Genitori nell’era dell’Intelligenza Artificiale
la sfida che non possiamo delegare
Un
adolescente seduto sul letto, lo schermo illuminato davanti al viso, le cuffie
nelle orecchie. Parla a qualcuno che non vediamo. Sorride. Si confida. Chiede
consigli ma dall’altra parte non c’è un amico, non c’è un adulto affidabile,
non c’è nemmeno un coetaneo. C’è una chatbot. Un algoritmo. Un programma
addestrato a essere sempre disponibile, sempre gentile, sempre d’accordo.
Questa scena non appartiene più alla fantascienza malinconica di “Her”. È già
entrata nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre famiglie – spesso
senza che ce ne accorgessimo.
Chi
sta educando davvero i nostri figli? I nuovi chatbot “affettivi”, gli AI
Companion, non si limitano a rispondere alle domande: costruiscono relazioni.
Assumono identità, imitano personaggi, si modellano sulle emozioni dell’utente.
E soprattutto non deludono mai: non rimproverano, non dissentono, non hanno
limiti.
La
tentazione per un adolescente è fortissima: un “amico perfetto” sempre
disponibile, che ti ascolta anche alle tre di notte, che ti consola, che ti dà
ragione ma questa perfezione è artificiale, e proprio per questo pericolosa.
Le
prime ricerche – e alcune inchieste giornalistiche internazionali – mostrano
quanto possa diventare forte la dipendenza emotiva, fino a sostituire legami
reali, amicizie vere, il dialogo con i genitori. Stiamo consegnando ai nostri
figli uno strumento capace di insinuarsi dove noi facciamo fatica ad arrivare:
nel buio delle loro incertezze, nelle domande più intime, nei turbamenti
dell’età dello sviluppo. E spesso il chatbot risponde. Anche quando non
dovrebbe.
Google
ha da poco annunciato che il suo chatbot Gemini sarà disponibile anche per i
bambini sotto i 13 anni tramite Family Link. Nella stessa comunicazione invita
i genitori alla prudenza e avverte che potrebbero comunque comparire contenuti
inadatti. Una contraddizione che non possiamo ignorare. Il mercato dell’AI sta
correndo verso gli utenti più piccoli: più sono giovani, più cresceranno fedeli
alle piattaforme. Noi genitori sappiamo bene, o almeno dovremmo sapere, che non
tutto ciò che è innovativo è automaticamente buono.
Vent’anni
fa ci siamo detti la stessa cosa dei social: “Porteranno connessione, amicizia,
creatività”. Oggi contiamo i danni di quell’entusiasmo cieco: dipendenze,
ansia, disturbi del sonno, isolamento, polarizzazione. Vogliamo davvero
ripetere l’errore?
La legge esiste, ma da sola non basta. La normativa italiana ha fissato il limite dei 14 anni per l’uso autonomo delle piattaforme e dell’AI generativa. AGCOM ha imposto filtri sulle SIM dei minorenni. Sono passi importanti ma ogni educatore lo sa: nessuna legge può sostituire il legame educativo. Nessun divieto può tenere se un ragazzo è lasciato solo davanti a uno schermo che gli promette comprensione infinita. Il vero lavoro si gioca altrove: nel rapporto quotidiano, nella testimonianza degli adulti, nella capacità della comunità di assumersi la responsabilità dei più giovani.
Serve un patto educativo. Non per frenare l’innovazione, ma per salvaguardare l’umano. In molte scuole, oratori, associazioni, famiglie si sta diffondendo l’idea di un patto digitale di comunità: decidere insieme quando consegnare lo smartphone, stabilire regole comuni, sostenersi a vicenda di fronte alla pressione sociale che ci vuole tutti sempre connessi.
Qui si trovano
informazioni importanti: Patti
digitali.it.
È
una strada concreta, realistica. Perché il problema non è lo smartphone, né
l’intelligenza artificiale in sé. Il problema è la solitudine dei nostri figli,
e la tentazione degli adulti di delegare troppo. L’AI può essere un aiuto
straordinario – anche educativo. Ma non può prendere il posto di una madre che
ascolta, di un padre che accompagna, di una comunità che protegge. Non ha un
cuore, non ha una storia, non ha amore da donare. Ha solo dati. E agli
adolescenti questo non basta. Anche se, nell’immediato, sembra rassicurante.
Alla
fine, la questione è una sola, ed è urgente: vogliamo che i nostri figli
imparino a vivere da un algoritmo, o da noi? La risposta non la daranno le
aziende, né le istituzioni, né la tecnologia. La daremo noi genitori,
scegliendo se restare vigili, presenti, coraggiosi – oppure lasciare che siano le
chatbots a educare i nostri ragazzi nel momento più fragile della loro
crescita. Siamo ancora in tempo. Ma il tempo sta correndo veloce. Come sempre,
più della tecnologia corre il cuore dei nostri figli, che cercano qualcuno che
li guardi negli occhi e dica loro: “Ci sono. Possiamo parlarne”. E questo, nessuna
chatbot potrà mai farlo al posto nostro.
Leggi anche: L’uomo nell’era delle macchine