martedì 23 dicembre 2025

NATALE CON BONHOEFFER


 IL MIRACOLO
DELL'AMORE
DI DIO

«Soprattutto una cosa: non dovete pensare che io mi lasci abbattere da questo Natale in solitudine». Così Dietrich Bonhoeffer scriveva ai genitori il 17 dicembre 1943 dal carcere berlinese di Tegel, dove era stato rinchiuso con l’accusa di cospirazione contro il regime nazista. Fu messo in isolamento in una cella sudicia senza che nessuno gli rivolgesse la parola. La lettera continuava: «Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti in questa casa celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di qualunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza di aiuto e colpa hanno agli occhi di Dio un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio volge lo sguardo proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distoglierlo; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annunzio» (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo [MI], Ed. Paoline, 1988, 324).

Rimase nel carcere di Tegel 18 mesi. Nell’ottobre del 1944 fu trasferito nel carcere della Gestapo in Prinz-Albrecht-Strasse per essere poi internato, il 7 febbraio 1945, nel campo di concentramento di Buchenwald. Il 9 aprile, nel campo di sterminio di Flossenburg, fu impiccato perché giudicato reo di cospirazione contro il Führer. Aveva 39 anni. Intuendo prossima la morte aveva detto: «È la fine – per me l’inizio della vita».

* * *

Il Natale in prigione

Nella lettera citata aveva affermato di voler ricordare il Natale in prigione «con un certo orgoglio». Si riferiva soprattutto all’orgoglio di sapersi nella sequela di Cristo, nato «in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo». Neanche per D. Bonhoeffer, pastore della Confessione luterana, nemico dichiarato del regime nazista, c’era posto nella società dominante. Rifiutato come Cristo, e come Cristo giudicato colpevole. Per chi, come lui, aveva scelto Cristo come signore, centro e ideale della sua vita, l’essere «trattato come un pericoloso criminale», carcerato e ridotto al silenzio, autenticava la sua fede cristiana. Questa condizione — l’assimilazione a Cristo —, approfondita e sviluppata nei suoi elementi essenziali, costituisce l’anima della sua concezione religiosa: «L’uomo che Dio accoglie, giudica e fa risorgere a nuova vita è Gesù Cristo, e in lui l’umanità intera: siamo noi. Soltanto la persona di Gesù Cristo affronta vittoriosamente il mondo. Da questa persona, nasce e prende forma un mondo riconciliato con Dio» (D. Bonhoeffer, Etica, Milano, Bompiani, 1969, 69).

Nella nascita di Gesù Cristo, Dio si abbassa e si rivela: «Cristo nella mangiatoia […]. Dio non si vergogna della bassezza dell’uomo, vi entra dentro […]. Dio è vicino alla bassezza, ama ciò che è perduto, ciò che non è considerato, l’insignificante, ciò che è emarginato, debole e affranto; dove gli uomini dicono “perduto”, lì egli dice “salvato”; dove gli uomini dicono “no”, lì egli dice “sì”. Dove gli uomini distolgono con indifferenza o altezzosamente il loro sguardo, lì egli posa il suo sguardo pieno di amore ardente incomparabile. Dove gli uomini dicono “spregevole”, lì Dio esclama “beato”. Dove nella nostra vita siamo finiti in una situazione in cui possiamo solo vergognarci davanti a noi stessi e davanti a Dio, dove pensiamo che anche Dio dovrebbe adesso vergognarsi di noi, dove ci sentiamo lontani da Dio come mai nella vita, proprio lì Dio ci è vicino come mai lo era stato prima, lì egli vuole irrompere nella nostra vita, lì ci fa sentire il suo approssimarsi, affinché comprendiamo il miracolo del suo amore, della sua vicinanza e della sua grazia» («Sermone della 3a domenica di Avvento», in D. Bonhoeffer, Riconoscere Dio al centro della vita, Brescia, Queriniana, 2004, 12 s; d’ora in poi RD).

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Il Natale permette di comprendere questo miracolo.

Bonhoeffer lo ha compreso in maniera così viva da considerarlo la realtà della sua vita. Nella cella del carcere di Tegel ha appeso a un chiodo la corona dell’Avvento e attaccato la Natività del Lippi. La meditazione su Maria e sul Bambino della mangiatoia lo inonda di serenità; ricorda i Lieder cantati in famiglia, soprattutto questi versi: La mangiatoia splende luminosa e chiara, / la notte porta una luce nuova, / la tenebra non deve entrare, / la fede resta sempre nella luce (Resistenza e resa, cit., 214). Allora quel «buco» di prigione diventa una finestra spalancata sull’universo della fede, e l’oscurità è assorbita dalla luce di un mistero non semplicemente da ricordare, ma da celebrare.

«Il fatto che Dio elegge Maria a suo strumento, il fatto che Dio vuole venire personalmente in questo mondo nella mangiatoia di Betlemme, non è un idillio familiare, bensì è l’inizio di una conversione totale, di un riordinamento di tutte le cose di questa terra. Se vogliamo partecipare a questo evento dell’Avvento e del Natale, non possiamo stare semplicemente a guardare come spettatori in un teatro e godere delle belle immagini che ci passano davanti, bensì dobbiamo lasciarci coinvolgere nell’azione che qui si svolge, in questo capovolgimento di tutte le cose, dobbiamo recitare anche noi su questo palcoscenico; qui lo spettatore è sempre anche un attore del dramma, e noi non possiamo sottrarci» (RD, 14).

A questo punto Bonhoeffer si chiede il significato della scena offertaci dal Natale. Che cosa accade a Natale? «Il giudizio del mondo e la redenzione del mondo: ecco ciò che qui accade. Ed è lo stesso Bambin Gesù nella mangiatoia a compiere il giudizio e la redenzione del mondo». La conseguenza è perentoria: «Non possiamo accostarci alla sua mangiatoia come ci accostiamo alla culla di un altro bambino: a colui che vuole accostarsi alla sua mangiatoia succede qualcosa, perché da essa può allontanarsi di nuovo solo giudicato o redento, deve qui crollare oppure conoscere che la misericordia di Dio è a lui rivolta» (RD, 15).

Un Natale pagano

Celebrare il Natale «in maniera paganamente distaccata», considerarlo una «bella e pia leggenda», pensare che il discorso natalizio sia semplicemente «un modo di dire»: tutto ciò significa sganciarsi dalla Rivelazione e dalla Redenzione. Dio si fa bambino «non per trastullarsi, per giocare», ma per rivelarci che «il trono di Dio nel mondo non è nei troni umani, ma negli abissi e nelle profondità umane, nella mangiatoia». Attorno al suo trono non ha voluto i grandi della terra, ma personaggi oscuri e sconosciuti «che non si stancano di guardare questo miracolo e vogliono vivere completamente della misericordia di Dio». La mangiatoia e la croce sono le due realtà che determinano il destino dell’umanità. Dinanzi ad esse il coraggio dei grandi di questo mondo si dissolve, e al suo posto subentra la paura. In verità «nessun violento osa avvicinarsi alla mangiatoia, e neppure il re Erode l’ha fatto. Appunto perché qui vacillano i troni, cadono i violenti, precipitano i superbi, perché Dio è con gli infimi […]. Davanti a Maria, alla serva, alla mangiatoia di Cristo, davanti al Dio della bassezza il forte cade, non ha alcun diritto, alcuna speranza, è giudicato».

