mercoledì 19 novembre 2025

I. A. SAGGEZZA E DEMOCRAZIA

 

Immagine che contiene testo, schermata, elmetto, maschera antigas

Il contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.

«Nell’IA va prevista la saggezza by design»

 

De Caro e Giovanola nel loro saggio “Intelligenze” propongono un approccio basato sull’etica della virtù per le macchine e chi interagisce con esse Privacy, equità, opacità del funzionamento, problemi per sicurezza e occupazione.

Sono tante le questioni cruciali poste alle politiche pubbliche, che chiedono risposte

De Caro: «Il rischio, più che esistenziale, è che amplifichi crisi e disinformazione»

Giovanola: «La sfida non è tanto capire come i sistemi ci trasformino, ma l’influenza reciproca.

 E valutare l’impatto sulla democrazia»

 

-di ANDREA LAVAZZA


Il futuro con l’intelligenza artificiale è roseo o cupo? La domanda è ormai all’ordine del giorno e le risposte che vengono proposte variano lungo un ampio spettro. Spesso, tuttavia, sono poco meditate, quando non improvvisate. Un volume appena pubblicato ha il pregio di provare a indagare con competenza, chiarezza e concisione l’IA come possibile soggetto etico e come fattore capace di trasformare il nostro agire. Si tratta del lavoro di Mario De Caro e Benedetta Giovanola, Intelligenze. Etica e politica dell’IA (il Mulino, pagine 174, euro 18,00). Abbiamo dialogato con gli autori, rispettivamente professore di Filosofia morale all’Università Roma Tre e alla Tufts University di Boston, e professoressa di Filosofia morale all’Università di Macerata e titolare della Cattedra Jean Monnet EDIT.

Un tema cruciale per i nuovi sistemi di IA, ma anche un’affascinante questione filosofica, è la comprensione che essi hanno del linguaggio naturale. I chatbot capiscono davvero? Che cosa sappiamo oggi e quali sarebbero le implicazioni di una risposta affermativa? De Caro: «Oggi c’è forte disaccordo sull’idea che i chatbot, come ChatGPT, Gemini, Claude, DeepSeek e così via, comprendano il linguaggio. Non c’è dubbio che passino il test di Turing ovvero, linguisticamente si comportano come ci comporteremmo noi -, ma per molti ciò non basta: la “comprensione” resta dunque in questione. Secondo l’esperimento mentale della “Stanza cinese” di John Searle, appena scomparso, i sistemi artificiali non fanno altro che manipolare simboli, imitando la nostra comprensione ma senza mai acquisirla veramente. Però altri (da Steven Pinker a Daniel Dennett, da Paul e Patricia Churchland a Ned Block) hanno argomentato che non c’è ragione per ritenere che la comprensione non possa emergere anche da basi non biologiche. Gli LLM apprendono da grandi corpora e da input multimodali e costruiscono efficaci modelli operativi del mondo, pur con limiti (come le allucinazioni, che tuttavia vanno diminuendo man mano che i modelli si affinano). Infine, nel libro sosteniamo che gli argomenti secondo cui ChatGPT & Co. sarebbero meri “pappagalli stocastici” non sono molto convincenti. In sintesi, se si ritiene che la comprensione richieda la coscienza - tesi su cui molti non sono d’accordo e nemmeno noi-, allora l’IA non può comprendere. In ogni caso, non è controverso che oggi si possa già parlare di comprensione funzionale, parziale e distribuita da parte dei sistemi artificiali».

L’intelligenza artificiale intesa come strumento solleva molti interrogativi etici in senso pieno, dalla privacy all’uguaglianza di opportunità. Qual è il problema emergente o ancora sottovalutato cui dovremmo prestare più attenzione?

Giovanola: «Un problema ancora sottovalutato, che però richiede grande attenzione, è quanto e come l’IA trasformi il nostro agire e le nostre capacità epistemiche: spesso il dibattito – anche pubblico – è impostato su presunte somiglianze o differenze tra l’intelligenza artificiale e l’intelligenza umana. Questa impostazione devia l’attenzione dalla vera sfida, ovvero comprendere come esseri umani e sistemi di IA possono interagire in modo proficuo, poiché l’essere umano, da sempre, trasforma il mondo che lo circonda ma, al contempo, trasforma se stesso attraverso ciò che produce. Inoltre, non comprendere questa relazione di reciproca influenza offusca un problema centrale e, al contempo, emergente: l’impatto dell’IA – dai sistemi di raccomandazione fino all’IA generativa – sulle nostre capacità cognitive ed epistemiche, ovvero sulla nostra fiducia nelle nostre capacità di comprendere il mondo, di distinguere vero e falso, di sapere scegliere cosa è bene per noi e per la società in cui viviamo».

