non teme confronti,  

la sola che basta per impegnarci perdutamente.

 La fonte della citazione è P. Mazzolari, Impegno con Cristo, ed. critica a cura di G. Vecchio, EDB, Bologna, 2007. La foto in apertura è di Anffas. La foto di don Primo Mazzolari è di LaPresse

VITA

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PROFETESSA INASCOLTATA

 


HANNA ARENDT, 

"UNA DONNA CHE PENSA"


"Sono pensata, dunque sono!"




 

 - di Roberto Righetto


 

 

 

 

 «Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. 

Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’Antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la lieta novella dell’avvento: “Un bambino è nato per noi”». Così Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. 

Julia Kristeva la descrive come «una donna che pensa» e durante tutta la sua vita non ha fatto altro. Al Cogito ergo sum cartesiano contrapponeva il motto: «Sono pensata, dunque sono». Non stupisce perciò che nel 1965 abbia avuto parole di elogio verso la figura di Papa Giovanni. Nell’arti­colo The Chri­stian Pope, apparso sulla New York Review of Books e poi inserito nel volume Men in Dark Times, scrive fra l’altro: «Generazioni di intel­let­tuali moderni, quando non erano atei – cioè scioc­chi che fin­ge­vano di sapere ciò che nes­sun uomo può sapere – hanno impa­rato da Kier­ke­gaardDostoe­v­skijNie­tzsche e dai loro nume­ro­sis­simi seguaci, den­tro e fuori il movi­mento esisten­zia­li­sta, a con­si­de­rare “inte­res­santi” le que­stioni teo­lo­gi­che. Senza dub­bio per tutti costoro sarà dif­fi­cile com­pren­dere un uomo che, sin dalla tenera età, aveva “fatto voto di fedeltà” non solo alla “povertà mate­riale”, ma a quella di “spirito”». Così manifestava il suo stupore per il richiamo alle origini del cristianesimo che il papa del Concilio rappresentava ai suoi occhi. 

Lungi da noi, a 50 anni dalla morte, avvenuta il 4 dicembre 1975 a New York, fare di Hannah Arendt una filosofa cristiana: anzi a più riprese scrisse parole dure verso la Chiesa cattolica per la sua ambiguità sulla Shoah e sull’antisemitismo. «Pensatrice senza balaustra»: così amava definirsi lei stessa per far capire che la sua posizione voleva prescindere dai “parapetti” delle ideologie preconfezionate. È stata senza dubbio una delle intellettuali più influenti del Novecento: ebrea, tedesca e americana. Sostanzialmente un’apolide. «Una fanciulla straniera» l’aveva chiamata il suo maestro Karl Jaspers. Tutta la sua opera non è stata altro che il tentativo di fare i conti con la catastrofe che ha investito l’umanità nel secolo scorso e che aveva colpito anche lei, costretta a fuggire nel 1933 dalla Germania per riparare in Francia e poi negli Stati Uniti. Quella catastrofe aveva il sembiante del totalitarismo. Al quale dedicò una delle sue opere più importanti, scritta negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, Le origini del totalitarismo. Libro citato di recente anche da papa Leone XIV, il quale, rivolgendosi a un gruppo di giornalisti il 9 ottobre e invocando la necessità di un’informazione libera e obiettiva in tempo di fake-news, ne ha sottolineato un passaggio cruciale: «Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto oppure il comunista convinto, ma la persona per la quale non c’è più differenza tra realtà e finzione, tra il vero e il falso». 

La celebrità della Arendt è dovuta alle polemiche seguite ai suoi articoli sul processo Eichmann a Gerusalemme, pubblicati sul New Yorker, nei quali coniò il concetto di “banalità del male” che l’ha resa famosa. La figura del boia nazista nella sua terribile normalità rappresenta per lei l’espressione più inquietante del nazismo, l’individuo che sacrifica la sua coscienza al mito della collettività e dell’organizzazione e che ne diventa mero esecutore, un ingranaggio della macchina dello sterminio. La sua interpretazione provocò reazioni polemiche di molti suoi amici ebrei che l’accusavano di voler minimizzare l’Olocausto. Ma anche i tedeschi, che tendevano a fare del Terzo Reich un’eccezione brutale della loro storia, ne furono disturbati: la Germania intera veniva in tal modo accusata di complicità e finiva sul banco degli accusati. 