Tali considerazioni inducono a un leale esame di coscienza. «Alla luce della mangiatoia», che cosa è alto e che cosa è basso nella vita umana? Abbiamo lo stesso criterio del Signore nel formulare un giudizio in merito? «Ognuno di noi vive con persone che diciamo altolocate e con persone che diciamo di basso rango. Ognuno di noi ha sempre qualcuno che sta più in basso di lui. Ci aiuterà questo Natale a imparare ancora una volta a cambiare radicalmente idea su questo punto, a cambiare mentalità e a sapere che la nostra via, nella misura in cui deve essere una via verso Dio, non ci conduce verso l’alto, bensì in maniera molto reale verso il basso, verso i piccoli, e a sapere che ogni cammino tendente solo verso l’alto finisce necessariamente in maniera spaventosa?». La conclusione di Bonhoeffer è perentoria: «Dio non permette che ci si prenda gioco di lui (Gal 6,7). Non permette che celebriamo anno dopo anno il Natale senza fare sul serio. Egli mantiene sicuramente la sua parola, e a Natale, quando entrerà, con la sua gloria e con la sua potenza nella mangiatoia, rovescerà i violenti dai troni se finalmente, finalmente non si convertiranno» (RD, 18).

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Un bambino è nato per noi

Nell’altro sermone-meditazione del Natale 1940 Bonhoeffer si sofferma sul testo di Isaia (9,5-6): «Un bambino è nato per noi» e sugli appellativi con il quale il profeta lo qualifica. I toni elevati sono percorsi da brividi di commozione per la consapevolezza che l’oggi del profeta è anche il nostro oggi. Anche nel nostro tempo, così appesantito da colpe e da miserie, nasce un bambino che realizza la nostra redenzione. «La mia vita dipende adesso unicamente dal fatto che questo bambino è nato, che questo figlio ci è dato, che questo discendente di uomini, che questo Figlio di Dio mi appartiene, dal fatto che lo conosco, ce l’ho, lo amo, dal fatto che sono suo e che egli è mio» (RD, 26).

Dinanzi all’affermazione che «sulle deboli spalle di questo neonato poggia la sovranità su tutto il mondo», l’uomo del nostro tempo, sicuro di sé, forse riderà beffardamente; ma i credenti sanno che il Bambino di Betlemme è «Dio in forma umana». Sanno anche che la sovranità che poggia sulle sue spalle «consiste nel portare pazientemente gli uomini e la loro colpa. E tale portare comincia nella mangiatoia, comincia lì dove il Verbo eterno di Dio ha assunto la carne umana e l’ha portata».

Quali nomi dà il profeta a questo Bambino? Consigliere ammirabile: «Dal consiglio eterno di Dio è scaturita la nascita del bambino salvatore», che col suo amore ci conquista e ci salva. «Questo Figlio di Dio, dal momento che è il suo consigliere ammirabile, è anche una fonte di tutti i miracoli e di tutti i consigli». Dio potente: «Qui egli è povero come noi, misero e inerme come noi, un uomo di sangue e carne come noi, nostro fratello. E tuttavia è Dio, tuttavia è potente. Dov’è la divinità, dov’è la potenza di questo bambino? Nell’amore divino con cui divenne uguale a noi. La sua miseria nella mangiatoia è la sua potenza». Padre per sempre: in questo bambino si rivela l’amore eterno del Padre perché «il Figlio è una cosa sola con il Padre […]. Nato nel tempo, egli porta con sé l’eternità sulla terra». Principe della pace: «Dove Dio viene agli uomini e si unisce ad essi per amore, lì tra Dio e l’uomo, e tra uomo e uomo è conclusa la pace. Se temi l’ira di Dio, va’ dal bambino nella mangiatoia e lasciati ivi donare la pace di Dio. Se sei in lite con tuo fratello e lo odi, vieni e vedi come Dio è diventato per puro amore nostro fratello e ci vuole riconciliare fra di noi. Nel mondo regna la violenza, questo bambino è il principe della pace. Dov’egli è, lì regna la pace» (RD, 30).

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Coraggio e fede profonda

Occorreva coraggio e fede profonda per scrivere queste parole quando l’esercito hitleriano avanzava vittorioso su molte nazioni europee, convinto che Gott mit Uns, che Dio era con la razza ariana, che Dio era il Terzo Reich. Mentre molti intellettuali, scienziati e artisti erano emigrati perché consapevoli della fine di ogni libertà della cultura, lui — Bonhoeffer — era rientrato in Germania dagli Stati Uniti per aiutare la sua nazione a ritrovare la propria anima, la propria libertà, soprattutto a ricordarle dove si trovano le radici della pace. Karl Barth, suo maestro, aveva denunciato l’inconciliabilità del nazismo con il cristianesimo e abbandonato la Germania; Bonhoeffer, superando ogni timore, aveva deciso di restare accanto alla «Chiesa confessante» (die bekennende Kirche) di netta opposizione al nazismo. Al Terzo Reich opponeva il regno di Dio.

«Soltanto dove non si permette a Gesù di regnare, dove l’ostinazione, il dispetto, l’odio e l’avidità umana possono scatenarsi sfrenatamente non può esserci pace. Gesù non vuole il suo regno di pace con la violenza, bensì dona la sua pace mirabile a coloro che gli si sottomettono volontariamente e lo lasciano regnare sopra di sé […]. Un regno di pace e di giustizia, desiderio inappagato degli uomini, è cominciato con la nascita del bambino divino. Noi siamo chiamati a tal regno, e lo possiamo trovare se riceviamo nella Chiesa, nella comunità dei credenti, la parola e il sacramento del Signore Gesù Cristo, se ci sottoponiamo alla sua sovranità, se riconosciamo nel bambino posto nella mangiatoia il nostro salvatore e redentore e ci lasciamo da lui donare una nuova vita nell’amore» (RD, 32 s). Al Gott mit Uns dei nazisti il pastore luterano oppone il «Dio con noi, Gesù-Emanuele» del Natale.

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Dio si fa uomo per amore degli uomini.