Accostare l’IA alla politica costituisce una novità. Nel libro si esplorano i rischi, che appaiono concreti. Ma recenti sviluppi, come algoritmi per guidare i dibattiti e capaci di ridurre gli estremismi mostrando agli interlocutori diversi punti di vista, sembrano aprire scenari di ottimismo. Che bilancio si può fare?

Giovanola: « La teoria politica dell’IA è un campo emergente: troppo spesso si tende a ritenere l’IA un ambito politicamente neutrale, una questione solo o soprattutto tecnologica, caratterizzata da uno sviluppo inarrestabile, che sfugge a ogni tipo di controllo. Bisogna comprendere, invece, che l’IA è, oggi più che mai, una questione politica, che va gestita e governata. Di certo affidarsi all’ethics by design – garantendo, ad esempio, che gli algoritmi operino in direzione della diversificazione dei punti di vista piuttosto che dell’estremizzazione – è importante, ma da sola non può risolvere il problema. Occorre indagare le strutture di potere nella governance dell’IA e la legittimità di chi decide; bisogna riflettere sui rapporti tra attori privati (detentori dei dati e dell’infrastruttura tecnologica) e poteri pubblici; è, infine, necessario valutare l’impatto dell’IA sulla democrazia: rischi di influenza o manipolazione che sfruttano vulnerabilità cognitive ed emotive possono minare l’eguaglianza politica, sociale e morale».

Rendere “etici” fin dall’origine i sistemi di intelligenza artificiale sembra la via preferibile per scongiurare conseguenze negative del loro uso massiccio. Vi sono però problemi teorici prima ancora che tecnici. Potete riassumere la vostra originale proposta?

Giovanola: « La nostra proposta parte dal riconoscimento di un parallelismo tra l’evoluzione dei sistemi di IA e le trasformazioni dell’etica. I sistemi di IA si sono evoluti in direzione di modelli bottom-up o “post-simbolici”, che utilizzando le reti neurali artificiali si basano sull’apprendimento dai dati, sulla predizione, sul riconoscimento di pattern e su rappresentazioni contestuali del significato. Parallelamente, l’etica è passata da concezioni “generaliste” basate su principi generali, regole o leggi universali, ad approcci “contestualisti”, che sottolineano piuttosto l’importanza di comprendere le circostanze particolari in cui compiamo le nostre azioni. Muovendo da questo parallelismo, proponiamo di adottare la cosiddetta “etica della virtù”, un approccio contestualistico che consente sia di progettare sistemi di IA “saggi” by design (cioè fin dall’inizio, dalla progettazione) sia di promuovere la saggezza morale in coloro che interagiscono con tali sistemi».

Il pericolo esistenziale proveniente dall’intelligenza artificiale sembrerebbe lontano, eppure nel libro lo discutete all’inizio. Dovremmo essere già oggi preoccupati? Che tipo di scenari si possono ipotizzare?

De Caro: « Recentemente, una lettera di trecento luminari – tra cui dieci premi Nobel, inclusi Giorgio Parisi e Geoffrey Hinton, uno dei padri delle reti neurali artificiali – ha prospettato il rischio esistenziale con parole molto preoccupate (e preoccupanti): “L’IA ha un immenso potenziale per migliorare il benessere umano, ma la sua traiettoria attuale presenta pericoli senza precedenti. L’IA potrebbe presto superare di gran lunga le capacità umane e amplificare rischi quali pandemie ingegnerizzate, disinformazione su vasta scala, manipolazione massiva degli individui, compresi i bambini, problemi di sicurezza nazionale e internazionale, disoccupazione di massa e violazioni sistematiche dei diritti umani”. Data la diffusione capillare dell’IA, imporre vincoli etici ai sistemi artificiali è una sfida ardua ma non impossibile, indipendentemente dalla possibilità di ottenere la tanto discussa Intelligenza Artificiale Generale. È bene sottolineare, però, che, oltre a schiudere prospettive luminose in molti ambiti — a partire dalla medicina —, l’IA pone sfide più specifiche, oltre a quella esistenziale generale. Nel nostro libro, parliamo dei rischi riguardanti l’autonomia, la privacy, l’equità, la sostenibilità ambientale e sociale, oltre che del cosiddetto problema della explainability, ossia l’opacità del funzionamento dei sistemi artificiali. Inoltre, come detto, non vanno sottovalutati i rischi che la loro rapida ascesa comporta per la tenuta stessa dei meccanismi democratici».

