lunedì 24 novembre 2025

L'INTELLIGENZA DEL CUORE

Ci salverà

 l'intelligenza del cuore

Se ci lasceremo sedurre dall’illusione di poter delegare tutto alla macchina, all'IA, rischieremo di perdere il senso del vivere insieme. 


La vera intelligenza è quella che sa amare.

di Mauro Magatti

La grande fascinazione che l’intelligenza artificiale (IA) ha sull’opinione pubblica suscita, come succede sempre con le grandi innovazioni, emozioni contrastanti. Da un lato, i tecnoentusiasti, che vedono nella nuova frontiera digitale la promessa di una umanità potenziata, più efficiente, più intelligente, più libera dagli errori e dai limiti della mente umana. Dall’altro lato, i tecnofobici che enfatizzano i rischi e alimentano le paure: la perdita del lavoro, la manipolazione delle menti, la sorveglianza totale, la riduzione dell’umano a una funzione biologica e algoritmica. Entrambi gli schieramenti hanno in parte ragione e in parte torto. Il problema è che, come ogni salto tecnologico, anche quello digitale non cambia solo il modo di fare le cose: cambia il modo di pensare, di sentire, di relazionarci. L’IA non è un semplice strumento, ma un nuovo ambiente cognitivo che riorganizza le condizioni stesse dell’esperienza umana. Invece di schierarsi di qua o di là, ciò che è necessario fare è cercare di comprendere cosa sta accadendo — senza cedere né all’euforia né alla paura — per riuscire a limitare gli aspetti negativi e valorizzare quelli positivi. Per farlo, occorre uno sguardo critico ma non distruttivo, capace di inserire l’innovazione in una visione più ampia dell’umano. La direzione che prenderà la nostra civiltà dipende da come penseremo la tecnica e da come la orienteremo verso fini umani.

Per come e stata realizzata, l’intelligenza artificiale rappresenta l’incarnazione del riduzionismo moderno. Che, nella sua struttura più profonda, porta a compimento quella separazione tra fede e ragione, tra significato e calcolo, che Joseph Ratzinger aveva individuato come una delle grandi questioni delle società avanzate. L’intelligenza artificiale è il trionfo della ragione che sa calcolare ma non sa interrogare i fini; che ottimizza i mezzi ma non sa decidere che cosa sia bene o giusto. Le macchine che oggi ci affascinano tanto non sono “cattive” — come a volte si tende a dire — ma hanno il problema di essere costruite esattamente in base ad un paradigma ben preciso: elaborare le informazioni, massimizzare l’efficienza, ridurre la complessità a dati manipolabili. Ecco allora la grande responsabilità che abbiamo, come comunità dei viventi, di fronte a questa svolta: se l’IA rappresenta la massima espressione della ragione strumentale, il nostro compito non è competere con essa, ma custodire e sviluppare tutto ciò che non è riducibile a questa logica. 

C’è una parte del pensiero umano che nessuna macchina potrà mai sostituire: quella che nasce dall’esperienza vissuta, dalla relazione, dal dolore, dal desiderio, dalla ricerca di senso. È il pensiero che si radica nel corpo, che si apre all’altro, che si interroga sul perché e non solo sul come. Custodire questi aspetti significa riconoscere e coltivare la dimensione spirituale. Come capacità di aprirsi a ciò che eccede il calcolo e la rappresentazione. È infatti lo spirito — componente essenziale del pensiero umano — ciò che ci mette in relazione con l’alterità, sia nella verticalità del rapporto con ciò che trascende — Dio, il mistero, l’assoluto, la verità — sia nell’orizzontalità della relazione con gli altri esseri umani. Che poi si esprime nella capacità di affezione e di compassione. È nell’esperienza spirituale che nasce la possibilità di un pensiero generativo, di un’etica che non si limita a reagire, ma è capace di creare, che non si riduce al codice, ma apre spazio alla libertà.

Spingendoci a interrogarsi su che cosa significhi essere umani, l’intelligenza artificiale può dunque diventare l’occasione per imprimere una svolta inattesa alla vicenda moderna. Essa, infatti, ci costringe a ripensare il rapporto tra mente e spirito, tra sapere e saggezza, tra efficienza e senso. In un’epoca dominata da algoritmi che apprendono senza comprendere, sentiamo il bisogno di un’intelligenza del cuore, capace di riconoscere che la vita è più grande di ogni sistema logico. Custodire il pensiero non riducibile al calcolo significa custodire la libertà, la poesia, la speranza, la parola che apre mondi. Un compito che va coltivato sul piano personale e sviluppato su quello sociale: insieme dobbiamo capire i luoghi, le forme e le condizioni per curare l’attenzione, l’immaginazione, il desiderio. L’IA, dunque, non è un destino da subire, ma uno specchio che ci può aiutare a capire meglio chi siamo. E cosa possiamo diventare. Se la useremo come alleata per ampliare la nostra umanità, potrà aiutarci a costruire una civiltà più consapevole, più solidale, più giusta. Ma se ci lasceremo sedurre dall’illusione di poter delegare tutto alla macchina, rischieremo di perdere il senso stesso del vivere insieme. 

In fondo, la vera intelligenza — quella umana — non è quella che sa calcolare di più, ma quella che sa amare meglio. Qualcosa che nessuna macchina sarà mai capace di fare.

www.avvenire.it  

immagine

ARTIGIANI DI COMUNITA'

 


UNA SFIDA PER LE ASSOCIAZIONI

«Essere artigiani 

di amicizia,

 di fraternità, 

di relazioni autentiche »


«L’amicizia può veramente cambiare il mondo» 

perché «è una strada verso la pace».

Leone XIV

-        -         di MATTEO LIUT

-          Che lo vogliamo o no, siamo tutti intrinsecamente costruttori di comunità, ma non esiste un modo univoco di esserlo, come dimostra un certo stile oppositivo di fare gruppo oggi, che spesso definisce i perimetri dell’appartenenza guardando agli altri quasi come “nemici” da combattere. 

