In un articolo su «La Stampa» del 9 novembre scorso Vito Mancuso ha riassunto la tesi fondamentale del suo ultimo, ponderoso volume, intitolato Gesù e Cristo, edito da Gazanti. Dove la “e” non accentata indica il fatto che, per lui, «Gesù e Cristo sono due personaggi diversi».
-di Giuseppe Savagnone
Gesù
e Cristo: due figure parallele?
Su
questa diversità l’autore insiste: «Gesù è un nome ebreo; Cristo è un nome
greco. Ma non è solo una questione di nomi»: «Gesù nacque a Nazareth; Cristo a
Betlemme. Gesù aveva un padre terreno; Cristo era il Figlio unigenito del Padre
celeste. Gesù aveva quattro fratelli e un numero imprecisato di sorelle; Cristo
era figlio unico. Gesù ebbe come maestro Giovanni il Battista; Cristo era
cugino del Battista e non aveva bisogno di nessun maestro. Gesù non si capisce
senza il Battista; Cristo non si capisce senza Pietro e senza Paolo».
I
personaggi in questione, secondo Mancuso, avrebbero avuto una fortuna molto
diversa: «Di Gesù ben pochi parlano e coltivano la spiritualità; di Cristo ogni
giorno sulla terra si proclama la natura divina». Il primo diede vita a una
fede che «tramontò ben presto rimanendo pressoché sconosciuta», mentre il
secondo è stato al centro di una religione, «fondata successivamente dai suoi
discepoli, tra i quali emergono Pietro di Betsàida e Paolo di Tarso», che «ebbe
un successo mondiale divenendo la più diffusa del pianeta».
Per
la ricerca storica, Gesù era un profeta escatologico-apocalittico e un
guaritore, che predicava un messaggio di giustizia destinato a realizzarsi con
l’imminente avvento del regno di Dio e che fu messo a morte dalle autorità
politiche e religiose, timorose di possibili conseguenze sediziose. Per la
fede, Cristo è il Crocifisso-Risorto, Figlio di Dio, «generato, non
creato, della stessa sostanza del Padre».
«Gesù
è storia, Cristo è idea». L’intento di Mancuso è di recuperare il primo, ma non
per negare il secondo, bensì per ricollocarlo in una prospettiva –
inevitabilmente diversa da quella della Chiesa ufficiale – «che torni a essere
accettabile per la coscienza contemporanea», sempre più lontana dal
cristianesimo tradizionale.
Tuttavia,
come Mancuso ha precisato in una intervista, lo stesso giorno, al «Corriere
della Sera», non si tratta di opporre Gesù e Cristo, perché di entrambi abbiamo
bisogno, ma di «distinguere per poi unire a un livello più alto» .
Ma
l’idea di cui il Gesù della storia può essere considerato portatore non è, come
nel cristianesimo che conosciamo, l’incarnazione di un Dio che entra nella
storia, in un tempo e in un luogo determinati, per redimere il mondo. In questo
neo-cristianesimo, secondo Mancuso, «non è un evento storico a costituire uno
spartiacque prima del quale le cose erano in un modo e dopo del quale le cose
sono mutate in un modo tutto diverso, a cui è necessario credere e partecipare
per potersi salvare».
Per
«la salvezza senza redenzione» che la nuova religione proporrebbe «il mezzo
salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata
e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna (…). Cristo non è colui
che salva perché ha offerto il suo corpo sulla croce con un sacrificio, con il
suo sangue, con l’espiazione del peccato originale, ma è colui che salva nella
misura in cui aderiamo a questa logica eterna che da sempre accompagna il mondo
e che il lui si è manifestata».
Di
questa logica eterna, secondo Mancuso, è espressione non solo il vangelo, ma
tutta la grande tradizione spirituale dell’umanità. Come, per esempio, il
capitolo 125 del Libro dei morti dell’Antico Egitto, scritto 1.500 anni prima del
vangelo di Matteo in cui si legge un identico messaggio: «Ho onorato Dio con
ciò che egli ama. Ho dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, una
veste all’ignudo e una barca a chi non l’aveva».
Questo
non significa che la religione debba essere ridotta all’etica. «La forza del
cristianesimo deve essere la sua capacità di tornare a ripresentarsi come
teoria della salvezza e come teoria delle cose ultime, come contatto, comunione
con l’eterno».