Forse, più che macchine che ci distruggano volontariamente, dovremmo temere macchine intelligenti/ stupide che faranno tutto il nostro lavoro lasciandoci disoccupati, sufficientemente ricchi e senza scopi nell’esistenza. Cosa ne pensate?

De Caro: « Il rischio esistenziale posto dall’IA è presente – a prescindere dalla possibilità che essa diventi cosciente o “intelligente” in senso forte – proprio per la diffusione capillare che essa ha in ogni ambito della nostra vita. Il rischio di disoccupazione è reale e richiederà politiche pubbliche incisive e innovative. Più remoto ci pare, invece, il rischio di smarrire gli scopi dell’esistenza: nella storia, i valori etici e culturali hanno già attraversato e superato crisi profonde. Resta invece assai problematica l’idea che l’IA ci renda “sufficientemente ricchi”: il costante aumento dell’indice di Gini, che misura la disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, indica che la crescita – in buona parte provocata proprio dall’avvento della nuova IA – si va sempre più concentrando soprattutto ai piani alti, con un incremento sproporzionato delle risorse dei super- ricchi. Il problema dell’equità sociale ed economica sarà una delle maggiori sfide dei prossimi anni».

 www.avvenire.it

 

FAMIGLIE E CONTEMPORANEITA'

 


IL FRAGILE DOMANI

 Le famiglie alla prova

 della contemporaneità

CISF Family Report 2025 



 SINTESI DELLA RICERCA

Il tema del CISF Family Report 2025 ha come focus il benessere psicologico e relazionale delle persone e nasce dall’esigenza di chiarire come questo possa essere salvaguardato e protetto nella dialettica tra famiglie e società.

 L’ipotesi di fondo che viene verificata in questa ricerca è che il benessere generale (salute) e psicorelazionale (equilibrio, serenità) di ogni individuo dipende dall’interazione dello stesso (con i suoi punti di forza e debolezze personali) con il contesto familiare e con quello sociale. Il benessere psicologico, insomma, per dirla con le parole dello psichiatra Giovanni Migliarese, che firma il capitolo 4 del Report, deriva strettamente “da un ecosistema, da una rete estremamente interconnessa che integra ambiti differenti, appartenenti a dimensioni quali soggettività, socialità/relazionalità, ambiente di vita (politiche, servizi a supporto, ubiquitarietà della tecnologia e del digitale), bisogni (economici, abitativi, di protezione, di senso). È evidente che in questa rete di connessione la famiglia è un ambito centrale da considerare: rappresenta uno dei principali determinanti sociali della salute mentale, potendosi porre alternativamente sia come fattore favorente il benessere che come fattore di rischio”. 

Il campione

 Questa ricerca – svolta per conto del Cisf dalla società Eumetra - si è avvalsa di un campione di 1.600 soggetti: 43% con figli conviventi, di cui 11% monogenitori;  32,1% famiglie composte da un solo componente;  20,6% coppie senza figli 4,3% altri nuclei (famiglie estese, multigenerazionali, con membri aggiunti…)  *Nell’11,5% delle famiglie qui considerate è inoltre presente una persona con disabilità (più di una famiglia su dieci, un dato decisamente rilevante se si pensa alle funzioni di caregiving delle famiglie).

*È stata poi interpellata, all’interno di queste tipologie familiari, una percentuale pari all’11,3%, di “giovani adulti nella famiglia di origine”: si tratta di rispondenti maggiorenni ancora conviventi coi genitori perché non ancora in una vita indipendente oppure rientrati a vivere coi genitori. • Status socio-economico ed “economie della rinuncia” Rispetto allo status socio-economico, la maggior parte delle famiglie si trova nelle categorie intermedie (medio-basso,45,6% o medio-alto 40,8%), mentre i picchi estremi sono più marginali (8,7% per un alto status; 4,8% con basso status socio-economico). Da notare che il 74,1% dei giovani adulti ancora residenti nella famiglia d’origine si trovano in una condizione di basso o medio-basso status socioeconomico.