Ecco perché la Chiesa, con questo suo insistere sulla “sinodalità” – inteso come stile che esprime la fraternità mentre si percorre un cammino assieme – nel nostro tempo può avere un ruolo così determinante e profetico in tutti gli ambiti della società. Siamo, infatti, inevitabilmente tutti portatori di comunità e lo siamo dal momento in cui arriviamo ad abitare questo mondo fino a quando chiudiamo gli occhi per sempre: la nostra nascita genera comunità, crea legami, alimenta relazioni, convoca una famiglia; ma anche la nostra morte genera comunità, raduna amicizie e parentele, affida a chi resta una memoria condivisa. E così tutto quello che sta nel mezzo: generiamo comunità andando a scuola o al lavoro, scandendo con riti e celebrazioni i momenti di passaggio della nostra vita, usando gli strumenti della comunicazione digitale. E le scienze ci insegnano che anche la nostra base biologica e anatomica, come quella psichica e affettiva, è un’esperienza comunitaria, ovvero una dinamica collettiva dove ogni elemento funziona perché è in relazione con gli altri.

Siamo destinati alla comunità anche dentro il rapporto più intimo e apparentemente esclusivo tra due persone che si amano: gli innamorati sentono che il loro sentimento chiede loro di essere testimoni di bellezza e di non trattenere per sé ciò che si prova. È innegabile, quindi, che la comunità nell’esistenza umana esiste come qualcosa di connaturale e inevitabile.

Ma questo, appunto, non significa che sappiamo in modo naturale come si costruisce una comunità in grado di essere radice di futuro. Dove imparare a farlo, quindi? E dove imparare a orientare la nostra natura comunitaria verso un progetto più grande, che sappia rispondere alla nostra inesauribile sete di senso, al bisogno primario di essere amati?

Rimanere senza una mano che accompagna in questo cammino genera quello che il Papa ha descritto ieri nel suo discorso davanti ai vescovi italiani, riuniti ad Assisi per la loro 81ª Assemblea generale: «La solitudine consuma la speranza, mentre numerose incertezze pesano come incognite sul nostro futuro». Parole cui Leone XIV fa seguire l’invito a dare forma ciò a cui la Chiesa è chiamata «dalla Parola e dallo Spirito»: «Essere artigiani di amicizia, di fraternità, di relazioni autentiche». Espressioni in piena consonanza con quelle pronunciate dal cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, nell’introduzione all’Assemblea e nella conferenza stampa di chiusura. L’appello a essere costruttori di comunità non ha solo a che fare con la radice storica e teologica dell’agire della Chiesa nel tempo dell’umanità (Dio stesso è comunità, è Padre, Figlio e Spirito Santo e il mandato del Risorto è quello di fare di tutti gli esseri umani un’unica comunità battezzata, cioè, immersa, nella vita di Dio), ma è snodo fondamentale per continuare ad alimentare la vita della stessa della comunità dei credenti. 

Farsi compagni delle donne e degli uomini non per “indottrinarli” ma per camminare con loro nel viaggio di scoperta della radice infinita della loro stessa esistenza è il primo necessario compito ecclesiale. Ecco perché alimentare la sinodalità oggi è così “strategico” e Zuppi ha voluto chiedere risposte chiare, concrete e opportune al Cammino sinodale compiuto in questi anni dalla Chiesa italiana: è in questo stile che sta la profezia delle comunità ecclesiali. Dietro c’è la consapevolezza che contribuire a dare forma a una società più fraterna e solidale, a un’economia di comunione, a una politica della speranza che dà voce agli ultimi, è la condizione fondamentale per aiutare le persone a incontrare Dio. 

Sì, perché l’esperienza comunitaria, dentro la Chiesa, non è fine a se stessa, la compagine ecclesiale non è un partito, non è un club, un gruppo d’interesse, una rete sociale, che si alimenta della propria stessa identità, ma è uno strumento pensato per portare all’incontro con Cristo. 

Una relazione, questa sì, che è intima e personale e che motiva la responsabilità individuale nel mondo: i cristiani vivono in comunità ma non delegano al gruppo, sperimentano la condivisione ma si fanno carico in prima persona degli altri, agiscono insieme ma rispondono di sé stessi.

 La sinodalità, insomma, vissuta alla luce del Vangelo, forma cittadini adulti. E quindi società aperte al futuro.

 

www.avvenire.it

 

 

  

Immagine

 

 

 

sabato 22 novembre 2025

UN RE CROCIFISSO

 


CRISTO RE 


La definizione perfetta


23 novembre 2025 

 



Vangelo: Lc 23,35-43

Commento di P. Ermes Ronchi

 Sta morendo, in faccia al mondo che lo irride: “guardatelo, il re!”

Il titolo, un po’ barocco, della festa di oggi è: Gesù Cristo re e signore dell’universo. Ma come si fa ad applicarlo a uno inchiodato su un trono di sangue, che esibisce una corona di spine conficcata sul capo?

I soldati lo provocano: Fai un gesto di forza.

Uno invece gli chiede: fai un gesto di bontà, ricordati di me.

Un gesto di forza prodigiosa, oppure un gesto di bontà. I miracoli non servono a far crescere la fede, ma un gesto di bontà può compiere un miracolo.

Tutte le religioni primitive scelgono di servire un dio onnipotente. La fede di Gesù Cristo, invece, sceglie il Dio che tutto abbraccia, bontà immensa che penetra l’universo, il Dio “onni amante”.

Gesù rassicura gli Undici con tenerezza materna: ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo, fino al consumarsi del tempo.

E come una madre davanti al figlio piccolo che deve imparare a stare senza di lei, trova le parole perfette per scacciare ogni paura.

