Nuove
indicazioni,
vecchie = progressiste
e nuove = di destra?
Calvani: “Meglio
parlare di evidenze sperimentali.
Vi spiego le criticità delle vecchie e delle
nuove”
Di Anselmo Penna
In
questo intervento, Antonio Calvani – già Professore ordinario di Didattica e
Pedagogia speciale e Direttore scientifico della Società S.Ap.I.E. – propone
una riflessione critica e documentata sul dibattito in corso riguardante le
nuove Indicazioni nazionali per il curricolo. Calvani denuncia il rischio di
derive ideologiche e dogmatiche, esortando a un confronto basato su evidenze
scientifiche e dati empirici. Evidenzia le fragilità delle precedenti
Indicazioni – troppo generiche, scarsamente ancorate ai saperi disciplinari e
disallineate rispetto agli strumenti di valutazione nazionale – e rileva le
criticità emergenti nelle nuove formulazioni, giudicate retoriche, ambiziose e
affette da residui di “pedagogia ingenua”. A partire dai dati Invalsi e Pisa,
l’autore mette in luce una profonda crisi delle competenze di base degli
studenti, denunciando il sovraccarico di progetti scolastici, il
disorientamento metodologico e l’impoverimento delle pratiche didattiche
fondamentali. L’intervista si chiude con un appello per una scuola più
essenziale, guidata dalla ricerca evidence-based, e capace di recuperare
rigore, profondità e senso critico, al di là di mode e slogan.
Prof.
Calvani che idea si è fatta del dibattito in corso?
Mi
sembra inficiato da assunti pregiudiziali. Le ideologie sono cornici
importanti, nessuno può farne a meno ma non dovrebbero diventare gabbie per una
assertività dogmatica. Le posizioni dovrebbero essere sostenute da
argomentazioni razionali e magari, essendo oggi più possibile di ieri, anche da
evidenze sperimentali.
Presentare
le nuove Indicazioni come “di destra”, e dunque da rigettare in quanto tali, a
fronte delle vecchie a cui ci si dovrebbe ricollegare perché espressione di una
ideologia progressista (a parte che se qualcuno verificasse le appartenenze
ideologiche di chi sta lavorando alle nuove potrebbe scoprire che sono ben
diverse rispetto a quelle del governo in carica), è espressione di un cliché
preconcetto.
I
problemi da affrontare nella scuola sono rilevanti, trasversali, e si sono
radicati nel tempo. E le vecchie e nuove Indicazioni vanno valutate nel merito,
senza sconti, considerando quanto siano e potranno essere capaci di
confrontarsi con questi problemi reali.
Purtroppo,
ministri di qualunque colore politico e le stesse commissioni di esperti hanno
pochi strumenti di analisi e possono incontrare difficoltà a staccarsi da un
mainstream culturale e anche dai riferimenti propri di una pedagogia ingenua,
che li imbrigliano e determinano poi le decisioni della politica scolastica
ripetendo spesso errori già visti nel tempo.
Si
dovrebbero però intanto condividere tre punti di partenza:
a. - avvicinarsi
quanto più possibile al mondo reale lasciando da parte sogni e desiderata;
b. - ammettere
che si può avere sbagliato nelle scelte passate e che anche una tradizione di
atteggiamenti e pratiche che ci sono apparse valide, possano essere state fonte
di errori;
c. - abbandonare
una volta per tutte il solito logoro ritornello “autoreferenziale”: Noi
abbiamo la scuola più bella del mondo, noi facciamo tante cose, non abbiamo
bisogno di controlli esterni, Invalsi, Pisa-Ocse e così via….
NNo!
Tutt’altro, la nostra scuola ha criticità forse anche maggiori di quanto si sia
sinora sospettato, abbiamo assoluto bisogno di strumenti di confronto e di
valutazioni esterne per uscire dal guado.
Quale
è la sua valutazione delle vecchie Indicazioni e delle nuove?
Ho
salutato con favore l’iniziativa di una riformulazione delle vecchie -fino ad
un anno fa sembravano un tabù intoccabile- e anche che questa avvenisse
all’insegna di una più robusta presenza dei disciplinaristi. Sono il prodotto
culturale di un’epoca e in quanto tali vanno riconosciute e se vogliamo, anche
apprezzate, ma non sono da rimpiangere avendo diversi difetti. Hanno preteso di
indicare target di apprendimento (obiettivi e competenze, con un’enfasi
particolare sulle seconde) senza una adeguata riflessione su come si
definiscano e valutino questi concetti, presentando al loro posto solo
generiche attività didattiche; hanno sottovalutato l’importanza dei saperi
disciplinari (soprattutto nelle Scienze, e in questo forse sono corresponsabili
del tracollo che i dati Pisa-Ocse ci mettono dinanzi), non hanno frenato
adeguatamente un processo più vasto e pervasivo di concezioni e pratiche di
pedagogia ingenua già diffuse da tempo.