 Celebriamo questo Natale in un periodo storico in qualche momento minacciato dalla strategia dell’orrore, sotto i cieli dell’insicurezza e dello sgomento anche se senza le tragedie immani della seconda guerra mondiale. Alcuni pensatori e scrittori, da tempo, hanno intonato il De profundis per l’umanità. Bonhoeffer è vissuto in tempi molto più oscuri del nostro. Invece del De profundis ha invitato gli uomini del suo tempo a contemplare la mangiatoia di Betlemme per poter intonare l’inno della speranza nonostante il grigiore dei tempi. Due suoi pensieri ne scandiscono le note: «La figura di colui che riconcilia, dell’Uomo-Dio Gesù Cristo, si interpone fra Dio e il mondo, e occupa il centro di tutti gli eventi. In lui è svelato il segreto del mondo e in lui si rivela il segreto di Dio. Nessun abisso del male può rimanere occulto a colui mediante il quale il mondo è riconciliato con Dio. Ma l’abisso dell’amore di Dio abbraccia anche la più abissale iniquità». «Dio si fa uomo per amore degli uomini. Non cerca il più perfetto degli uomini per unirsi a lui, ma assume la natura umana così com’è. Gesù Cristo non è un’umanità eccelsa trasfigurata, ma il “sì” di Dio all’uomo reale; non il “sì” spassionato del giudice ma il “sì” misericordioso del compagno di sofferenze. In questo “sì” è racchiusa la vita intera e l’intera speranza del mondo» (Etica, cit., 62 s).

   Civiltà Cattolica

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sabato 20 dicembre 2025

GLI STUDENTI PROTESTANO


INCONTRI 

DI 

FUTURO


Uno studente molto intelligente, diretto e quindi scomodo provoca l’insegnante con una protesta che fa riflettere

«Questo romanzo mi interessa di più» Se Mattia non segue la lezione del prof.

Ha quasi 18 anni, i voti migliori della classe e viene beccato a leggere Asimov durante le spiegazioni in aula 

«Credo di avere la capacità di scegliere come investire il mio tempo». E le regole?

-         di MARCO ERBA*

Le proteste degli studenti fanno sempre discutere, che siano gli universitari di medicina o i maturandi che si rifiutano di sostenere l’orale. Anche io, come prof, mi sono imbattuto nella mia carriera in diverse forme di protesta. Una delle più pittoresche, se così si può definire, fu quella di un mio allievo di quarta superiore, che fece infuriare un collega. Ricordo l’ingresso di quel docente in sala insegnanti: era furente e aveva ragione. Il ragazzo in questione era intelligentissimo, dotato di un elevato senso critico, ma a tratti anche duro, eccessivamente diretto; mai esplicitamente provocatorio, mai platealmente sgradevole, ma a volte scomodo o addirittura indisponente. Il collega raccontò l’accaduto. Stava spiegando e aveva notato che quell’allievo non seguiva. Lui, prof preparatissimo, molto deciso, appassionato, era subito intervenuto. L’allievo, che stava guardando sotto il banco, aveva alzato la testa. « Mattia, cosa stai facendo? Cos’hai lì sotto? ». Mattia, sereno, aveva risposto: «Questo!». E aveva alzato un romanzo di fantascienza di Isaac Asimov.

La sua naturalezza era riuscita a far restare il prof senza parole. Mattia aveva spiegato serafico: «Questo romanzo mi interessa più di quello che lei sta spiegando. Comunque studierò tutto sul libro, a casa, e nell’interrogazione prenderò un buon voto». Su quest’ultima affermazione non c’era alcun dubbio, dato che Mattia era uno degli studenti coi voti migliori della classe.

Ne era seguita una sacrosanta sfuriata, ma Mattia non si era scomposto minimamente, difendendo la sua posizione: se riteneva un argomento irrilevante per la propria vita, riteneva di avere il diritto di ignorarlo. Mi sentii subito dalla parte del mio collega, provai fastidio io stesso. Mi innervosiva l’atteggiamento di Mattia: se ognuno dei suoi compagni si fosse comportato come lui, noi prof come avremmo potuto fare lezione? Eppure, comprendevo che quella sua forma di contestazione, o forse semplicemente quella sua scelta, in qualche modo conteneva una provocazione utile. Per questo gli parlai. Lui accettò il confronto, come sempre. «Prof, ho quasi diciotto anni. Credo di avere la capacità di scegliere come investire al meglio il mio tempo, no?». «Sì, Mattia, però ci sono delle regole, dal cui rispetto dipende una condizione di lavoro serena per tutti, non credi?». «Certo. Io però non impedivo ai miei compagni interessati di seguire. Ero in perfetto silenzio».

« Ma pensa agli altri che ti vedevano! Il tuo atteggiamento ti sembra costruttivo?». « Perché, prof? Vedere uno che legge un romanzo distoglie chi è interessato da una spiegazione? ». « E l’insegnante? Sta spiegando, ce la mette tutta e vede uno che legge un romanzo sotto il banco!». « Mi sta dicendo che un prof che insegna da tanti anni si offende se uno studente non segue una sua lezione? O mi sta consigliando di fingere di seguire?». Niente: non ne cavai un ragno dal buco. 

La scorsa estate, quando alcuni studenti si sono rifiutati di sostenere l’esame orale della maturità in segno di protesta, mi è tornato in mente Mattia. Le sue affermazioni avevano qualcosa in comune con quella contestazione. Credo che la questione fondamentale sia questa: quanto la scuola tocca davvero la vita degli studenti? Quanto davvero li aiuta a crescere come persone? E quanto invece è, o viene percepita, come una noiosa imposizione, come un dovere arido, come una pressione volta alla prestazione pura? L’atteggiamento di Mattia con quel collega è assolutamente non condivisibile, proprio come è estremamente forte e provocatoria la scelta di non sottoporsi alla prova orale della maturità. Sono però convinto che un atteggiamento di pura censura, di critica, da soloni che hanno già la verità in tasca e si limitano a urlare O tempora, o mores! facendo il verso a Cicerone e spiegando a quei ragazzi come avrebbero dovuto comportarsi invece di fare ciò che hanno deciso di fare, non porti da nessuna parte. Ma non portano da nessuna parte nemmeno i tentativi di strumentalizzare quella protesta attraverso una acritica esaltazione. Trovo molto più promettente, di fronte a queste azioni, pormi e porre delle domande: le domande schiudono il cammino, aprono orizzonti, al contrario dei giudizi troppo netti, che costruiscono steccati. Potremmo ad esempio chiederci che senso hanno i voti nella scuola. Che senso ha il buon voto di Mattia in una interrogazione su un argomento che trova tanto irrilevante per la sua esistenza da leggere un romanzo di fantascienza durante la spiegazione in classe? Che senso hanno i voti di maturità e i voti in generale? Sono stimoli per un percorso o un giudizio sulla qualità di una persona?

Essere valutati è importante.