Quelli impauriti siamo noi. E insieme a quel gruppetto frastornato egli ci lascia l’ultima certezza, che tutto illumina: Dio con noi, sempre. Emmanuele, sempre.

Non è forse un miracolo, questo? Non è la storia che, dopo l’incarnazione, continua da qui in avanti a girare all’incontrario? Dio che si dona, il Grande a servizio del piccolo.

Il ladrone prova a difendere Gesù da quella bolgia, con l’ultima voce che ha: non vedi che anche lui è nella stessa nostra pena? Il delinquente misericordioso ci rivela che anche nella vita più contorta si è incarnata una briciola di bontà, una goccia di bene. Nessuna esistenza è senza un grammo di luce.

Non vedi che patisce con noi?

“Lui non ha fatto nulla di male”. Che bella definizione di Gesù, nitida, semplice, perfetta: Colui che niente di male fa, a nessuno, mai. Solo bene, esclusivamente bene. E’ Signore e re proprio per questo, perché il mondo appartiene a chi lo rende migliore.

Non vedi che patisce con noi.? Che naviga in questo nostro stesso fiume di lacrime. E l’amore umano, che è così raro, così poco, così fragile, Dio lo prende dovunque lo trova.

Il ladrone “buono” aveva chiesto solo un ricordo: ricordati di me quando sarai nel tuo regno. Non sperava altro.

Invece, Gesù non solo si ricorderà, ma lo porterà via con sé: oggi sarai con me in paradiso.

“Ricordati di me” prega il peccatore, “sarai con me” risponde l’amore.

Queste ultime parole di Cristo sulla croce sono tre editti regali, da vero re e signore dell’universo: oggi-con me-nel paradiso.

Il nostro Gesù, il nostro idealista irriducibile, di un idealismo selvaggio e indomito, ha la morte addosso, ma pensa alla vita di quel figlio di Caino che gocciola sangue e paura accanto a lui.

È sconfitto, ma pensa ad una vittoria, a un “oggi con me”, in un mondo che solo amore e luce ha per confine.

Miracolo del re sconfitto. Scandalo e follia della croce vittoriosa.me ‘Dio’.

Per gentile concessione di p. Ermes, fonte.

 

LEGGI LA PREGHIERA DELLA DOMENICA

 

Cercoiltuovolto

 

IL FUTURO E' ORA


 Il Papa ai giovani:

 è il tempo di sognare

 in grande,

 siete il presente della Chiesa


In video collegamento con i 16 mila partecipanti alla National Catholic Youth Conference riuniti nel Lucas Oil Stadium di Indianapolis, Leone XIV invita a non soffocare la fede entro “categorie politiche”. Esorta a vedere le nuove tecnologie come accompagnamento verso l’età adulta, diffidando dalle “comodità” e dalle superficialità, coltivando l’amicizia con Gesù in un mondo in cui è facile dire “nessuno mi capisce”

-         di Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

Il futuro è ora: è l’istante che pulsa, il respiro che invita a “sognare in grande”. Il vento della giovinezza soffia forte e spinge oltre le “comodità” e la superficialità. Chiama a salpare verso la “grandezza” che nasce da generosità, amore, amicizia. È un cammino senza timore di mutare orizzonti perché, quando lo sguardo si lascia guidare da rapporti genuini, l’approdo non può che essere “gioia e libertà”. È una ricerca che non issa bandiere, perché la fede non si lascia rinchiudere entro “categorie politiche”. E si cresce così: inseguendo la bellezza, navigando verso il futuro con le nuove tecnologie che non “indeboliscono” il viaggio, ma lo accompagnano. Questo pomeriggio, 21 novembre, Papa Leone XIV si mette in ascolto degli obiettivi, delle gioie e inquietudini comuni alle nuove generazioni, in video collegamento con i 16 mila giovani riuniti nel Lucas Oil Stadium di Indianapolis (in Indiana, negli Stati Uniti), in occasione della National Catholic Youth Conference (Conferenza nazionale dei giovani cattolici), inaugurata ieri e che proseguirà fino al 22 novembre.

I giovani alla ricerca del Signore

“Buongiorno!”, è il saluto iniziale del Papa, in inglese, vista la differenza di fuso orario. Collega idealmente Indianapolis a Roma ricordando che l’incontro avviene durante l’Anno Santo, e si apre poi a un orizzonte globale, sottolineando come in molte diocesi del mondo diverse chiese siano state designate “giubilari”. Il pensiero corre anche allo scorso luglio, quando oltre un milione di giovani pellegrini si sono radunati a Tor Vergata per il Giubileo loro dedicato.

Che benedizione vedere così tanti giovani cattolici cercare il Signore con sincerità e gioia!

Conoscere Gesù nei Sacramenti

I Am, Yo SoyIo Sono è il tema della conferenza, che invita a riflettere su come i Sacramenti siano “storia vivente” dell’amore di Dio. Leone XIV apprezza la presenza di momenti dedicati all’Adorazione Eucaristica, alla Messa e alla Riconciliazione: non semplici “attività”, ma vere “opportunità per conoscere Gesù”. Tema che ricorre spesso nelle risposte alle domande dei giovani, precedute dalla recita dell’Ave Maria, rivolta alla Vergine che fin dalla sua giovinezza “affidò” la propria vita a Dio.

Accettare la misericordia di Dio

Le domande sono introdotte dalla speaker e autrice Katie McGrady che ricorda, durante il suo ultimo incontro con il Papa, di avergli donato un paio di calze. "I only wear white sox. Indosso solo calze bianche", risponde sorridendo Leone XIV. Il riferimento è ai Chicago White Sox, la squadra di baseball per la quale Robert Francis Prevost non ha mai nascosto la sua passione. "And I use a different word for Wordle every day". E uso una parola diversa per Wordle ogni giorno", aggiunge. In questo caso, il riferimento è ad una domanda sul tema posta sempre da McGrady e al popolare gioco negli Stati Uniti in cui l'utente deve indovinare una parola di cinque lettere in un massimo di sei tentativi.