L’appello
del Gesù rivoluzionario effettivamente esistito nella storia ha bisogno
del fondamento trascendente e universale, radicato nel mistero,
offerto dalla fede nel Cristo dalla Chiesa primitiva.
L’incarnazione
Alla
radice di questa posizione c’è un’idea dell’incarnazione e della
stessa trascendenza di Dio diversa da quella. Lo ha chiarito lo
stesso Mancuso presentando il suo libro al Palazzo Ducale di Genova. Alla
domanda se Gesù fosse solo un uomo o anche Dio, ha risposto: «Era sia
uomo che Dio, ma bisogna capire cosa si intende con questa espressione. Tra
umanità e divinità non c’è un fossato invalicabile. Come dicono le grandi
religioni, noi dobbiamo arrivare a sentire questa identità che sta tra il
mistero divino e il mistero umano, quindi sì, Gesù era il figlio di Dio ma non
era l’unico, sono convinto che anche qui in questa sala ce ne sono, perché il
divino non è “altro” rispetto all’umano, ma piuttosto la perfezione dell’umano.
Gesù ha portato a compimento la missione di essere a immagine e somiglianza di
Dio».
Il
post-teismo di Paolo Gamberini
Non
possono non venire in mente le tesi care al filone del post-teismo, per esempio
a quelle di Paolo Gamberini, il quale, nel suo lodevole sforzo di «ripensare il
cristianesimo oggi», ha rimesso in discussione il modo tradizionale di
concepire il rapporto tra Dio e il mondo. In un articolo su «Settimana
News» dello scorso 30 agosto e nella risposta alle obiezioni, il noto
teologo prende atto che «il concilio di Nicea ha voluto “decidere” della
distinzione tra creatio ex nihilo e generatio de
substantia Dei patris (homoousia), definendo Cristo, a
differenza delle creature, «generato, non creato», ma, in questo modo, «ha
introdotto un’epocale scissione (decisione) tra Dio e mondo. L’uomo Gesù
è stato isolato dalle altre creature, per riconoscerne così la sua divinità. Il
risultato è che il Dio è stato pensato “senza” la
creatura».
Per
rimediare a questa unilaterale separazione, Gamberini propone di superare la
contrapposizione tra “generazione” e “creazione”. Per lui, anche «iI
mondo è stato creato dall’essenza divina (ex essentia dei). Il Figlio
dipende dal Padre, così come il mondo da Dio». In questo senso, l’universo
creato fa parte necessariamente di Dio, esattamente come il Figlio in cui
sussiste. «Riconoscere che il mondo è “da Dio” e “sussiste” nel Logos significa
affermare che l’essere del mondo non è altro da Dio, ma è lo stesso essere in
modo differente: assoluto “il Dio” e relativo “il mondo”». «Dio e
mondo sono i due modi con cui la sostanza divina (θεός) si definisce. Il
modo “infinito” della sostanza è il Dio (ὁ θεός). Il modo
“finito” della sostanza è la creatura».
A
questo punto, evidentemente, appare superata l’idea – su cui tutto il vangelo e
la tradizione ebraico-cristiana sono fondati – di un Dio trascendente che
crea il mondo con un atto libero e potrebbe esistere anche senza di esso. Da
qui la domanda retorica «Il teismo è l’unica forma di cristianesimo possibile?
Il teismo è l’unica e sola forma della fede cristiana?».
Ma
da questo superamento del teismo deriva un altro modo di intendere anche
l’incarnazione: «Il Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività
dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato. Se da un lato si
afferma che “questo” Gesù è Logos, si deve affermare anche che tutto ciò con
cui questo Gesù è collegato (carne della sua carne!) è assunto dal Verbo. La
grammatica ipostatica (Gesù è il Logos) indica un’identificazione che non si
ferma a questo Gesù ma al creato intero. Questa è la dimensione cosmica
dell’incarnazione».
È
evidente la convergenza con la posizione di Mancuso. Anche per Gamberini Gesù
non è il Logos incarnato, ma solo una sua manifestazione tra le tante che
costellano il mondo e l’umanità.
Due
considerazioni
Non
è questa, evidentemente, la sede per una puntuale analisi critica di queste
posizioni, che peraltro richiederebbe un confronto diretto con i testi, di
cui qui abbiamo riportato solo le sintesi essenziali fatte dai loro autori.