Ci
sono poi aspetti indiretti. Lasciando in forma così generica gli obiettivi, si
è anche prodotto e mantenuto un gap con le prove Invalsi (che hanno dato una
delle possibili interpretazioni di quei target). Ciò ha generato ansia e
frustrazione in scuole e insegnanti, che non sanno bene dove orientare la loro
programmazione e vedono con timore le prove Invalsi come una sorta di giudizio
poco prevedibile e sconnesso dal proprio operato.
Circa
le nuove Indicazioni, conviene aspettare la fine della revisione in corso per
valutarle, sperando in una significativa riscrittura. Non è affatto detto che
questi problemi siano affrontati con maggiore chiarezza. Nella prima
formulazione risultano molte criticità: tratti evidenti di retorica, una
visione dell’infanzia che non coglie le dimensioni più recenti che la ricerca
ha portato in luce, parti debordanti e, a mio parere inapplicabili, come le
ibridazioni ecc., altri tratti residuali di pedagogia ingenua.
A
titolo puramente personale avrei preferito una scelta di fondo più coraggiosa
orientata per un testo più asciutto ed essenziale. Anche il termine competenza,
che considero fonte di confusione, avrebbe potuto essere eliminato. Sul piano
tassonomico può essere sufficiente parlare di conoscenze di superficie (conoscenze
soprattutto fattuali o dichiarative) e di conoscenze profonde (applicazioni,
estensioni, usi di livello cognitivo più alto delle prime).
Inoltre,
un testo di Indicazioni dovrebbe rendere chiaramente riconoscibili gli
obiettivi minimi a cui tutti devono arrivare, lasciando poi per il resto
maggiore libertà all’insegnante.
La
scuola verte in situazioni di forte criticità. A cosa si riferisce con questa
espressione?
Dobbiamo
chiederci quali indicatori possiamo assumere per avere il “polso” dei risultati
scolastici. Senza qui stare a ricordare le indicazioni Invalsi e Pisa-Ocse che
dovrebbero essere analizzate con maggiore cura e che saltuariamente balzano
all’attenzione dell’opinione pubblica, per poi essere dimenticate, abbiamo già
richiamato in un altro intervento (Orizzonte scuola, 10 apr. 2025) due test che
dovrebbero far riflettere, il primo concernente una prova di conoscenze
basilari di fisica, il secondo ricavato da dati Invalsi stessi sulla
riflessione linguistica; da entrambi emergono carenze che era difficile
immaginare; su temi fondamentali di fisica la maggioranza degli alunni mantiene
le conoscenze ingenue che aveva prima di aver studiato quegli argomenti e, per
portare un esempio clamoroso, quasi nessuno in una scuola media sa
correttamente spiegare da cosa dipenda l’alternanza del giorno e della notte;
in modo quasi speculare, dal secondo test si ricava come quasi nessuno sappia
riconoscere una proposizione dipendente, trovare il soggetto in una frase in
cui è sottinteso, decidere se un “che” è soggetto o complemento oggetto e cose
simili.
Se
i risultati sono di questo tipo, e saremmo ben lieti se venissero smentiti, non
sono forse indicativi di un vero e proprio disastro che è andato e va
aggravandosi nella disattenzione di tutti? Quali previsioni si possono fare
sulla formazione futura di giovani che escono con questa preparazione dalla
scuola secondaria di primo grado, per non chiederci quali scienziati questo
Paese immagini per il futuro di mettere in campo nelle sfide internazionali da
affrontare.
Questo
basta intanto per fornire qualche caveat urgente alle scuole e agli insegnanti
di buon senso: si facciano controlli sistematici su aspetti analoghi a quelli
segnalati relativi ad ogni ambito disciplinare. Gli alunni sanno riconoscere in
un mappamondo le aree geografiche più importanti? Sanno ricordare e situare
sulla linea del tempo i principali fenomeni storici studiati in precedenza?
Quale è il loro livello lessicale? E così via.
Quali
sono le cause principali di queste criticità?
A
mio avviso il fattore più importante è il sovraccarico a cui sono sottoposti
scuole, insegnanti e alunni. Se vogliamo migliorare la scuola dovremmo iniziare
una battaglia culturale coraggiosa, contro corrente nei riguardi del
sovraccarico, che non accenna a decrescere ma appare alimentato da una smania
irrefrenabile di “innovare” (assumendo che innovare significhi tout court
migliorare, il che è smentito quasi sempre). Un fiume di progetti sommerge la
scuola da decenni (ora si è anche intensificato con i fondi del PNRR), progetti
che non vengono mai seriamente valutati e senza che abbiano mai lasciato un
sedimento di pratiche didattiche migliori.