Negli ultimi anni continuano a uscire in Italia nuove edizioni dei suoi libri. Come L’umanità in tempi bui curato da Laura Boella, o Democrazia sorgiva a cura di Adriana Cavarero, entrambi usciti presso Raffaello Cortina Editore; oppure Antisemitismo e identità ebraica (Einaudi) per la cura di Enzo Traverso. «La questione è sapere – dice Arendt in L’umanità in tempi bui– quale misura di realtà occorre mantenere anche in un mondo divenuto disumano, se non si vuole ridurre l’umanità a vuota frase o fantasma». 

L’oscurità in cui la civiltà occidentale era precipitata ai tempi del nazismo, per essere ribaltata con i valori della ragione, non poteva eludere il confronto con la realtà, nel bene e nel male. Ed è quanto essa ha costantemente fatto nel tentativo di «rischiarare l’oscuro». 

In Antisemitismo e identità ebraica scrive: «Il XIX secolo ha prodotto la coincidenza di Stato e nazione. Poiché gli ebrei erano dovunque fedeli allo Stato si sono dovuti preoccupare di liberarsi della loro nazionalità, si sono dovuti assimilare. Il XX secolo ci mostra, nei terribili trasferimenti di popolazione e nei vari massacri – iniziati dai pogrom dell’Armenia e dell’Ucraina – le conseguenze ultime di questo nazionalismo». Siamo nel gennaio 1940 e Hannah Arendt, dopo essere fuggita dalla Germania nel 1933, si trova in Francia in attesa di riparare negli Stati Uniti per sottrarsi alle persecuzioni naziste. In quel periodo, pur soffrendo per la sua condizione di apolide, visto che era stata privata di quella tedesca nel 1937 come conseguenza delle leggi di Norimberga, elabora lucidissime analisi sulla situazione politica dell’Europa e sulla condizione delle minoranze, sempre più oppresse. Solo nel 1951 ricevette la cittadinanza americana e in una lettera all’ex marito Günther Anders poteva esclamare: «Ho il passaporto (il libro più bello che conosca, un passaporto)». 

Parole che denotano il suo sollievo dopo anni in cui lei, come i rifugiati ebrei espatriati dalla Germania e scampati all’orrore del nazismo, aveva vissuto l’esperienza angosciosa di essere priva di cittadinanza. 

Nella sua lotta contro l’antisemitismo Arendt trova alleati nel mondo cristiano e cita positivamente figure come Maritain, Tillich e Bernanos, i quali si erano espressi duramente contro le persecuzioni feroci attuate un po’ ovunque, dalla Germania alla Francia alla Polonia. Per questo continuava a sperare che il destino degli ebrei non fosse disgiunto da quello dell’Europa e immaginava per il Vecchio Continente una federazione di popoli liberi in cui anche quello ebraico trovasse spazio. Una speranza che con l’avvio della soluzione finale venne sempre più scemando. 

Nei suoi scritti spesso polemici con il mondo sionista, anche riguardo alla Palestina Hannah Arendt esprime posizioni di tono liberaldemocratico. Nel dibattito che si apre riguardo al futuro, si affaccia l’ipotesi di uno Stato binazionale in cui tutti gli abitanti, arabi ed ebrei, potessero godere degli stessi diritti: «La verità è che – scrive nel dicembre 1943 – la Palestina può essere salvata come sede nazionale per gli ebrei solo se viene integrata in una federazione». Anche in questo caso, parole profetiche e inascoltate. 

Fonte: Vita e Pensiero

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mercoledì 3 dicembre 2025

UNA PRESENZA CHE TRASFORMA IL QUOTIDIANO

 

QUEL PICCCOLO LIBRO

 CHE RIVELA 
L’ANIMA DEL PAPA

 

Durante la conferenza stampa sul volo che lo riportava dal suo primo viaggio apostolico in Turchia e in Libano, Papa Leone XIV ha sorpreso i giornalisti con un riferimento inatteso. Invitato a indicare un testo capace di illuminare la sua spiritualità personale – oltre a Sant’Agostino, da lui più volte citato – il Papa ha scelto un libretto quasi invisibile, lontano dai grandi manuali di teologia e dalla saggistica spirituale contemporanea: La pratica della presenza di Dio, del carmelitano Fra Lorenzo della Resurrezione.