È allora interessante notare il tipo di spese che gli intervistati non sono riusciti a sostenere a fronte delle difficoltà economiche riscontrate, che corrisponde in parte anche a una “valutazione di priorità” sulla maggiore o minore essenzialità del prodotto per cui spendere. Spese a cui gli intervistati hanno dovuto rinunciare nell’ultimo anno  Percentuali di colonna - possibili più risposte (le righe non vanno sommate) Spese per il benessere personale e il tempo libero (sport, parrucchiere, cinema, etc.) (N: 1.600) 32,5 Spese per la casa (ristrutturazione, acquisto mobili, riparazioni, etc.) Spese sanitarie 32,4 Vacanze già programmate 18,5 Spese per la gestione dei veicoli (automobile, moto, etc.) 16,9 Acquisto di beni essenziali (cibo, vestiti) 16,6 Internet/ Smartphone/Abbonamenti TV/ digitali 10,9 Attività educative o ricreative per i figli 10,2 Affitto/ mutuo 4,1 2,9 Fonte: CISF Family Report 2025, cap.1 “Parliamo di cose “normali”: sport, gite, cinema, corsi”, scrive la sociologa Sara Nanetti, che firma il capitolo 2 del Report.

“In definitiva, i dati mostrano come le famiglie, pur colpite, continuino a esercitare un ruolo di filtro e protezione, spesso a  costo della propria salute e del proprio benessere, ma tale condizione di affaticamento collettivo rischia di passare inosservata, perché è trasversale rispetto alle configurazioni familiari, non fa scandalo e si distribuisce in modo capillare. Eppure, laddove ogni famiglia rinuncia in silenzio, la società smette di interrogarsi, ed è qui che lo sguardo sociologico è chiamato non tanto a contare i poveri, ma a decostruire il mito della resilienza come virtù obbligatoria, perché chi si adatta sempre, alla fine si piega, e la vera povertà familiare non è riducibile alla mancanza di denaro ma comprende la progressiva erosione delle possibilità di scelta”.

La mappa della salute

Un primo dato rilevante per il benessere delle persone è certamente lo stato di salute. Lo scenario appare abbastanza problematico per una quota non marginale di popolazione: da un lato, poco più di un quarto degli intervistati si sente “in buona salute fisica” (27,7%), e più di un terzo “non ha particolari problemi fisici” (37,1%). Oltre un terzo della popolazione, d’altro lato (35,2%), segnala almeno un problema, con differenti gravità, da condizioni meno rilevanti (assunzione di farmaci, 19,9%), fino a patologie croniche (14,3%) o invalidità certificate (4,5%). Il tema della cura della salute appare quindi molto diffuso. Come prevedibile, la quota di persone con problemi di salute cresce all’aumentare dell’età dei soggetti: sotto i 24 anni la percentuale di chi ha problemi è “solo” il 17,9% (si tratta comunque di un soggetto su cinque), per arrivare a quasi la metà (47,9%) sopra i 65 anni. • Ansia, stress e richieste di aiuto

Una persona su quattro dichiara di aver sperimentato “spesso” ansia e stress nell’ultimo anno (24,9%), e oltre un terzo della popolazione li ha sperimentati con una certa frequenza (“a volte”, 37,3%). Solo l’8% dichiara di non averli sperimentati mai, sempre nell’ultimo anno. I motivi che hanno causato ansia e stress sono eterogenei, e spesso compresenti: dalla salute (il più presente: 45,2%) fino alla solitudine (22,4%) e alle difficoltà relazionali. In qualche caso si riscontrano rilevanti differenze di genere (le donne più preoccupate per salute, soldi e relazioni con i figli, gli uomini per quello che capita al lavoro), in altri non ci sono particolari distanze (gestione del tempo, solitudine/isolamento, relazione di coppia).

Fattori di ansia/stress significativi nell’ultimo anno secondo il sesso dell’intervistato Percentuali di colonna - possibili più risposte (le righe non vanno sommate) Maschio Femmina TOTALE Problemi di salute (personali o di un familiare) 42,2 Problemi economici 48,0 45,2 32,4 36,9 Il bisogno di migliorare il benessere psichico è decisamente sentito: nella globalità del campione, più di 4 persone su 10 hanno ricercato supporto o avrebbero voluto farlo.  Globalmente, il bisogno di supporto per un generico miglioramento del benessere psichico interessa quasi il 45% della popolazione (il 55,7% dichiara di non averne mai avuto bisogno). Di coloro che hanno cercato aiuto, pari al 23,7% del totale, circa i due terzi hanno trovato utile l’intervento specialistico, evidenziando quindi una percentuale non irrilevante di bisogni insoddisfatti. “Per quale motivo si è rivolto a un professionista?” Ansia Depressione 38,6 46,9 Stress 36,8 Problemi relazionali o familiari 30,8 Lutti o eventi traumatici 21,6 Problemi legati alla gestione dei figli 9,9 Dipendenze (alcol, gioco, sostanze) 5,4 Altro 7,4 .V.A. 1.600