 Ottenere un voto positivo dopo essersi impegnati può essere un’esperienza molto formativa. I voti però misurano una prestazione scolastica, nulla di più: non sono un giudizio di Dio, non dicono nulla della qualità umana dei nostri studenti: occorre ricordarlo. Le persone non sono i voti che prendono, eppure quante volte io, da prof, ho faticato a vedere il valore di chi a scuola va male o molto male e invece ho colto con molta più facilità le qualità personali dei miei allievi più attivi, partecipi, impegnati, capaci di ottenere ottimi risultati con facilità? I voti sono un cartello che indica una direzione, non un proiettile da sparare su chi riteniamo inadatto o colpevole. Dobbiamo sempre ricordare che l’intelligenza non ha una definizione univoca: ognuno ha le proprie doti. Se uno studente si impegna, ma va male nella mia materia, non significa che non sia intelligente, significa semplicemente che ha un’intelligenza diversa dalla mia, in quanto essere umano unico, irripetibile e quindi diverso da me. Di fronte alle provocazioni degli studenti potremmo inoltre chiederci cosa sia per noi la scuola: un luogo accogliente o un campo di battaglia? Una spedizione verso una cima difficile, nella quale ci aiutiamo a vicenda, o uno Squid Game giocato tutto sull’eliminazione dei più fragili, sulla selezione dei migliori? La scuola forse può ambire ad essere una privilegiata palestra di felicità, se accetta la sfida delle interrogazioni e delle verifiche senza però scadere nell’ossessione per la prestazione e la selezione a tutti i costi. Una scuola esigente con tutti, ma che non riduce le persone a numeri. M i piacerebbe però porre una domanda anche a Mattia e a quegli studenti che hanno rifiutato di sottoporsi all’orale: voi agite seguendo i principi in modo assoluto o cercando di essere responsabili? I principi, se seguiti in modo inflessibile, possono portare a rifiutare la realtà, a tirarsene fuori, a contestarla. Tutto legittimo, ma poi? Non esiste realtà umana che sia come dovrebbe essere: le istituzioni, il mondo, le persone stesse non sono come dovrebbero, sono ciò che sono. È una banalità, ma bisogna farci i conti. La realtà, anche quella della scuola, si può rifiutare perché ingiusta o inadeguata, oppure si può vivere con amore, standoci dentro, cambiando le cose nella fatica di ogni giorno. Questo è lo stile della responsabilità, di chi si fa carico degli altri, di chi si chiede quale effetto la sua azione concreta avrà sul contesto intorno. Ricordo una classe estremamente competitiva, dove ogni interrogazione o verifica era l’occasione per una malsana gara a chi prendeva i voti migliori. Due compagne, che ottenevano voti molto buoni, ma si trovavano a disagio in quel clima, decisero una forma di protesta strepitosa: iniziarono a trovarsi al pomeriggio con i loro compagni più in difficoltà aiutandoli a studiare. Scelsero di avere più a cuore il miglioramento di chi faticava che il primeggiare. Non rinunciarono ai loro principi, ma li trasformarono in responsabilità, in cura, in dedizione. Mi commossero: se la protesta scuote, è la responsabilità che costruisce futuro.

Le contestazioni dei ragazzi richiamano una domanda: la scuola tocca davvero la loro vita? La si può rifiutare perché inadeguata. Ma la si può anche vivere, e cambiare, standoci dentro.

La scuola richiede lo stile della responsabilità di chi si fa carico anche degli altri.

*Insegnante e scrittore

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E' NATALE. AUGURI!


 A tutti gli associati AIMC

Auguri di un lieto e Santo Natale!


- di P. Giuseppe Oddone, Assistente Nazionale

Vi rivolgo con fraterno affetto l’augurio di un lieto e Santo Natale, riportando questi pensieri, che esprimono bene il mistero di Dio che viene ad abitare tra noi, per trasformare la nostra vita. Essi interpretano bene la fede cristiana, nella tradizione religiosa viva fin dai primi tempi della Chiesa.

Il mistero del Natale, dell’Incarnazione del Figlio di Dio, ci proietta alla sorgente di tutta la vicenda umana di Gesù, concepito nel grembo di Maria, nato a Betlemme, vissuto a Nazareth nel nascondimento, annunciatore dell’avvento del Regno di Dio nella sua persona, morto sulla croce a Gerusalemme e risorto ed asceso al cielo.

Il Santo Natale si può considerare anche come il punto estremo dell’abbassamento di Dio fino al vagito di un neonato bisognoso di tutto e nello stesso tempo il più alto per la nostra comprensione del Suo amore.

Ma il Santo Natale non è solo un brivido per la nostra intelligenza e una folgorazione di grazia, è anche un momento di dolcezza e di gioia interiore, un momento di fraternità e di pace, perché ci rivela Dio che ci viene incontro, che si abbassa fino ad un bambino che non sa parlare, che si fa carne, essere fragile e debole, Lui che è la Parola eterna del Padre e l’Onnipotente. Egli viene a chiedere il nostro amore per renderci partecipi della sua vita immortale, diventa figlio della nostra terra, per darci la vita del cielo, per comunicarci la sua stessa natura.

Sant’Agostino ci invita a Natale a “salire e scendere sul figlio dell’uomo”. Parafrasando diversi passi delle sue opere possiamo dire con lui al Verbo che si è fatto carne:

Gesù ti sei racchiuso nel grembo di Maria, Tu che né cielo né terra possono contenere perché sei come Dio immenso ed infinito!

Sei nato a Betlemme, una sperduta città della Giudea, perché non confidiamo in nessuna potenza politica della terra!

Sei nato da Maria Vergine, perché non ci insuperbiamo della nobiltà della nostra famiglia o della nostra stirpe!

Sei nato in un presepe, povero, Tu al quale appartengono tutte le cose, perché non

confidiamo nella nostra ricchezza!

Sei nato nel tempo, figlio di Maria, Tu che sei nato dal Padre prima di tutti i tempi!

Sei nato nella notte, Tu che sei la nostra luce!

Sei sorretto dalle braccia di tua madre, Tu che ci hai creato e sorreggi il cielo e la terra!

Hai avuto fame, sei nutrito da Maria, hai succhiato il latte materno da una vena di carne, Tu che sei il nostro cibo!

Hai dormito sul seno di Maria, Tu che non dormi mai, perché come dice la Scrittura vegli su ognuno di noi e su tutto Israele!

Hai pianto, Tu che sei la nostra gioia!

Hai vagito, incapace di parlare, Tu che sei la Parola eterna del Padre!

Piccolo e vagente ti riconosciamo, ma onnipotente ti adoriamo!

Possa davvero il Santo Natale essere per noi credenti una festa che ci invita a gioire insieme nelle nostre famiglie e comunità, a salire e scendere con la nostra intelligenza ed il nostro amore sul Figlio dell’Uomo, su Gesù Bambino, Verbo fatto carne, che inserisce la nostra natura e la nostra storia nel mistero trinitario dell’unico Dio!

Rinnoviamo in questa festa così cara a tutto il popolo cristiano il nostro impegno, la nostra fede, la nostra professionalità, testimoniando nella vita e nell’insegnamento l’amore per Cristo, Colui che dà valore e pienezza di vita a chi lo accoglie nel proprio cuore!

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L'EMMANUELE

 


Ecco, viene: 

è con noi l’Emmanuele



Is 7,10-14; Sal 23/24; Rm 1,1-7; Mt 1,18-24

-di  don Massimo Naro 

Il Natale si approssima sempre più e la liturgia della Parola mette a fuoco la figura di Giuseppe, l’artigiano di Nazareth chiamato a fare da padre del Bambino che dovrà nascere: quel Gesù che, come dichiara il suo stesso nome pronunciato in ebraico, «salverà il suo popolo». Così si legge nella pagina evangelica, che costituisce la versione matteana di quella che – nel vangelo secondo Luca – è l’annunciazione dell’angelo a Maria.