«È un libro davvero semplice» ha spiegato il pontefice, «scritto da qualcuno che non firma neppure con il suo cognome, fratel Lawrence. Ma descrive un tipo di preghiera e di spiritualità con cui uno semplicemente dona la sua vita al Signore e permette al Signore di guidarlo».

Un’indicazione che dice molto: mentre il mondo guarda alle grandi sfide geoponiche affrontate nel viaggio, Leone XIV preferisce richiamare l’attenzione a un testo che invita al raccoglimento, al silenzio interiore, al dialogo continuo con Dio nel cuore delle occupazioni quotidiane. Un invito alla semplicità evangelica, alla vita spirituale incarnata nella ferialità.

Ma che cos’è, realmente, questa “pratica della presenza di Dio” che il Papa propone come via per comprenderlo meglio?


La presenza che trasforma il quotidiano

Fra Lorenzo della Resurrezione, carmelitano vissuto in Francia tra il 1614 e il 1691 e oggi venerabile, non ha lasciato trattati sistematici né opere teologiche elaborate. Ci rimangono soprattutto le sue lettere e alcuni colloqui, nei quali emerge con limpidezza un’idea centrale: la pratica della presenza di Dio è il mezzo più semplice ed eccellente per vivere un’unione profonda con il Signore.

Non si tratta di una forma di preghiera delimitata, con un inizio e una fine, né di un metodo complesso riservato a momenti particolari. È, piuttosto, uno stato dell’anima, un atteggiamento continuo, una conversazione silenziosa che accompagna ogni istante della vita.

Per Fra Lorenzo vivere alla presenza di Dio significa coltivare un sguardo amoroso e costante verso di Lui, una specie di attenzione semplice ma reale, che non si basa sullo sforzo intellettuale, bensì sull’amore. È come mantenere il cuore rivolto a Colui che ci ama, senza parole superflue: un “colloquio muto e segreto” che non abbandona mai chi lo pratica.

Questa presenza non è un’astrazione spirituale: è un fatto concreto. Fra Lorenzo la chiamava “presenza attuale di Dio”, come se Dio fosse realmente e fisicamente accanto a lui, nelle pentole della cucina del convento, nella bottega dove riparava i sandali, nei corridoi dove passava inosservato. La sua cura principale – raccontano i confratelli – era essere sempre con Dio, e non fare nulla, neppure il gesto più minimo, che non fosse per amore.

È una spiritualità estremamente quotidiana, quasi domestica. Per chi desidera abbracciarla, Fra Lorenzo suggerisce gesti piccoli, quasi impercettibili: un ricordo improvviso durante il lavoro, un atto di adorazione al passare di un pensiero, una breve domanda di aiuto, l’offerta delle proprie fatiche, un movimento del cuore verso Dio mentre si conversa o si mangia. Non gesti eroici, ma fedeltà nei dettagli.

Fondamentale è ciò che il carmelitano chiama lo “sguardo interiore”: un rivolgersi al Signore prima di qualunque azione, anche per un brevissimo istante, lasciando che quella presenza accompagni l’agire e lo concluda. È un movimento tanto dolce quanto costante, che non chiede sforzi titanici ma continuità, umiltà, amore.

Fra Lorenzo insiste anche su un’idea potentissima: il cuore può diventare un oratorio. Non occorre essere in chiesa per stare con Dio; non è necessario isolarsi dal mondo o sospendere le attività. Dio è lì, nelle cose più semplici e ordinarie. Basta ritirarsi dentro di sé, per un momento, e fargli spazio.

Una spiritualità per il nostro tempo

Aver scelto proprio questo libro, da parte di Papa Leone XIV, non è un dettaglio secondario. In un’epoca di distrazioni continue, di frenesia, di identità frammentate, la proposta di Fra Lorenzo appare sorprendentemente attuale. È una via alla portata di tutti, che non chiede perfezione ma disponibilità, non richiede particolari condizioni esterne ma un cuore che si lasci abitare.

In un mondo che corre, il Papa indica un uomo che camminava lentamente in una cucina del Seicento, ma che in quella lentezza aveva trovato la pace.