Welfare pubblico

Dalla ricerca CISF emergono infine non solo i bisogni della popolazione ma anche le risposte ricevute dal sistema del welfare pubblico. Il numero di persone che si sono rivolte a specialisti deputati alla gestione delle patologie e della sofferenza psichica appare importante: più di una persona su 10 infatti si è rivolta a centri per la salute mentale e circa 5 su 100 ai servizi per le dipendenze. Vi è una tendenza maggiore a rivolgersi ai servizi nelle fasce più giovani della popolazione, mentre persone di età superiore ai 55 anni tendono a non utilizzarli. “Il dato che emerge dalle risposte al questionario descrive una realtà italiana in cui le famiglie si sono trovate, nel corso dell’ultimo anno, a fronteggiare frequentemente una condizione di difficoltà emotiva, caratterizzata prevalentemente da stress e ansia”, sottolinea Giovanni Migliarese nel suo capitolo. “La difficoltà emotiva appare favorita da fattori concreti e cogenti quali difficoltà economiche, problemi lavorativi, problemi di salute personali o dei familiari, il peso di dover gestire un familiare non autosufficiente, la solitudine, difficoltà nella relazione coi figli o con il partner. È un quadro che pertanto conferma lo stretto legame tra aspetti socio-economici e le difficoltà psichiche, e che sottolinea la necessità di una stretta integrazione tra i servizi sanitari e del welfare sociale, in una visione di tutela del benessere psichico che deve essere unitaria”.

Come vedi il futuro? La lente rovesciata famiglia/mondo Strettamente connesse al tema precedente sono le aspettative/ previsioni per il futuro, che possono facilmente pacificare o destabilizzare la condizione di equilibrio e di benessere delle persone, e che possono cambiare anche in funzione dell’ambito a cui ci si riferisce (la propria vita personale, la propria famiglia, il contesto sociale, il futuro globale del mondo…).  Oltre la metà degli intervistati esprime un orientamento decisamente pessimista per il futuro (peggiorerà sia a livello mondiale che per l’Italia, entrambe attorno al 57% delle risposte). Tuttavia, le previsioni per la propria famiglia si presentano molto meno sbilanciate: solo il 19,1% prevede che il futuro per la propria famiglia sarà peggiore, mentre il 56,7% dei casi lo prevede stabile. “Complessivamente pensi che nel futuro la situazione”: Percentuali di colonna (∑=100) a livello mondiale Migliorerà 5,9 in Italia per la tua famiglia rimarrà stabile 7,2 10,9 18,3 23,2 56,7 peggiorerà 57,0 57,2 non so/non ho elementi per fare una previsione/non credo sia possibile fare una previsione 19,1 18,8 12,4 13,3 V.A.

“I soggetti con alta istruzione, prestigio professionale e status familiare elevato esprimono le preoccupazioni più marcate su quasi tutte le dimensioni: crisi economica (7,73), guerre (7,54), solitudine (6,72)”, scrive Sara Nanetti nel suo capitolo. “I dati mostrano come le preoccupazioni più intense non si collocano ai margini della società, ma tra coloro che sono maggiormente integrati, più responsabilizzati e consapevoli, tra le famiglie con figli e le persone con reti relazionali solide e con maggiore istruzione. Sono questi soggetti a percepire con più forza la crisi dei legami, l’inadeguatezza dei servizi, la fragilità delle istituzioni. Le paure, in questo senso, non sono espressione di debolezza individuale, ma indicatori indiretti di una coscienza critica e relazionale del rischio, che merita attenzione. Questo dato sollecita una riflessione ulteriore sulla natura della vulnerabilità contemporanea, che non si configura più (solo) come mancanza, ma anche come una sovraesposizione nei termini di responsabilità e consapevolezza”. • Senza reti: la solitudine come male universale