In Matteo l’angelo appare, invece, proprio a Giuseppe. Gli appare «in sogno» (kat’ónar). Espressione, questa, che non vuol dire “mentre dormiva”, sprofondato nel sonno (in tal caso, il termine greco, nel testo evangelico, qualche versetto dopo, è hýpnos). Giacché, anzi, la sua coscienza era vigile, impegnata nel discernimento della situazione in cui s’era venuto a trovare: la donna a lui promessa in sposa è già incinta, ma l’onesto falegname non c’entra nulla. Il «sogno» di Giuseppe è un momento di lucida riflessione sui fatti così come stanno, tesa nondimeno a oltrepassarne le evidenze, per chiarirne la verità più profonda, meno ovvia, meno scontata. La parola greca che l’evangelista adopera per descrivere questa riflessione è enthymēthéntos: letteralmente significa “mentre era concentrato in se stesso”, ritirato nel proprio intimo, a vagliare innanzitutto i propri sentimenti, a esaminare i suoi desideri, a verificare la giustezza del suo personale modo di “sentire” ciò che avveniva. In latino la Vulgata traduce impiegando la voce verbale cogitare («haec autem eo cogitante»), la medesima che – con Cartesio, ormai in piena epoca moderna – avrebbe dato abbrivo alla svolta filosofica dalla metafisica all’esistenzialismo. Giuseppe stava cogitando, stava pensando intensamente, si stava seriamente interrogando, avvertendo certamente d’essere coinvolto in fatti strani, ma non ancora del tutto consapevole della loro straordinarietà.

Nel sogno Giuseppe traspare quale icona dell’essere umano che, come tale, non si esime dall’esercizio di ragione. Egli, tuttavia, è disposto ad andare oltre la logica umana, per non restare imprigionato nelle comuni convenzioni, senza puntare alle proprie convenienze e intuendo che le proprie convinzioni possono pur risultare arbitrarie. Quindi rientra in sé, ma per aprirsi all’interiore interlocuzione con qualcun altro. Con Maria, il cui ricordo non vuole lasciarlo e il cui destino lo impensierisce. E col sussurro divino che gli soffia dentro l’animo, nel «sacrario del cuore» in cui ogni essere umano si ritrova «solo con Dio» (lo insegna, ai nostri giorni, il concilio Vaticano II nel n. 16 di Gaudium et spes). Lì gli appare l’angelo. Lì, cioè, emerge la presenza dell’Altro, la cui voce – avrebbe detto Clemente Rebora – zittisce le chiacchiere di tutti gli altri.

L’esercizio di ragione, difatti, ogni volta che si smarca dall’autoreferenzialità si rivela autentica relazione: incontro, confronto, dialogo, rapporto, legame, partecipazione all’altrui vicenda, condivisione dell’altrui disagio, adesione a una più alta e completa visione della realtà. Ciò che rimane irrelato – fuori dalla relazione – è irreale e, per ciò stesso, irrazionale: non è pensabile e di conseguenza si relega ai margini della realtà, resta improbabile e persino impossibile. Giuseppe, il cogitante, se ne rende conto. Non per niente Giotto e tanti altri grandi pittori lo hanno sempre raffigurato nella posa del pensatore, accovacciato in disparte per dire la sua concentrazione, a reggersi il mento con la mano o a massaggiarsi la fronte.

Ne deriva il suo realismo. Giuseppe si desta dal sonno (apò toû hýpnou, potremmo intendere: dall’ipnosi). Vale a dire che si libera dalle pastoie del senso comune – dal conformismo e dal moralismo diremmo oggi – che avrebbe voluto probabilmente il ripudio infamante o persino la lapidazione di Maria. Poi esegue il compito affidatogli dall’angelo, facendo di Maria la sua sposa. Insomma, il sogno lo libera dal sonno. Il suo sogno non è incanto, è disincanto. È la via di fuga dal sonno della ragione autosufficiente. Il quale – piuttosto – genera mostri. In virtù del sogno Giuseppe va oltre la ristretta misura del “si è sempre saputo che” e del “si è sempre fatto così”. Conosce e rispetta la legge mosaica, ma non la interpreta legalisticamente. Va alla ricerca di una “giustizia superiore”, come l’avrebbe predicata Gesù nel suo discorso della montagna, riportato in seguito dallo stesso evangelista Matteo: una giustizia liberante, terapeutica e riparativa, non costringente, lesiva o punitiva.

È la logica di Dio, che si pone in relazione con noi, non ci lascia soli e compie la promessa fatta tramite il profeta Isaia nella prima lettura: entra nei nostri pensieri, stimola azioni nuove, stando assieme a noi, «Emmanuele» nel Bimbo che è nato a Betlemme e che torna a nascere nei nostri cuori.

www.tuttavia.eu 

ANTISEMITISMO


 VERO E FALSO ANTISEMITISMO



- di Giuseppe Savagnone



Un altro disegno di legge contro l’antisemitismo

Il disegno di legge presentato in Senato lo scorso 20 novembre dall’on. Graziano Delrio, autorevole rappresentante del PD, «per la prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo», ha suscitato reazioni contrastanti, che hanno rimescolato in modo inusuale le carte del gioco politico. A prenderne le distanze, infatti, è stato il capogruppo del partito democratico a Palazzo Madama, Francesco Boccia,  il quale ha dichiarato che esso «non rappresenta la posizione del gruppo né quella del partito», mentre a salutarlo con favore sono stati i giornali e i politici di destra.

In realtà, il ddl presentato da Delrio si aggiunge ad altre tre analoghe iniziative,  tutte contro l’antisemitismo, firmate rispettivamente dal leghista Massimiliano Romeo, dal renziano Ivan Scalfarotto e dal rappresentante di Forza Italia Maurizio Gasparri.

Ma che cosa si intende, in questi ddl, per antisemitismo? In realtà tutti e quattro recepiscono la “definizione operativa” che ne ha dato nel 2016 la International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA). Essa ha una parte descrittiva dal tenore assolutamente incontestabile: «L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto».

Per ovviare, però, alla genericità di questa formulazione, la si integra con undici esempi contemporanei di antisemitismo nella vita pubblica, al fine di orientarne l’interpretazione. E sette di questi esempi non riguardano il popolo ebraico in generale, ma specificamente lo Stato d’Israele.

 Da un accreditato quotidiano di destra, «Il Giornale», traiamo una chiara sintesi di ciò che ne risulta. Il testo in questione «qualifica come antisemita ogni critica radicale contro Israele e verso il sionismo quale sua ideologia fondativa. In particolare, per l’IHRA è antisemitismo sostenere che “l’esistenza dello Stato di Israele è una espressione di razzismo”, “applicare due pesi e due misure nei confronti di Israele richiedendo un comportamento non richiesto a nessun altro Stato democratico” e “fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei nazisti”».