La prima domanda dai giovani arriva da Mia, che proviene da Baltimore, nello Stato del Maryland: "È difficile per lei accettare la misericordia di Dio quando commette degli errori o sente di aver deluso qualcuno?". È un sentimento universale, risponde il Papa: “Nessuno è perfetto”. Ma il peccato non ha mai l’ultima parola. Come ricordava Papa Francesco, “Dio non si stanca mai di perdonare: siamo noi che a volte ci stanchiamo di chiedere perdono”.

Potremmo avere difficoltà a perdonare, ma il cuore di Dio è diverso. Dio non smette mai di invitarci a tornare a Lui. Quindi sì, può essere scoraggiante quando cadiamo. Ma non concentratevi solo sui vostri peccati. Guardate a Gesù, confidate nella sua misericordia e andate da lui con fiducia. Lui vi accoglierà sempre a casa.

Affidare le proprie difficoltà a Dio

La seconda questione viene posta da Ezequiel, proveniente da Los Angeles (California): "Ci sono momenti in cui mi sento triste o sopraffatto, anche se prego o cerco di avere fede. Spesso mi dicono di ‘affidare le mie difficoltà a Dio’, ma come posso davvero affidare i miei problemi a Dio e sentire che Lui mi è vicino, anche quando mi sento così?”.

Il Papa sottolinea la vicinanza di Gesù nelle tempeste della vita. Affidarsi a Lui è l’inizio di una relazione autentica: non si consegnano i propri problemi a qualcuno che si conosce appena.

Pensate ai vostri amici più cari. Se stessero soffrendo, parlereste con loro, li ascoltereste e restereste loro vicino. Il nostro rapporto con Gesù è simile.

Comunicare gli stati d’animo

È ancora Ezequiel a rivolgere la terza domanda: "A volte mi sento perso, ma ho paura di parlarne perché penso che gli altri non capiscano davvero come mi sento. Quali gesti o parole possiamo adottare per comunicare meglio e aiutare gli altri a capirci appieno?". “Nel mio tempo trascorso con i giovani”, risponde Leone XIV, “ho visto come portiate gioie e speranze autentiche, ma anche difficoltà e fardelli pesanti”. Dio si fa tuttavia sempre vicino, anche tramite le persone che mette sul nostro cammino.

Quando trovate qualcuno di cui vi fidate veramente, non abbiate paura di aprire il vostro cuore. È molto importante avere fiducia autentica, ma quando la avete sappiate che loro potranno aiutarvi a capire cosa state provando e sostenervi lungo il cammino. È anche importante pregare per ricevere il dono di amici sinceri. Un vero amico non è solo qualcuno con cui è piacevole stare insieme – anche se questo è un aspetto positivo – ma qualcuno che ti aiuta ad avvicinarti a Gesù e ti incoraggia a diventare una persona migliore.

L’amicizia genuina, prosegue il Papa, sprona anche a cercare aiuto, quando la vita si fa difficile o confusa. "Molti giovani dicono: 'Nessuno mi capisce'. Ma questo pensiero può isolarvi qualche volta. Quando vi viene in mente, provate a dire: 'Signore, tu mi capisci meglio di quanto io capisca me stesso' e confidate che Lui vi guiderà".

Come combattere le distrazioni

Prima di proseguire con le altre domande, McGrady ha una curiosità per il Pontefice, nella consapevolezza che la preghiera, talvolta, può essere interrotta da telefoni o altre fonti di distrazioni. "Cosa fa", in questi casi, il Papa? "Dipende dalla distrazione", risponde Leone XIV, sottolineando come, in ogni caso, "la cosa migliore da fare è seguire la distrazione per un momento, vedere perché è lì", e poi lasciarla andare. "Ci sono tante tentazioni e distrazioni, ma c'è solo un Gesù".

Bilanciare vita e tecnologia

Il quarto quesito viene posto da Christopher, giovane dal Nevada: "Come suggerisce di bilanciare tutti gli ottimi strumenti (smartphone, tablet, laptop e altri dispositivi) e allo stesso tempo creare legami di fede al di fuori della tecnologia?". Secondo il Pontefice, le innovazioni possono sostenere la fede: aiutano a mantenere relazioni, a condividere il Vangelo con persone che non si sarebbero mai incontrate di persona. Tuttavia un semplice sorriso, tanto “semplice” quanto “essenziale” per la persona umana, non potrà mai essere replicato da una macchina. La Messa online può essere un aiuto nei casi di necessità, ma non sostituisce la partecipazione reale.

Quindi, sebbene la tecnologia possa metterci in contatto, non è la stessa cosa che essere fisicamente presenti. Dobbiamo usarla con saggezza, senza lasciare che offuschi le nostre relazioni.

L’esempio virtuoso è quello di san Carlo Acutis, che metteva le sue capacità tecnologiche al servizio degli altri, esercitando disciplina e mantenendo "chiare" le sue priorità.

Cari amici, vi incoraggio a seguire l'esempio di Carlo Acutis: siate consapevoli del tempo che trascorrete davanti allo schermo e assicuratevi che la tecnologia sia al servizio della vostra vita, e non il contrario.

 Le nuove tecnologie e i giovani

Su un tema correlato, si espone Micah, da Honolulu, nelle Hawaii: "La nostra vita è sempre più permeata dalla Intelligenza Artificiale. Secondo Lei, a cosa dovremmo prestare attenzione quando adottiamo questa nuova tecnologia?". Nel rispondere, il Papa ricorda il recente convegno The Dignity of Children and Adolescents in the Age of Artificial Intelligence tenutosi in Vaticano, per il quale aveva incoraggiato i partecipanti a promuovere politiche che mantenessero i più giovani lontani dai rischi legati all’IA.