A
seguito di ciò la didattica quotidiana si presenta ormai come un continuo mordi
e fuggi, un’occhiata e via, tutto in superficie, sempre di corsa, senza
memorizzare. È una scuola che vede il trionfo dei pensieri veloci rispetto a
quelli lenti, per dirla con Kahneman. È saltata la meccanica fondamentale dei
processi di comprensione e di studio: fare letture riflessive, sintetizzare,
riassumere, sono aspetti che in ogni classe dovrebbero ricevere la massima
attenzione ma che sono assai poco praticati. Il “ripasso”, non inteso in una
forma banalmente mnemonica e nozionistica, ma come operazione metacognitiva per
cui si ritorna a distanza di tempo su quanto già studiato riorganizzando in
memoria le conoscenze già apprese in forme di migliori sintesi, è uno degli
aspetti che la ricerca ha riconosciuto della massima importanza. Ma quanto
viene praticato in una scuola che corre sempre a cambiare, anche per paura di
annoiare gli alunni?
Ha
usato più volte l’espressione “pedagogia ingenua”. Cosa intende?
La
ricerca in educazione si articola in diversi settori e non mancano certo lavori
importanti sul piano filosofico, storico, mentre più debole è rimasta in
Italia, a differenza di altri Paesi, la ricerca empirica e sperimentale.
Quello
che arriva nelle pratiche didattiche sono spesso banalizzazioni di teorie che
danno luogo a dannosi fraintendimenti. Se ne potrebbe fare una lunga lista. Per
fare un esempio, una formuletta che si sente ripetere come il learning
by doing, attribuita a Dewey, se fosse presa sul serio significherebbe
immaginare che gli alunni possano arrivare a scoprire autonomamente quanto è
stato imparato nel corso dell’umanità. Un altro ritornello di vecchia data è
quello per cui bisognerebbe “abolire la lezione frontale”, quando tutte le
evidenze più consolidate dimostrano come le scuole migliorano quando se ne
migliora qualità.
Un
riferimento importante come il costruttivismo è reso oggetto di cattive
applicazioni: chiunque si occupa di pedagogia non può non essere
costruttivista, nel senso di riconoscere che l’apprendimento muove sempre da
schemi e preconoscenze già possedute e va visto come una ristrutturazione di
questi schemi originari; però su questa base si è reinserita la fiumana carsica
delle ingenuità di origine attivistica che periodicamente riemerge, per le
quali andrebbe eliminata se non ridotta a qualche suggerimento la guida
istruttiva e lasciata ampia autonomia agli alunni che dovrebbero soprattutto
apprendere con pratiche di scoperta attiva da soli o in gruppi, magari con le
nuove tecnologie, atteggiamenti questi che sono stati ormai definitivamente
riconosciuti come causa di insuccessi, se non di veri e propri disastri
educativi.
Anche
l’interdisciplinarità è espressione di una pedagogia ingenua?
Certo.
È una delle trappole in cui le nuove Indicazioni sono inesorabilmente cadute
(ma del resto come sfuggirne se fanno parte dell’ultimo degli idola
tribus dei nostri tempi, le STEM-STEAM)?
Ritengo
che impiegare questi concetti prima del livello di una laurea magistrale in
ambito scientifico sia una sostanziale mistificazione e una ulteriore causa di
confusione. Le STEM vorrebbero esaltare la cultura di un ingegnere moderno, ma
praticate già alla secondaria di secondo grado possono portare solo, nella
migliore dei casi, a formare un modesto bricoleur (per usare la
contrapposizione di Levi Strauss sui due modelli culturali).
Se
ancora si scende a livelli più bassi ancora peggio.
Il
tema meriterebbe una riflessione più critica, se ce ne fosse tempo e
disponibilità. È ragionevole parlare di interdisciplinarità quando si
incontrano criticità di base come quelle che abbiamo indicato? Risultano
davvero convincenti quelle prove orali negli esami al termine della secondaria
di primo grado in cui l’alunno “recita” un argomento a piacere con riferimenti
interdisciplinari? O non sono vacui esercizi di retorica e un modo per stendere
un velo pietoso su una reale inconsistenza dei saperi di base? Cosa accade
quando il commissario, al di là del tema spesso altisonante scelto dal
candidato, si sofferma a chiedere di spiegare uno qualunque dei termini o
concetti che l’alunno ha utilizzato?
Tra
chi l’interdisciplinarità la pratica sul serio (scienziati, professionisti), ce
n’è qualcuno che sia arrivato a quel livello senza essere passato da una solida
preparazione interna alla/e discipline?