La solitudine è stata identificata come uno dei principali fattori di sofferenza che vede accrescere la sua portata soprattutto tra i giovani adulti che non hanno nessuno su cui contare. Vivere soli, mangiare soli, sentirsi soli: ogni atto quotidiano si trasforma in vettore di vulnerabilità emotiva, amplificata dall’erosione delle reti sociali primarie. I dati raccolti confermano in modo inequivocabile che la solitudine non è un’esperienza soggettiva marginale, ma un dispositivo strutturale di vulnerabilità che condiziona profondamente il benessere personale. L’indice di isolamento e solitudine, infatti, si correla negativamente con tutte le dimensioni del benessere esaminate. Tra coloro che si collocano nella fascia alta dell’indice, solo il 38,7% si è sentito spesso o sempre allegro, solo il 38,4% ha vissuto esperienze ricorrenti di calma, e solo il 36,8% si è percepito attivo ed energico. Inoltre, la deprivazione relazionale impatta anche sul corpo: meno di un terzo degli isolati si sveglia sentendosi fresco e riposato (31,8%). Benessere soggettivo secondo l’indice di solitudine/isolamento sociale  Percentuali di colonna sul totale di riferimento – le righe non vanno sommate (chi si sente “spesso” o “sempre” nella condizione di benessere soggettivo indicata in riga)   Basso isolamento Medio isolamento Alto  Isolamento Allegro/a e di buon umore 71,9 64,0 TOTALE Calmo/a e rilassato/a 38,7 66,8 63,3 61,7 Attivo/a ed energico/a 38,4 66,5 61,2 59,4 Vita piena di cose interessanti 36,8 68,9 57,4 58,1 Fresco/a e riposato/a al risveglio 36,2 56,5 50,6 57,5 V.A.  31,8 647 48,9 Fonte: CISF Family Report 2025, cap.2 607 

• Il caregiving e il sentirsi sopraffatti 346 1.600 L’innalzamento dell’età in cui si genera il primo figlio comporta necessariamente anche un innalzamento dell’età dei futuri nonni, i quali non riescono più a essere la generazione in grado di aiutare i figli che diventano genitori, ma richiedono, a loro volta, attenzioni di cura.  A fronte di questo, la “generazione sandwich” è fortemente esposta a criticità e rischi. Nel campione dell’indagine CISF 2025 quasi una famiglia con figli su due (il 42,6%) è interessata anche da compiti di caregiving nei confronti di familiari non autosufficienti. Rispetto, invece, all’intero campione, parliamo comunque di una persona su cinque (il 21,7%) che si trova a sperimentare questa impegnativa situazione. Confrontando la condizione di fatica tra caregiving dei fragili e compiti genitoriali, emerge che il primo impegno è decisamente più faticoso, dato che più della metà di queste persone (53,3%) dichiara di sentirsi sopraffatta con più frequenza dalle responsabilità di caregiving, mentre non supera il 40% chi sostiene di essere sopraffatto dalle responsabilità genitoriali.  Livello di stress/sentirsi sopraffatto dai compiti di cura Percentuali di riga Mai Raramente A volte Spesso V.A. Se ti curi di genitori anziani fragili (o altri familiari non autosufficienti), quanto spesso ti senti sopraffatto dalle responsabilità di cura?  24,2 22,4 Quanto spesso ti senti sopraffatto dalle responsabilità genitoriali? 31,4 30,2 23,1 675 28,9 Fonte: CISF Family Report

 • Le fratrie scompaiono, nelle famiglie entrano i pet

 Il figlio unico sta lentamente diventando prevalente nella struttura familiare, anche monogenitoriale: su un totale di 517 famiglie con figli conviventi (rispetto al totale di 1.600 del campione), il 58,7% ha un solo figlio, mentre solo il 41,3% ne ha almeno due; prevale il figlio unico nel Nord-Est, mentre sono presenti più figli nel Sud-Isole.  Numero di figli secondo l’area geografica Percentuali di colonna (∑=100) Nord Ovest Nord Est Famiglie con figlio unico 59,6 Centro 67,1 59,4 Sud e Isole TOTALE Famiglie con fratelli 53,3 40,4 32,9 40,6 58,7 V.A. 46,7 140 89 41,3 110 Fonte: CISF Family Report 2025, cap.3 178 517 “Questa trasformazione quantitativa porta con sé una serie di implicazioni qualitative, relazionali ed educative”, scrive la psicologa Anna Bertoni, che firma il capitolo 3 del Report.

“In una famiglia a figlio unico, le dinamiche della socializzazione primaria si condensano in una diade intensa, spesso asimmetrica, dove il figlio concentra su di sé aspettative, risorse, paure e investimenti affettivi da parte dei genitori e non solo. La fratria – quando presente – agisce invece come spazio di negoziazione orizzontale, luogo simbolico di alterità interna alla famiglia, prima palestra del conflitto, dell’alleanza e della mediazione”.