Ma ho anche ricordato loro - e colgo questa opportunità per ricordarlo anche a voi - che la sicurezza non riguarda solo le regole. Riguarda l'educazione e la responsabilità personale. I filtri e le linee guida possono aiutarvi, ma non possono scegliere al posto vostro. Solo voi potete farlo.

La giovinezza è il preludio all’età adulta, a una crescita “spirituale”, approfondendo l’amicizia con Dio, e “intellettuale”, imparando a riflettere con “chiarezza e criticità”, ricercando verità, bellezza e bontà. Ma significa anche rafforzare le proprie volontà, diventando capaci di scegliere liberamente “cosa aiuta a crescere ed evitare cosa danneggia”.

Ogni strumento che ci viene fornito, compresa l’IA, dovrebbe sostenere questo percorso, non indebolirlo. Usare l'intelligenza artificiale in modo responsabile significa utilizzarla in modi che aiutano a crescere, mai in modi che distraggono dalla propria dignità o dalla propria vocazione alla santità.

L'IA non limiti la crescita umana

Leone XIV esorta a sfruttare il tempo dedicato all’istruzione al massimo delle sue potenzialità. Se l'IA è in grado di processare velocemente le informazioni ("Non chiedetele di fare i compiti al posto vostro!", scherza il Papa) essa non può replicare la saggezza umana, il “giudizio su ciò che è giusto e sbagliato”, la contemplazione del bello.

Fate attenzione che l'uso dell'IA non limiti la vostra vera crescita umana. Usatela in modo tale che, se domani scomparisse, sapreste comunque come pensare, come creare, come agire da soli, come formare amicizie autentiche.   Ricordate: l'IA non potrà mai sostituire il dono unico che siete per il mondo.

Preoccupazione per il futuro della Chiesa

Elise, dall’Iowa, ha invece dubbi sull’avvenire: "Sono preoccupata per il futuro della Chiesa: temo che non esisterà più quando sarò anziana e che i miei figli non potranno vivere esperienze come questa. Come si sta preparando la Chiesa per il futuro?". Il Papa rassicura sulla protezione, guida e amore senza fine che Gesù riserverà sempre alla comunità ecclesiale. “Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà! Siamo tutti nelle mani di Dio”, le parole di conforto che lo stesso Pontefice affermò in occasione della sua prima benedizione Urbi et Orbi nel giorno della sua elezione a Successore di Pietro.

Gesù desidera che tutti si avvicinino a lui, e vedo questo desiderio soprattutto quando incontro giovani che cercano sinceramente Dio.

La Chiesa, quindi, si prepara all’avvenire rimanendo fedele alle richieste di Cristo: non lasciandosi sopraffare dalle preoccupazioni, fidandosi di come “tutto il resto andrà a posto”, attraverso la guida dello Spirito Santo. Un’ispirazione che ha portato, negli ultimi anni, la Chiesa ad un ascolto attento delle voci di tutti, comprese quelle dei giovani.

La Chiesa ha bisogno di tutti noi, compresi voi, mentre avanziamo verso il futuro che Dio sta preparando.

Il ruolo delle nuove generazioni

In relazione alla domanda precedente, viene poi chiesto: "Come possiamo noi giovani assicurarci di partecipare al dibattito della Chiesa sul futuro?". Leone XIV risponde con una chiara affermazione:

Voi non siete solo il futuro della Chiesa, voi siete il presente! Le vostre voci, le vostre idee, la vostra fede sono importanti oggi, e la Chiesa ha bisogno di voi. La Chiesa ha bisogno di quello che vi è stato dato per essere condiviso con noi.

Il coinvolgimento inizia quindi adesso, entrando in contatto con la propria parrocchia e le sue attività correlate, condividendo la propria fede o aiutando chi presiede tale compito. Non manca poi la coltivazione di una intensa vita di preghiera, che può portare a chiamate specifiche da parte del Signore. Per discernerle, il Pontefice invita a rivolgersi ai sacerdoti, o altri “responsabili di fiducia”. La vera differenza, inoltre, nasce da una fede radicata nella quotidianità, mettendosi anche al servizio dei poveri, alla stregua di un altro giovane santo, Pier Giorgio Frassati.

Vi invito quindi a riflettere su queste domande: Cosa posso offrire alla Chiesa per il futuro? Come posso aiutare gli altri a conoscere Cristo? Come posso costruire pace e amicizia intorno a me?

La speranza del Papa

Spazio, poi, a una domanda conclusiva posta ancora da McGrady: "Santo Padre, ci ha dato molto su cui riflettere. Prima di lasciarla andare, qual è la sua speranza per il futuro della Chiesa? Come possiamo aiutarla a realizzarla?". Nel rispondere, Papa Leone reitera quanto già affermato: “i giovani sono parte del presente della Chiesa”, così come “speranza” per il suo futuro.

Ora è il momento di sognare in grande e di essere aperti a ciò che Dio può fare attraverso le vostre vite. Essere giovani spesso comporta il desiderio di fare qualcosa di significativo, qualcosa che faccia davvero la differenza. Molti di voi sono pronti a essere generosi, ad aiutare coloro che amano o a lavorare per qualcosa di più grande di voi stessi. Ecco perché non è vero che la vita consiste solo nel fare ciò che ci fa sentire bene o ci mette a nostro agio, come sostengono alcune persone. Certo, la comodità può essere piacevole, ma come ci ha ricordato Papa Benedetto XVI, non siamo stati creati per la comodità; piuttosto, siamo stati creati per la grandezza, per Dio stesso. Nel profondo, desideriamo la verità, la bellezza e la bontà perché siamo stati creati per esse. E questo tesoro che cerchiamo ha un nome: Gesù, che vuole essere trovato da voi.

Lo imparò, proprio da giovane, “uno dei miei eroi personali”, racconta il Pontefice: sant’Agostino. Cercando la felicità, si rese conto che nulla lo soddisfaceva, “finché non ha aperto il suo cuore a Dio”. Ecco perché scrisse: "Ci hai fatti per te, e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te".