Si tratta, insomma, di una definizione dell’antisemitismo che coincide con quella ripetutamente ribadita dal governo di Netanyahu e che lo identifica, come dice  «Il Giornale», con «ogni critica radicale» della politica dello Stato ebraico. Non vi rientra, perciò, quella, molto blanda, della nostra presidente del Consiglio che, davanti alle stragi di civili compiute dall’Idf, dopo avere a lungo sottolineato «il diritto di Israele di difendersi» e la tassativa necessità di «non isolare Israele», alla fine ha ammesso che quella dello Stato ebraico è stata «una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità».

 Mentre sono state chiaramente antisemite – sempre stando alla definizione dell’IHRA – le imponenti manifestazioni che da un capo all’altro del nostro paese hanno coinvolto centinaia di miglia di uomini e donne di tutte le  età, di tutte le estrazioni sociali, di tutte le convinzioni politiche, in cui il governo di Israele è stato accusato a gran voce di compiere a danno dei palestinesi una strage paragonabile a quelle perpetrate dai nazisti nei confronti degli ebrei.

Ma queste proposte di legge non riguardano, evidentemente, il passato, perché mirano a regolare il futuro. In particolare l’articolo 4 del ddl presentato da Delrio prevede che «l’organismo di vigilanza di ogni università individui al suo interno una figura deputata alla verifica e monitoraggio delle azioni per contrastare i fenomeni di antisemitismo». E l’articolo 5 prevede questo monitoraggio «circa le azioni attuate per contrastare i fenomeni di antisemitismo» anche alle scuole.

 È evidente l’intento istituire un controllo  che scongiuri le proteste di docenti e studenti che nei mesi scorsi hanno scosso il mondo universitario, ma  hanno anche avuto ripercussioni in quello scolastico, in reazione alla linea del nostro governo sulla questione  palestinese. Nel ddl di Delrio, a differenza che in quello di Gasparri, non si prevedono sanzioni di carattere penale per i trasgressori, ma è chiaro che anche la possibilità di semplici misure disciplinari costituirebbe un deterrente sufficiente a suggerire a molti insegnanti e studenti una maggiore cautela nel manifestare le loro opinioni su Israele.

 Alcune domande inquietanti

Davanti a questo quadro, alcune domande si impongono. La prima riguarda la compatibilità di questi provvedimenti con la Costituzione italiana, elaborata da persone che avevano dovuto a lungo subire una dura repressione della loro libertà di espressione e che hanno voluto affermare con la massima chiarezza possibile il rifiuto di ogni limitazione, qualche ne possa esser la giustificazione, nell’articolo 21 della Carta costituzionale: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

In particolare la Costituzione tutela questa libertà nell’ambito educativo stabilendo, nell’articolo 33, che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Dire, dunque, che il ddl si rivolge solo alle manifestazioni di pensiero sulle piattaforme digitali, alle scuole e alle università, non cambia la sostanza del problema costituzionale, che proprio per scuole e università si pone in modo più evidente.

Se passasse il ddl Delrio nelle nostre aule universitarie e scolastiche si potrebbe esprimere il giudizio più duro su qualunque istituzione – il nostro Stato, la Chiesa, l’Onu,  ma non su Israele. Si potrebbe accusare la politica  di qualsiasi governo al mondo di riprodurre lo stile del nazismo, tranne quella di Netanyahu. E il professore universitario o di liceo che leggesse ai suoi studenti l’articolo recentemente pubblicato da Vito Mancuso su «La Stampa», in cui parla di «nazi-sionismo», non sarebbe solo suscettibile di critiche sul piano culturale, come è pienamente legittimo, ma potrebbe andare incontro a sanzioni disciplinari.

Come giustificare una simile eccezione ai diritti costituzionalmente sanciti? La risposta, secondo i sostenitori dei queste limitazioni, vengono dalla storia. Gli ebrei, con la Shoah, sono stati senza dubbio vittime di una violenza inaudita. E questo è indiscutibile.

Ma la seconda domanda che sorge spontanea riguarda proprio il nesso tra le critiche a Israele, rivolte al governo di uno Stato governato da ebrei, e l’antisemitismo, che riguarda il popolo ebraico come tale, per motivi del tutto diversi da quelli che motivano quelle critiche. È una questione di logica riconoscere che si tratta di cose del tutto diverse.

 Lo dimostra inequivocabilmente il fatto che proprio tanti ebrei – che ovviamente non simpatizzano con l’antisemitismo – siano invece  tra i più duri accusatori del governo israeliano  per ciò che ha fatto e continua a fare a Gaza. Emblematica la presa di posizione del famoso scrittore israeliano David Grossman, che il 1 agosto scorso, in un’intervista a «Repubblica», ha usato una parola tabù, rigettata con sdegno dai rappresentanti e dai sostenitori di Israele, perché rovescia le parti, proiettando sulle vittime dell’Olocausto  l’ombra del crimine da loro subito. «Per anni  – ha detto Grossman – ho rifiutato di utilizzare questa parola: ‘genocidio’. Ma adesso non posso trattenermi dall’usarla, dopo quello che ho letto sui giornali, dopo le immagini che ho visto e dopo aver parlato con persone che sono state lì».

Secondo la definizione dell’IHRA, siamo davanti a un chiaro esempio di antisemitismo e, stando al ddl Delrio, se un docente italiano si rifacesse al giudizio di Grosssman sarebbe censurabile. Il paradosso è evidente.

Una formula più subdola di antisemitismo

Illuminante è anche la lettera indirizzata al quotidiano «Domani» da un gruppo di intellettuali ebrei, tra cui Gad Lerner, Anna Foa e Carlo Ginzburg, che dichiarano «inaccettabili e pericolosi i disegni di legge oggi in discussione sulla prevenzione e il contrasto dell’antisemitismo». Gli autori della lettera fanno presente che la definizione di antisemitismo dell’IHRA «è  contestata a livello internazionale da molti dei maggiori specialisti di storia dell’antisemitismo e della Shoah» e osservano che adottandola, come fanno acriticamente i quattro disegni di legge sopra menzionati, «si finisce per equiparare qualsiasi critica politica a Israele all’antisemitismo».

È ciò che sta accadendo, secondo gli autori della lettera, «anche nella recente offensiva del governo Trump contro le principali università americane». I sostenitori di questa definizione «usano la lotta all’antisemitismo come strumento politico per limitare la libertà del dibattito pubblico, della ricerca e della critica legittima a Israele, che da anni porta avanti politiche violente, autoritarie e perfino genocidarie contro i palestinesi».