Nel nostro campione, inoltre, il 59,8% delle famiglie dichiara di avere almeno un animale domestico, con percentuali ancora più alte tra le coppie con figli (71%) e nuclei monogenitoriali (74,9%). La tendenza crescente all’assimilazione degli animali domestici, percepiti come membri della famiglia e spesso paragonati ai bambini, ci parla di una “domanda di legame” che non è semplicemente scelta di consumo o di compagnia, ma un vero e proprio bisogno relazionale. Bisogno che può trovare una deriva nel fenomeno del “dog parenting”, che quasi sta ridefinendo il paradigma di famiglia. Con questa espressione si intendono tutti quei comportamenti in cui il padrone attribuisce al cane un ruolo di “figlio”, non solo sul piano affettivo, ma anche simbolico e sociale:  “I pets vengono così antropomorfizzati e trattati quasi come figli”, sottolinea Anna Bertoni, “ma, a differenza dei figli, non pongono il tema dell’educazione e dell’etica, non contestano i genitori e quindi consentono all’adulto di rimanere in un ruolo molto comodo, ma scambiato, in modo miope, con quello genitoriale. I dog parents verranno amati per sempre dal loro animale, che non li metterà mai in discussione, come può fare un figlio nel processo di crescita”.

 I legami che contano

Nel complesso, emergono almeno tre attività che rivestono un ruolo centrale nella vita affettiva e simbolica delle famiglie: dialoghi sinceri e discorsi seri (votazioni con una media dell’8,09), condivisione dei pasti (media 7,59) e vacanze condivise (media 7,37). Queste pratiche si configurano come rituali relazionali, in cui si intrecciano narrazione identitaria, scambio intergenerazionale e progettualità condivisa. “Quanto sono significative per te le seguenti attività per trascorrere tempo di qualità insieme ai tuoi familiari?” (punteggi medi; min: 0; max: 10 – N: 930) Videogiochi/ console Lavori domestici/ cura della casa Shopping insieme Aiuto nello studio/ Lettura insieme Guardare film o serie TV insieme Attività ricreative (es. giochi, hobby, musica) 3,50 6,27 Vacanze insieme Condivisione di pasti Dialogo/ conversazioni sincere/ discorsi seri 6,28 5,79 6,35 6,78 7,37 7,59 8,09 0,00 1,00 2,00 3,00 4,00 5,00 6,00 7,00 8,00 9,00 Fonte: CISF Family Report 2025, cap.2 Ma quali sono specificatamente gli ambiti della vita dei figli che generano maggiori timori nei genitori? Come si evince dai risultati del Report, oltre alla gestione dei soldi (29,3%) e all’uso delle tecnologie (21,7%), tra le maggiori difficoltà i rispondenti hanno identificato le relazioni conflittuali con i figli (25,9%), le compagnie/amicizie degli stessi (18,1%) e l’isolamento sociale dei figli (14,9%).

Queste preoccupazioni interessano prevalentemente le coppie con figli conviventi, e investono le madri più dei padri. Elementi di maggiore difficoltà nelle responsabilità genitoriali (valori percentuali – possibili più risposte - N: 888) Problemi sull’identità di genere (alcol, gioco d’azzardo, sostanze stupefacenti) Dipendenza/ abuso di sostanze Episodi di autolesionismo Comportamenti trasgressivi Situazioni di bullismo/ cyberbullismo Altro Isolamento sociale dei figli Rendimento scolastico dei figli (il figlio/ i figli) Compagnie/ amicizie dei figli (internet, social network, videogiochi) 2,5 2,8 3,2 6 7,7 11,3 Modalità di uso delle tecnologie Relazioni conflittuali con i figli Gestione dei soldi Fonte: CISF Family Report 2025, cap.6 0 5 10 15 14,9 15,6 18,1 20 21,7 25 25,9 29,3 30 35

La genitorialità

 “I dati del Report delineano con chiarezza un modello di genitorialità fragile, frammentata, e carica di solitudine, soprattutto nelle fasi iniziali della vita del bambino e nelle famiglie più escluse socialmente”, scrive la pedagogista Valeria Rossini nel capitolo 6 del Report. “L’impressione è che il peso della cura e della responsabilità educativa venga spesso vissuto in una condizione di ritiro, senza reti stabili di sostegno, né orizzonti chiari di condivisione con le istituzioni scolastiche o sociali. D’altra parte, questa solitudine educativa dovrebbe essere letta non tanto come un segno di disaffezione dei genitori, quanto come un indicatore della debolezza del tessuto comunitario: dove manca un sistema relazionale a supporto della genitorialità, il carico soggettivo cresce e, con esso, le difficolta economiche, le tensioni relazionali e l’insicurezza pedagogica”.