Uno
studioso come Ong ha dimostrato il significato profondo dell’avanzamento del
pensiero scientifico con l’avvento dei manuali (testi in grado di recintare in
modo coerente e esaustivo un sapere chiuso) rispetto a forme più
interdisciplinari, ma scientificamente assai più gracili quali quelle dei
saperi medievali o di altri modelli più primitivi. L’interdisciplinarità
praticata da soggetti inesperti delle discipline non può che produrre futili
accostamenti tra le idee ingenue dei bambini da cui ogni apprendimento non può
prescindere.
È
un altro portato della pedagogia ingenua anche sottovalutare l’importanza dei
manuali. Un buon manuale rimane il medium più potente per consentire in tempi
veloci la trasmissione dei saperi più importanti che l’umanità ha acquisito.
Chiunque abbia incontrato nella propria esperienza scolastica un buon manuale
disciplinare non può non riconoscere la validità insuperabile di questo
strumento ed essere grato al suo autore. Vedo che però le nuove generazioni
vengono private di questa fondamentale esperienza. I testi scolastici hanno
oggi poco dei buoni manuali di una volta. Giganteschi e dispersivi, non
invitano certo ad essere posseduti, riesaminati, interiorizzati. E gran parte
dell’apprendimento si svolge attraverso il frammentismo delle informazioni tratte
da Internet.
Lei
si occupa di Evidence-based education da anni. Cosa pensa che di positivo possa
venire da questo orientamento?
L’Evidence-based
education non va considerata un’etichetta o una moda; in primo luogo, implica
un atteggiamento mentale che invita a confrontarsi con le acquisizioni
fondamentali a cui è arrivata la ricerca internazionale a seguito di bilanci
sistematici (metanalisi) che fanno il punto sui diversi problemi
dell’apprendimento e dell’istruzione comparando anche decine di
sperimentazioni.
Ci
sono diversi centri nel mondo come l’Education Endowment Foundation (EEF),
che forniscono anche suggerimenti operativi alle scuole, spiegano come fare un
buon programma con alte probabilità di successo, danno esempi e consigli sugli
errori da evitare. Da questa cultura si impara anche come le scuole devono e
possono procedere verso il miglioramento progressivo praticando forme di
sperimentazioni sostenibili e migliorabili ed evitando di andare dietro agli
slogan di moda.
Nell’ambito
delle acquisizioni basate su evidenze, include anche la valutazione formativa,
che è oggetto di discussione tra Ianes e Zanniello?
Sì.
La valutazione formativa è una delle acquisizioni scientifiche più importanti
che ha ricevuto alte conferme negli ultimi decenni. Alla su base c’è il
concetto di feed-back, un’informazione che deve fare immediatamente capire ad
un soggetto a che punto è in un percorso rivolto ad un obiettivo e cosa deve
fare per avvicinarsi al suo conseguimento. È un concetto che va però collegato
alla chiarezza degli obiettivi e a un sistema di complicità che si deve
generare tra alunni e insegnante, all’interno del quale possono e debbono anche
essere inseriti obiettivi sfidanti.
Speriamo
che nelle nuove Indicazioni abbia adeguato risalto. Ma questo riferimento è
stato introdotto in Italia da Domenico Vertecchi già ben cinquant’anni fa (La
valutazione formativa, 1976). Nelle vecchie indicazioni, del resto poco
interessate ad ogni intervento sugli studenti, che si vorrebbe ora difendere,
non ce n’era affatto presenza.
Cosa pensa di Ianes che dice che le nuove indicazioni sono piene di paure
Mi
sembra che semmai il problema sia proprio l’opposto, sono troppo ambiziose.
L’immagine poi dei giovani che Ianes presenta sta nel mondo dei desiderata, non
nella realtà.
Se
poi si parla delle tecnologie verso cui si dovrebbe esser aperti e fiduciosi,
occorrerebbe una visione più articolata. È una tematica multidimensionale che
dovrebbe essere analizzata facendo gli opportuni distinguo, anche riconoscendo
cosa è veramente utile e che rimane non utilizzato. C’è un aspetto che non mi
incute paura, bensì orrore e pena allo stesso tempo.
È
questo, infatti, quello che provo quando vedo una coppia di adolescenti su una
panchina intenti ciascuno a guardare il proprio smartphone. Non ci si rende
conto abbastanza del disastro generazionale in atto: giovani con il volto
sempre abbassato, che non guardano più negli occhi, depauperati nella loro
capacità di provare empatia verso gli altri. Prima di fare corsi di educazione
socio-affettiva occorrerebbero sistematici interventi di collaborazione tra
scuola e famiglia ed anche leggi proibitive più incisive e severe per mettere
un argine contro gli effetti assai pericolosi di queste pratiche sempre più
pervasive che, se lasciate a se stesse, tenderanno ad aggravarsi.
Orizzonte
Scuola