Non mischiare fede e politica

L’amicizia con Gesù è “per tutti”, e caposaldo del futuro della Chiesa. Pensando al suo futuro, quindi, è necessario innanzitutto lasciarsi trasformare da Cristo. Come affermava ancora il santo vescovo di Ippona: “Se vuoi cambiare il mondo e renderlo un posto migliore, devi incominciare prima a cambiare te stesso”. Il Pontefice tratteggia quindi alcuni aspetti della giovinezza: la ricerca di autenticità, un “istinto” che spinge a ricercare una fede non “superficiale”. La volontà di ricercare la pace, poi. In tal senso. E avverte:

Fate attenzione a non usare categorie politiche per parlare di fede. La Chiesa non appartiene ad alcun partito politico; piuttosto, la Chiesa aiuta a formare la vostra coscienza affinché possiate pensare e agire con saggezza e amore.

 

Vatican News

Immagine


 



 

venerdì 21 novembre 2025

IL DIALOGO E L'ABUSO

 

Il dialogo antidoto all’abuso del digitale

La sfida del digitale coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata dagli adulti.


- di Giuseppe Savagnone 

Il grido d’allarme dei pediatri

Ha trovato ben poco spazio sulle prime pagine dei nostri quotidiani l’allarme lanciato dalla Società Italiana di Pediatria (SIP), che ha presentato al Senato, il 19 novembre scorso, le nuove raccomandazioni sull’uso dei dispositivi digitali in età evolutiva, in piena sintonia con quelle dell’American Academy of Pediatrics e della Canadian Society of Pediatrics.

A conferma del fatto che si tratta di un problema attualissimo, che mette in questione, alla radice, l’identità antropologica degli uomini e delle donne del prossimo futuro, non solo in Italia, ma in tutto il mondo occidentale e che meriterebbe, perciò, una maggiore attenzione, a livello sia privato che pubblico, per trovare insieme soluzioni condivise.

Che la situazione attuale evidenzi un abuso è sotto i nostri occhi. Lo confermano le statistiche. Una recente indagine italiana, aggiornata all’aprile 2024, dimostra che circa il 70% delle famiglie con figli di età compresa tra 0 e 2 anni ammette di utilizzare dispositivi digitali durante i pasti dei propri bambini.

Che questo crei nei piccoli un’abitudine lo dimostra il fatto che, secondo i dati di Save the Children, aggiornati al dicembre 2024, in Italia il 44,6 % dei bambini tra i 6 e i 10 anni e il 78 % dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni usa Internet tutti i giorni. E il 41% della fascia 11/13 anni (il 47,1 % nel caso delle ragazze) frequenta i social.

Per quanto riguarda in particolare gli smartphone, 3 bambini su 10 usano il cellulare quotidianamente e la metà dei quattordicenni lo utilizza più di sei ore al giorno.

Decisiva è stata la pandemia. Rispetto ai livelli pre-pandemici il tempo medio giornaliero di esposizione agli schermi di TV, smartphone, tablet e computer risulta raddoppiato.

Di fronte a questo quadro, di cui tutti abbiamo conferma nell’esperienza di ogni giorno, le direttive dei pediatri – come si diceva, non solo italiani – suonano drastiche e ci mettono tutti in crisi.

Eccone alcune fondamentali:

a.      nessun dispositivo prima dei 2 anni; limitare a meno di un’ora al giorno tra i 2 e i 5 anni e a meno di due ore dopo i 5 anni, sempre sotto supervisione adulta;

b.     evitare accesso non supervisionato a internet prima dei 13 anni;

c.      ritardare l’uso dei social media, idealmente fino ai 18 anni;

d.     rinviare l’introduzione dello smartphone personale almeno fino ai 13 anni;

e.      evitare l’uso dei dispositivi durante i pasti e prima di dormire;

Le possibili conseguenze di un uso indiscriminato

Trasgredire queste regole non viola nessuna legge, ma significa danneggiare in modo spesso irreversibile i nostri figli. 

Ci sono già problemi fisici. Utilizzare eccessivamente il cellulare, ma anche la TV, il tablet, il pc e le console per i videogiochi, fa aumentare vertiginosamente la sedentarietà a discapito dell’attività fisica, favorendo l’obesità. La luce blu emanata dagli schermi dei dispositivi elettronici può essere la causa, a lungo termine, di seri problemi visivi, a volte irreparabili. E troppo spesso i più piccoli si lasciano distrarre dai social network o dai giochi che hanno sul cellulare fino ad ora tarda, a discapito del sonno.

Altrettanto serie sono le possibili conseguenze negative a livello psicologico. Una è l’incapacità di concentrarsi. Numerosi studi dimostrano che l’esposizione a una quantità sempre maggiore di messaggi e di stimoli rende difficile a molti giovani prestare attenzione per un lungo periodo a un discorso o a un impegno. Nei soggetti più giovani, i cui cervelli sono in via di sviluppo, ciò implica modifiche nelle aree cerebrali legate all’attenzione e alla comprensione, con conseguenti ritardi cognitivi, compreso quello dell’apprendimento.

Ma c’è anche il pericolo di una dipendenza morbosa da questi strumenti, con conseguenti fenomeni di smarrimento psicologico quando, per un qualche motivo, se ne viene privati. Se poi sono le scelte degli adulti a determinare questa privazione, non è raro che si scatenino moti incontrollati di rabbia e di disperazione.

Ma gli effetti più problematici sono quelli che riguardano la sfera relazionale dei giovani. A parte il risvolto patologico del cyberbullismo, in forte crescita, il rischio gravissimo a cui espone l’uso indiscriminato di TV, tablet, pc e smartphone è l’esonero dal rapporto con dei soggetti umani in carne ed ossa e la conseguente perdita del difficile ma necessario confronto quotidiano con quello che un filosofo contemporaneo, Emmanuel Levinas, chiama «il volto dell’Altro», indicando in esso la sorgente a cui dobbiamo sempre riferirci per capire noi stessi e il mondo.