A loro avviso, peraltro, il ddl Delrio non solo è  un pericolo per la democrazia, ma è, dicono, «controproducente» anche «ai fini di un efficace contrasto dell’antisemitismo», perché «stabilire un presunto privilegio di esenzione dalla critica politica ed etica “in favore degli ebrei” (e solo di questi) – che nei fatti tutela solo chi sostiene in modo incondizionato le ragioni di Israele – non può che alimentare nuova ostilità e ulteriore antisemitismo. Quest’ultimo certamente esiste ma va sempre contrastato accanto a islamofobia, razzismo ed ogni forma di discriminazione».

Non si tratta di avallare la deriva antisemita, ma di rendere più seria la lotta contro di essa sparandola dalla difesa ad oltranza di Israele. Gli autori della lettera, a questo proposito, contrappongono al testo dell’IHRA «la più equilibrata e autorevole Jerusalem Declaration on Antisemitism, del 2021, i cui firmatari non sono dei pericolosi estremisti, bensì studiosi di altissimo livello, in gran parte ebrei. Secondo questa definizione, è antisemitismo «la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei come ebrei (o contro le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche)». Dove la precisazione «in quanto ebraiche» chiarisce la differenza tra chi attacca lo Stato israeliano perché ebreo o per i suoi crimini.

La confusione tra le due fattispecie, purtroppo, ha dominato in Italia la politica del governo e può, adesso, trasformarsi in legge. Gli ebrei a questo punto rischiano di essere usati come scudo umano per difendere un governo già condannato dalla Corte Penale Internazionale  per «crimini contro l’umanità» e recentemente definito, da una commissione indipendente dell’ONU colpevole di genocidio.

E questa sì sarebbe davvero la forma più subdola di antisemitismo.

 

www.tuttavia.eu


 

 

venerdì 19 dicembre 2025

EDUCARE CON L'ARTE


 

  Quando l’arte insegnava come comportarsi

 

-         di Eleonora Alberti

-          

Prima dei manuali e dei social, le immagini spiegavano come vivere in società

 

Per molti secoli l’arte non è stata soltanto un medium tecnico e/o estetico da ammirare, bensì un mezzo di comunicazione essenziale, quale strumento educativo e un linguaggio condiviso. In un mondo in cui la maggior parte delle persone era analfabeta e dunque non sapeva leggere, le immagini avevano il compito di spiegare come ci si doveva comportare, cosa era giusto desiderare e cosa evitare.

Guardare un’opera non significava imparare in modo astratto, ma piuttosto attraverso esempi visivi, emozioni riconoscibili e storie facili da ricordare. L’arte funzionava come un manuale di morale aperto a tutti i ceti sociali.

Già Giotto (1267-1337) lo aveva capito con straordinaria lucidità. Nella Cappella degli Scrovegni (1303-1305) a Padova i suoi affreschi non si limitano a raccontare episodi della vita di Cristo e di Maria, ma mostrano reazioni umane: il dolore composto, il tradimento, la compassione. Le figure piangono, si abbracciano, si voltano. Lo spettatore non osserva da lontano, ma si riconosce in quelle emozioni. L’insegnamento passa attraverso l’empatia: capire cosa è giusto significa anche sentire cosa si prova.

Poco più tardi, Ambrogio Lorenzetti (1290-1348) realizza nel Palazzo Pubblico di Siena il ciclo del Buon Governo e del Cattivo Governo (1338-1339). Qui l’arte entra direttamente nella vita civile. Le immagini mostrano una città ordinata, prospera e sicura quando la giustizia guida il potere, e una città in rovina quando domina la corruzione. Non servono testi complessi: l’immagine spiega tutto. È un’educazione politica visiva, pensata per chi governa ma anche per chi è governato.

Nel Rinascimento, l’arte sviluppa un altro potente strumento educativo: l’allegoria. Concetti astratti diventano figure riconoscibili. Nella Primavera (1480) di Botticelli (1445-1510), la Grazia, la Castità e l’Armonia non sono idee vaghe, ma corpi, gesti, movimenti. L’opera suggerisce un modello di equilibrio morale e sociale, un’idea di bellezza legata alla misura e alla convivenza ordinata. Anche senza comprenderne ogni riferimento filosofico, lo spettatore coglie un messaggio chiaro: esiste un modo “giusto” di stare al mondo.

Con il tempo, questa funzione educativa non scompare ma si trasforma. Nei secoli successivi, opere come I proverbi fiamminghi (1559) di Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569) mostrano comportamenti umani attraverso scene quotidiane e spesso ironiche. L’osservatore riconosce vizi, errori e assurdità della vita comune. L’arte non impone più solo un modello ideale, ma invita a riflettere su sé stessi attraverso il riconoscimento.

Dalle immagini del passato a quelle di oggi

Se ci fermiamo a guardare, il meccanismo non è poi così distante da quello che viviamo oggi. Anche nel presente impariamo molto senza rendercene conto, attraverso immagini che scorrono davanti ai nostri occhi ogni giorno. Video brevi, post, storie, contenuti educativi o motivazionali costruiscono modelli di comportamento, di successo, di accettabilità sociale.

Come gli affreschi medievali o le allegorie rinascimentali, anche queste immagini non spiegano con regole scritte. Mostrano esempi, ripetono schemi, premiano atteggiamenti. Cambia il mezzo, ma non il potere formativo dell’immagine.

Capire che l’arte del passato insegnava come comportarsi ci aiuta a leggere con più consapevolezza il presente. Le immagini non sono mai neutre. Educano, influenzano, modellano.

Forse la differenza più grande non è tra ieri e oggi, ma nel nostro livello di attenzione. Un tempo sapevamo che quelle immagini servivano a educare. Oggi spesso dimentichiamo di chiederci cosa ci stanno insegnando e, per questo, le immagini stesse vengono depauperate del loro valore educativo. 

Ogni immagine educa. La vera domanda è: a cosa?

 

giovedì 18 dicembre 2025

LA PACE NON E' UN'UTOPIA

 


No al riarmo, 

si risveglino le coscienze


Il messaggio di Leone XIV per la 59.ma Giornata mondiale della pace sul tema “La pace sia con tutti voi. Verso una pace disarmata e disarmante”. Dal Pontefice una vigorosa denuncia contro la corsa al riarmo in atto nel mondo con le spese militari aumentate nel 2024 del 9,4% rispetto all’anno prima. Poi l'invito ai credenti a vigilare sulla strumentalizzazione della religione per benedire il nazionalismo, la guerra e le lotta armata: "Blasfemia che oscura il nome di Dio"

Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano

È una pace “disarmata e disarmante”, una pace “umile e perseverante”, quella che Papa Leone implora per questo mondo in cui per raggiungere la stessa pace si fa la guerra; in cui “si arriva a considerare una colpa” il fatto che non ci si prepari abbastanza “a reagire agli attacchi” e “a rispondere alle violenze”. Un mondo in cui le spese militari sono aumentate del 9,4%; in cui il rapporto tra i popoli è basato su paura e dominio; in cui si benedice il nazionalismo e si giustifica “religiosamente la violenza e la lotta armata”.