E forse è proprio questo che la sua citazione vuole ricordare: che la spiritualità cristiana non vive soltanto nei grandi eventi o nelle parole solenni, ma nel segreto dei cuori che, anche mentre pelano patate o affrontano le sfide di ogni giorno, scelgono di non dimenticare la presenza di Dio.

 

Il timone

 

Genere: Scienze umane - Religione - Cristianesimo

Editore Vidyananda

Formato Brossura

Pubblicato 01-01-2009

Pagine 122

ISBN 9788886020091

 

 

martedì 2 dicembre 2025

DOVE VA IL MATRIMONIO ?

 


Dalla legge sul divorzio alla cultura dell’interruzione facile: un anniversario che ci interroga

 

di Giovanna Abbagnara

Il 1° dicembre 1970 l’Italia approvava la legge sul divorzio. Cinquantacinque anni dopo, questa data torna come uno specchio: ci costringe a guardarci dentro e a chiederci cosa siamo diventati, quali strade abbiamo imboccato, quali ferite abbiamo aperto – e soprattutto cosa abbiamo smesso di vedere. Pier Giorgio Liverani, giornalista fine e lungimirante, che più volte ha denunciato un meccanismo sottile ma devastante, diceva che una legge pensata per regolamentare casi eccezionali, con il tempo, diventa una prassi ordinaria e poi una cultura.

È accaduto con il divorzio. Doveva essere un’“eccezione umana”, una via d’uscita per situazioni davvero drammatiche. È diventato molto più: un’abitudine sociale, quasi un automatismo, talvolta perfino un’opzione rapida – e spesso superficiale – davanti alle prime difficoltà. E così, lentamente, l’amore stesso si è trasformato. Da promessa, è diventato contratto; da dono, patto rescindibile; da vocazione, esperienza a tempo determinato.

Il problema è che, quando la cultura cambia, cambiano anche i desideri, i comportamenti, le attese, le soglie di sopportazione. Non è solo “colpa della legge”. È che una legge apre immaginari, autorizza nuovi modi di pensare. Lo schema si ripropone oggi per molte altre questioni, e una in particolare mi inquieta: il suicidio assistito. Si comincia sempre così: “Solo per pochi casi estremi. Solo quando la sofferenza è insopportabile. Solo in situazioni limite”. Lo abbiamo già sentito. Lo sappiamo già. Perché ciò che diventa legittimo, presto diventa normale. E ciò che diventa normale, prima o poi diventa culturalmente desiderabile.

Ma la domanda che nessuno affronta è un’altra: come prevenire? Ci appassioniamo alla regolamentazione delle uscite, mai alla costruzione dei ponti. Ci muoviamo sempre sul terreno delle emergenze, mai su quello della formazione. Perché non investiamo sulle coppie prima che arrivino al punto di rottura? Perché non sosteniamo i giovani fidanzati, i neo-sposi, le famiglie alle prime armi? Perché non offriamo strumenti psicologici, relazionali, spirituali per attraversare le crisi e non solo per uscire da esse?

Siamo pieni di slogan sulla “prevenzione” – prevenzione dei tumori, delle malattie cardiache, degli incidenti stradali. Ma sulla salute interiore, emotiva e relazionale, sulla salute dell’amore e della speranza… niente. Silenzio. Eppure, non c’è campo in cui la prevenzione sarebbe più decisiva. Lo stesso vale per il tema del suicidio: si parla di legittimare un gesto estremo, ma quasi nessuno parla seriamente di prevenzione della disperazione. Di come intercettare la solitudine prima che diventi abisso. Di come accompagnare chi soffre prima che perda il senso. Di come far sentire alla persona che esiste una comunità, una relazione, un futuro possibile.

Il nodo vero è culturale: tornare a credere che la vita valga. Che l’amore valga. Che restare valga. Una società matura non facilita la fuga, ma sostiene la fedeltà. Non normalizza la rinuncia alla vita, ma moltiplica le ragioni per desiderarla. Cinquantacinque anni dopo il divorzio, abbiamo imparato molto sui diritti individuali e pochissimo sulla responsabilità relazionale. Sappiamo come “chiudere” una storia, ma non come salvarla. Sappiamo come interrompere una vita, ma non come ravvivarla. Ma l’amore non si protegge a valle, quando è quasi finito. Si protegge a monte, quando lo si forma. E lo stesso vale per la vita. possiamo fare molti di più ma vogliamo veramente farlo?

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