Non è un caso che la diffusione dei media elettronici si accompagni, pur senza esserne la causa, alla crescita esponenziale del fenomeno – registrato la prima volta in Giappone negli anni Settanta e poi diffusosi nel nostro paese, come in tutti quelli più economicamente e tecnologicamente  evoluti – degli Hikikomori, quei giovani tra i 15 e i 30 anni che a un certo punto scelgono di ritirarsi dalla vita sociale, chiudendosi nella propria stanza ed evitando i rapporti con altre persone, inclusi i familiari, per limitarsi a comunicare solo virtualmente, mediante Internet e il cellulare.

Anche senza arrivare a queste forme estreme, la tendenza all’autoreferenzialità è sicuramente favorita dall’uso continuo degli strumenti elettronici. In un’epoca non lontana, se si entrava in una stanza dove dei giovani si trovavano insieme, li si trovava a parlare a scherzare, a ridere tra di loro. Oggi è frequente che, in una identica situazione, essi siano assorti ciascuno nello scorrere il proprio cellulare, alla ricerca di messaggi ricevuti e intenti a mandarne.

La perdita del senso della realtà

Ancora più alla radice, conseguenze profonde sta avendo sui giovani l’abitudine di accostarsi alla realtà attraverso lo schermo. Perché quest’ultimo è certamente un medium che consente di collegarsi al mondo intero, ma è anche – in un altro senso – una difesa, come quando si parla di “fasi schermo con le mani” alla troppa luce. Lo schermo è il luogo ove possiamo assistere in diretta a vicende liete o drammatiche che si svolgono a migliaia di chilometri da noi. Ma è grazie ad esso che noi siamo immunizzati dalle ripercussioni emotive di drammi – come quelli delle guerre a Gaza e in Ucraina – che, se li vivessimo “in presenza” ci sconvolgerebbero e che invece possiamo seguire tranquillamente seduti in poltrona o a tavola, mentre mangiamo. Lo schermo ci rende spettatori. Ci immunizza dalla realtà.

Senza dire del pericolo che i più giovani si imbattano in aspetti fondamentali di quest’ultima – come la sfera sessuale – attraverso un rappresentazione distorta e morbosa, ricevendo una iniziazione perversa che può segnarli per tutta la vita.

In particolare, il pericolo delle immagini virtuali riguarda i videogiochi, molto spesso imperniati sulla eliminazione violenta di nemici in battaglie immaginarie. Col pericolo di non distinguere più chiaramente la violenza che si impara ad usare per gioco, su uno schermo, da quella che, esercitata nella vita reale, può trasformare il gioco in tragedia.

Dai divieti alla ricoperta del dialogo tra le generazioni

Il problema è che non bastano i divieti a sventare questi pericoli. Le regole già oggi sembrano destinate ad essere sistematicamente travolte dalla realtà. E, per quanto mossi da validissime ragioni, i genitori che vogliono applicarle inflessibilmente nell’educazione dei loro figli rischiano di trovarsi davanti ad effetti peggiori del male. 

Perché, in una società dove la socializzazione passa anche e soprattutto attraverso questi dispositivi, i bambini che non partecipano alle conversazioni digitali tra pari rischiano di sentirsi isolati o esclusi.

Il nodo della questione è, piuttosto, la capacità degli adulti di riscoprire e  di esercitare, anche sotto questo profilo, la loro funzione educativa. In primo luogo con la testimonianza. Un padre, una madre, che a tavola, invece di parlare tra loro e con i loro figli delle esperienze della giornata, usano o controllano continuamente il cellulare, non possono certo pretendere dai più giovani che non facciano lo stesso. E, se si tratta di bambini, posteggiarli davanti a un tablet per farli stare tranquilli, invece di parlare e giocare con loro, è una strategia che prepara gli eccessi futuri.

Più in generale, è un costante dialogo tra i genitori e dei genitori con i figli il migliore antidoto all’uso sbagliato dei dispositivi elettronici.  È questo stile  comunicativo che oggi difetta nelle nostre famiglie. E ciò dipende da un modo sbagliato, da parte degli adulti, di voler bene ai più piccoli.

Lo notava Matteo Lancini, docente universitario di psicologia nelle università milanesi di Bicocca e Cattolica e presidente della Fondazione Minotauro: «In verità a mancare è l’ascolto dei figli. I giovani sono molto soli davanti agli adulti. Oggi vanno su internet per ridurre la sensazione di solitudine che sperimentano ogni giorno con gli adulti, che invece di chiedersi perché accade tutto ciò si limitano a impedire l’utilizzo dei social», senza rendersi conto che non bastano le regole restrittive a colmare il vuoto di cui loro stessi sono la causa.

Si provvede a soddisfare tutti i bisogni consumistici dei figli, li si colma di regali,  ma non si trova il tempo di fermarsi per “stare” con loro e lasciarsi coinvolgere nel loro mondo, divenendone partecipi. In realtà, solo così sarà possibile da un lato accompagnarli con rispetto nelle loro esperienze, dall’altro iniziarli, anche attraverso il gioco creativo, ad attività all’aperto, sport, lettura, che, fin da piccoli, possono insegnare a ridimensionare il tempo passato davanti allo schermo e a cercare relazioni reali, piuttosto che solo virtuali, anche con i coetanei.

Sulla base di questo rapporto dialogico tra le generazioni non suonerà come una forzatura e tanto meno come una imposizione anche quella supervisione che, soprattutto nel caso dei più giovani, gli adulti devono  con discrezione esercitare sull’uso di Intenet e dei cellulari, educando ad un uso corretto sia nei tempi e nelle modalità, sia nella selezione dei contenuti. Perché , anche in questo, come in tanti altri casi, non si tratta di difendersi dalla tecnica, ma di valorizzarne le enormi potenzialità positive neutralizzando, con un opportuno discernimento,  quelle negative.