Un’analisi cruda nel suo realismo ma al contempo confortante per la speranza che la permea, quella di Leone XIV nel messaggio per la 59.ma Giornata mondiale della pace che ricorre il prossimo 1° gennaio 2026, pubblicato questa mattina. La pace sia con tutti voi. Verso una pace disarmata e disarmante è il tema scelto dal Pontefice statunitense per il documento. Ovvero le prime parole con cui lui, Robert Francis Prevost, si è presentato al mondo sette mesi fa dalla Loggia delle Benedizioni.

Fin dalla sera della mia elezione a Vescovo di Roma, ho voluto inserire il mio saluto in questo corale annuncio. E desidero ribadirlo: questa è la pace del Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente

LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE DEL MESSAGGIO DI PAPA LEONE XIV PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 2026

Trasformare pensieri e parole in armi

L’importanza della comunicazione è uno dei fili conduttori del messaggio in cui Leone esorta i credenti a vigilare “sul crescente tentativo di trasformare in armi persino i pensieri e le parole”. “Le grandi tradizioni spirituali, così come il retto uso della ragione, ci fanno andare oltre i legami di sangue o etnici, oltre quelle fratellanze che riconoscono solo chi è simile e respingono chi è diverso”, scrive il Papa. Tutto questo non è scontato oggi, in un tempo in cui si tende a “trascinare le parole della fede nel combattimento politico, benedire il nazionalismo e giustificare religiosamente la violenza e la lotta armata”.

I credenti devono smentire attivamente, anzitutto con la vita, queste forme di blasfemia che oscurano il Nome Santo di Dio

La pace non è un'utopia

Insieme all’azione, il Papa chiede di “coltivare la preghiera, la spiritualità, il dialogo ecumenico e interreligioso come vie di pace e linguaggi dell’incontro fra tradizioni e culture”. Mediante “una creatività pastorale attenta e generativa”, occorre “mostrare che la pace non è un’utopia”. Infatti “quando trattiamo la pace come un ideale lontano”, finiamo per “non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace”.

Sembrano mancare le idee giuste, le frasi soppesate, la capacità di dire che la pace è vicina. Se la pace non è una realtà sperimentata e da custodire e da coltivare, l’aggressività si diffonde nella vita domestica e in quella pubblica

La via "disarmante" della diplomazia e della mediazione

Importante, da questo punto di vista, anche la dimensione politica. Il Papa interpella quanti sono chiamati a responsabilità pubbliche nelle “sedi più alte e qualificate”, perché “considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti”.

È la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale, smentita purtroppo da sempre più frequenti violazioni di accordi faticosamente raggiunti, in un contesto che richiederebbe non la delegittimazione, ma piuttosto il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali

Oltre il principio della legittima difesa

Più nel dettaglio, Leone XIV osserva come “nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze”. È una logica “contrappositiva” che va “molto al di là del principio di legittima difesa” e sul piano politico alimenta la “destabilizzazione planetaria” che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità. “Non a caso, i ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui”, evidenzia il Papa.

La forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza

L'appello della Pacem in terris

Per corroborare il suo pensiero, Leone XIV cita Giovanni XXIII e la Pacem in Terris. Già sessant’anni fa, Roncalli ammoniva che “gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile” e che, con le armi in circolo, “non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico”.

Aumento delle armi

Proprio le armi, annota Leone XIV, hanno visto un aumento a livello mondiale nella loro produzione e commercio nel corso del 2024 del 9,4% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale. “Oggi alle nuove sfide pare si voglia rispondere, oltre che con l’enorme sforzo economico per il riarmo, con un riallineamento delle politiche educative”, sottolinea il Papa, puntando il dito contro le “campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza”.

I pericoli delle "macchine"

Torna in tal senso l’appello dei Padri del Concilio nella costituzione conciliare Gaudium et spes che mettevano in guardia dal rischio dell’uso delle più moderne armi scientifiche per compiere delitti e prendere atroci decisioni, e scongiurava “i governanti e i supremi comandanti militari” a considerare “l’enorme peso della loro responsabilità”. Leone XIV rilancia queste parole, a fronte anche dell’“ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati”.

Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente “delegare” alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane. È una spirale distruttiva, senza precedenti, dell’umanesimo giuridico e filosofico su cui poggia e da cui è custodita qualsiasi civiltà

“Occorre denunciare le enormi concentrazioni di interessi economici e finanziari privati che vanno sospingendo gli Stati in questa direzione; ma ciò non basta, se contemporaneamente non viene favorito il risveglio delle coscienze e del pensiero critico”, sottolinea ancora il Vescovo di Roma.

Non distruggere ponti, insistere su dialogo e ascolto

In questo scenario, non bisogna tuttavia dimenticare l’importanza del dialogo, che significa non distruggere i “ponti” e non insistere “col registro del rimprovero” ma piuttosto privilegiare “la via dell’ascolto” e, per quanto possibile, “dell’incontro con le ragioni altrui”. Un insegnamento, questo, mutuato da Sant’Agostino, secondo il quale: “Chi ama veramente la pace ama anche i nemici della pace”.

La pace esiste, vuole abitarci, ha il mite potere di illuminare e allargare l’intelligenza, resiste alla violenza e la vince. La pace ha il respiro dell’eterno: mentre al male si grida “basta”, alla pace si sussurra “per sempre”

Gli operatori di pace, sentinelle nella notte

Il Papa rivolge infine un pensiero agli operatori e alle operatrici di pace che, “nel dramma di quella che Papa Francesco ha definito ‘terza guerra mondiale a pezzi’, ancora resistono alla contaminazione delle tenebre, come sentinelle nella notte”. “Apriamoci alla pace!”, è l’esortazione di Leone XIV, “accogliamola e riconosciamola, piuttosto che considerarla lontana e impossibile. Prima di essere una meta, la pace è una presenza e un cammino. Seppure contrastata sia dentro sia fuori di noi, come una piccola fiamma minacciata dalla tempesta, custodiamola senza dimenticare i nomi e le storie di chi ce l’ha testimoniata”.

Anche nei luoghi in cui rimangono soltanto macerie e dove la disperazione sembra inevitabile, proprio oggi troviamo chi non ha dimenticato la pace

Testimoni e profeti di una pace disarmata

A conclusione del suo messaggio Leone interpella i cristiani perché, “memori delle tragedie di cui troppe volte si sono resi complici”, si facciano “profeticamente testimoni” della pace di Cristo risorto che “è disarmata, perché disarmata fu la sua lotta, entro precise circostanze storiche, politiche, sociali”. Tutti i cristiani sono chiamati ad “agire con misericordia” e a prendere esempio da quei fratelli e sorelle che “hanno saputo ascoltare il dolore altrui e si sono interiormente liberati dall’inganno della violenza”.

“Unire gli sforzi per contribuire a vicenda a una pace disarmante, una pace che nasce dall’apertura e dall’umiltà evangelica”, è l’invito conclusivo del messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2026.

Avviare in sé stessi quel disarmo del cuore, della mente e della vita cui Dio non tarderà a rispondere adempiendo le sue promesse

 

Vaatican News

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