Possiamo, però, basandoci su queste ultime, fare alcune considerazioni.
La
prima è che all’origine dell’esigenza di un neo-cristianesimo stanno la sincera
preoccupazione per la progressiva scristianizzazione dell’Occidente e la giusta
esigenza di dare della tradizione cristiana una versione più vicina alla
sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Meritano dunque attenzione e
rispetto tutti i tentativi fatti in questa direzione.
E
tuttavia c’è da chiedersi – e questa è la seconda considerazione – se quello
che resta, dopo l’eliminazione della divinità di Gesù e, più a monte, dello
stesso Dio Padre a cui Gesù si rivolge come a una Persona trascendente, si
possa ancora considerare “cristianesimo”. In questa rilettura verrebbe meno,
infatti, l’annuncio centrale che costituisce l’originalità di questa religione
rispetto a tutte le altre, e cioè l’incarnazione, che da un lato suppone un Dio
radicalmente “altro” rispetto al mondo, dall’altro afferma che questo Dio
ha scelto, per un atto d’amore, di entrare nella storia, facendosi Egli
stesso uomo, per scendere fin negli abissi più profondi del male e
redimerlo con il suo sacrificio.
Privata
di questo, la “nuova” religione annunciata da Mancuso e da Gamberini assomiglia
molto, in realtà, a tante altre che considerano Gesù, al pari di
Buddha, di Confucio e di tutti i grandi spiriti della storia, come maestri di
saggezza, in cui si esprime una divinità che non è “Qualcuno”, ma “Qualcosa”, e
che pervade tutto.
Ciò
è particolarmente evidente nella interpretazione di Mancuso. A dire il vero la
contrapposizione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede risale a una
celebre conferenza di Martin Käler, nel 1892. E da allora essa ha costituito il
filo conduttore di tute le interpretazioni dell’evento cristiano,
segnata da un’alternanza tra chi ha privilegiato Gesù, il personaggio
storico, rispetto al Cristo , l’idea, e chi ha fatto il contrario . Ciò
che costituisce l’originalità della posizione di Mancuso è che egli si
propone di tenere insieme le due figure.
È
ciò che egli chiama «distinguere per unire a un livello più alto». Solo che la
distinzione si dà tra aspetti di una stessa realtà – sono distinti il colore di
un oggetto e la sua larghezza – ed è stata già ampiamente utilizzata dalla
teologia per parlare di Gesù al tempo stesso come uomo e come Figlio di Dio.
Quello che Mancuso propone, invece, è di distribuire queste
caratteristiche su due personaggi diversi, radicalmente separati l’uno
dall’altro, e spesso contrapposti l’uno all’altro. La sua, perciò, non è una
distinzione, ma una separazione. E a questo punto unire le due figure diventa
una somma arbitraria di realtà differenti.
Che
rapporto ci può essere tra il profeta-guaritore, estraneo ad ogni figliolanza
divina, effettivamente esistito, e il Risorto frutto solo della fede
dalla comunità cristiana? A renderlo impossibile è la stessa
separazione a priori, fatta dall’autore, tra una dimensione storica
che esclude la compenetrazione col trascendente e una trascendenza che non può
essere cercata nella storia.
Se
poi, in nome della «identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano»,
la divinità di Cristo si riduce a un’apertura all’universalità di una legge
morale, di cui ogni essere umano può essere rappresentante quanto Gesù, la
Buona Notizia che Dio, Dio in persona, si è fatto uomo, assumendo la nostra
vita in ogni suo aspetto, viene definitivamente vanificata.
È
veramente questo che può restituire al cristianesimo il suo fascino agli
occhi dei nostri contemporanei? Eliminare la scandalo dell’incarnazione della
crocifissione – ma anche della resurrezione – di Dio, banalizzando il vangelo
come un messaggio di giustizia e un’apertura generica al mistero forse lo
renderebbe più gradito perché più inoffensivo, ma non certo più interessante.
Soprattutto, al di là del gradimento o meno di cui sarebbe oggetto, lo
svuoterebbe della sua carica rivoluzionaria, quella che duemila anni fa ha
provocato la reazione dei contemporanei di Gesù, decisi a lapidarlo, gli
dissero, «perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33).
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