A questo sforzo educativo può molto contribuire la scuola. Le recenti polemiche sulla decisione del ministro Valditara di escludere i cellulari dalle aule hanno il limite di restare all’alternativa secca tra l’ammissione e l’esclusione di questi dispositivi, senza cerare insieme quali modalità possano garantire una educazione al loro corretto uso, sia a scuola che fuori. Anche qui la sola via praticabile può essere quella di un rapporto autentico tra gli insegnanti e gli alunni, che vada oltre la logica  angusta dei divieti  e dei permessi, in vista di un impegno comune.

La sfida del digitale coinvolge in primo luogo il destino dei giovani, ma deve essere affrontata dagli adulti. Al di là delle regole, si tratta di educare a uno stile comunicativo che, a sua volta, implica una profonda revisione dei modelli di vita oggi vigenti.

È un impegno arduo. Ma i nostri figli non ci perdonerebbero mai se cercassimo di eluderlo.

 www.tuttavia.eu 





PRIMA LA PERSONA

 L’altro esiste quando

 accettiamo di vederlo,

 incontrarlo, ascoltarlo.


Occorre riconoscere l’essere umano piuttosto che etichettare come «povero» e «mendicante». 


Occorre dare voce a chi non ce l’ha 

e dare visibilità a chi è invisibile. 



di  Luciano Manicardi

 

«Speranza invoco... per i miliardi di poveri che mancano del necessario per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque… Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa» (Spes non confundit 15). 

Le parole di papa Francesco operano un primo passaggio importante: da una categoria a una persona, dai «poveri» al «povero della porta accanto». Che le condizioni di indigenza materiale, relazionale, culturale, spirituale, possano segnare pesantemente l’esistenza di una persona, è innegabile, ma sforzo di chi si avvicina al povero è di ribellarsi a questa espropriazione dell’identità per relazionarsi con una persona, un volto, un nome, una storia precisa. I «miliardi di poveri», proprio per la smisuratezza a cui fanno riferimento, restano una cifra che ci ammutolisce, che ci lascia con un senso di impotenza e di ineluttabile. L’incontro con la concreta persona che ha perso il lavoro, che non riesce a mantenere la famiglia, che è stata sfrattata, che si trova nell’isolamento dopo una rottura coniugale, con il senza casa, con l’immigrato…, ci tocca e interpella e può operare una trasformazione del nostro cuore. Perché Cristo stesso ci visita nella carne del povero (cf. Mt 25,31-46). 

Così vediamo un secondo passaggio che papa Francesco indica: dal «povero» a «noi». Invece di fare dei «poveri» un oggetto di discorso, occorre accettare di farci giudicare da essi: la loro autorità escatologica (ancora Mt 25,31-46), pone in crisi il nostro comportamento nei loro confronti. E di fronte a chi vive situazioni di deprivazione che attentano alla sua piena umanità possiamo cadere nell’abitudine, nella rassegnazione e distogliere lo sguardo. Altrove ha detto papa Francesco: «Non si tratta di buttare una moneta sulle mani di quello che ha bisogno. A chi dà l’elemosina io domando: ‘Tocchi le mani della gente o butti la moneta senza toccarle? Guardi negli occhi la persona che aiuti o guardi da un’altra parte?”» (Messa per la VIII Giornata Mondiale dei Poveri, 2024). Spesso abita in noi, inconfessata e inconfessabile, l’idea del povero come segnato da una inferiorità, da una condizione di minore umanità rispetto a noi. Per guarire da questa patologia occorre riconoscere l’uomo dietro alle etichette: «povero», «rifugiato», «immigrato», «mendicante», «richiedente asilo»… Il che significa che non si tratta solamente di dare aiuti economici o alimentari o logistici, ma anche tempo, ascolto, presenza, parola. Cioè entrare in relazione. Perché il povero non è anzitutto un povero ma una persona. 

Resta la domanda per noi: vediamo la persona che il povero è? Un episodio della vita del poeta Rainer Maria Rilke dice che, quando abitava a Parigi, ogni giorno usciva di casa e si imbatteva in una mendicante cui dava regolarmente un’elemosina. Un giorno le diede non denaro, ma una rosa e la povera donna si illuminò ed esclamò, piena di gioia: «Mi ha vista! Mi ha vista!». Il rischio di un’azione in favore dei poveri che fa molto per l’altro senza vederlo, è sempre in agguato. Il cardinal Martini, nella Farsi prossimo (n. 86), scrive che occorre «dare una voce a chi non ha voce, scoprendo le forme sempre nuove di povertà che stentano a farsi notare e a farsi soccorrere». Occorre dunque anche dare visibilità a chi è invisibile. L’altro esiste quando accetto di vederlo, incontrarlo, ascoltarlo. Ma spesso esso resta invisibile, come Lazzaro che giaceva alle porte della casa del ricco che viveva nel lusso e non muoveva un dito per lui (Lc 16,19-31). 

Il romanzo afroamericano di Ralph Ellison Uomo invisibile si apre con queste parole scioccanti: «Io sono un uomo invisibile… Sono invisibile perché la gente si rifiuta di vedermi… Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me… L’invisibilità di cui parlo... dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali, attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà». Come dimenticare che fu anche a partire dalla meditazione della parabola evangelica del «ricco e Lazzaro» e dall’impressione profonda che produsse in lui, che Albert Schweitzer andò in Africa dove costruì l’ospedale di Lambaréné (Gabon)? Egli, infatti, vedeva l’Africa come un povero Lazzaro alle porte della ricca Europa. Il Vangelo ha aperto i suoi occhi e portato Schweitzer a vedere e a toccare Cristo e a prendersene cura nei poveri.

Messaggero di Sant'Antonio

Immagine