Smartphone e sfide educative per le famiglie 

Nelle famiglie italiane emergono conflitti relativi all’uso del cellulare: si tratta di un fenomeno presente nel 27,1% dei casi. Se poi restringiamo il campione dei rispondenti a chi ha almeno un figlio minorenne, il conflitto diventa una condizione presente, con diverse sfumature di frequenza, nella maggioranza delle famiglie: il 55,4%. Occorre però problematizzare la sola lettura generazionale al conflitto per il dispositivo: i dati CISF 2025 rilevano che il problema non riguarda soltanto i bambini e i giovani, ma piuttosto anche gli adulti, come il coniuge/compagno nel 30,5%, il rispondente stesso nel 19,5%, il genitore nel 13,8%, il fratello/sorella nell’11,6% e un altro membro della famiglia nel 2%. Di fronte ai ripetuti allarmi lanciati dal mondo adulto rispetto allo smartphone, ci si è dunque chiesti se si sono messe in campo delle forme di contrattazione pedagogica rispetto all’uso del dispositivo.

 La percezione del conflitto rispetto al cellulare, incrociata con l’attivazione di regole in famiglia, ha permesso di costruire quattro tipologie di stile genitoriale rispetto alla “governance dello smartphone”: • Domatori (36,7%): genitori che provano a tenere sotto controllo il consumo mediale, ma in una situazione spesso di tensione. • Disarmati (24,4%): genitori che rilevano il conflitto, ma non provano a intervenire attraverso la contrattazione o le regole. • Accompagnatori (15,7%): sono le situazioni in cui non si registra una percezione di conflitto, mentre ci sono regole d’uso; • Liberi battitori (23,2%): i genitori che non rilevano problemi e non ritengono di porre regole d’uso. “Il forte controllo non si traduce in intervento educativo se rimane una strategia di delega con cui il genitore che si riconosce incapace di educare prova a fare in modo che un filtro o delle regole lo facciano al suo posto”, scrive il pedagogista Stefano Pasta nel capitolo 5 del Report. “È il rischio che corrono alcuni – non tutti – “domatori”. Idealmente, quando la famiglia è fortemente educativa, non ha bisogno di controllare ma piuttosto di “accompagnare”, un atteggiamento educativo che indica la strada, fornisce dei suggerimenti, ma non si sostituisce al figlio, e sa assumersi il rischio di lasciare che poi questo si sperimenti. Non è il permissivismo di chi lascia che il figlio faccia qualsiasi esperienza, ma piuttosto orienta e, prima di lasciare provare, fornisce dei criteri e agisce mediazione attiva”. Mentre il Report CISF registra una sorta di “normalizzazione” dell’uso del digitale, la percezione dell’IA (elaborata attraverso l’AI Homing Index) rimane più confinata e non sempre ordinaria. Tra gli indicatori, l’eccezione è data dall’uso di ChatGPT, che cresce sensibilmente (+15,3%), fino a riguardare quasi i due terzi delle famiglie (58,4%) con almeno un minore. Si presuppone che questo consumo riguardi la quotidianità informativa delle vite dei ragazzi, ma anche l’utilizzo con implicazioni scolastiche.

CONCLUSIONI

“Il fragile domani” non è solo questione personale o individuale, ma riguarda la qualità di vita, la coesione sociale e il benessere dell’intera collettività. Proponiamo qui in sede conclusiva, senza pretese di sistematicità, una prima lista di possibili risposte alla generica domanda “Che fare?”.

Dal punto di vista dell’individuo, “l’indagine conferma che in questa contemporaneità non mancano certo elementi di complessità e criticità, di fronte ai quali i progetti di vita, i desideri e i bisogni delle persone non sono affatto scontati né lineari. Ciò peraltro costringe ciascuno a fare i conti con la responsabilità di rimodulare le proprie scelte e i propri progetti di vita in termini propositivi, mettendo in gioco i propri talenti, ma anche andando alla ricerca di risorse esterne senza farsi bloccare da un eventuale inciampo. Certo, i problemi non se li augura nessuno; ma nessuna difficoltà, nemmeno la più complessa, può diventare obiezione alla reazione, o peggio alibi per la resa”, scrive Francesco Belletti, direttore CISF. Dal punto di vista delle relazioni familiari, “non si può dimenticare che le famiglie vivono oggi nel contesto culturale della società post-familiare, che sempre meno ne valorizza il ruolo sociale e istituzionale. Dalle relazioni familiari è quindi legittimo aspettarsi protezione, promozione, libertà e appartenenza (e ciò è responsabilità diretta di ciascuna famiglia), ma questo non può più essere dato per scontato, e implica un gigantesco compito sociale, sia educativo verso le famiglie che di accompagnamento e sostegno nelle diverse fasi e passaggi critici della vita familiare, senza dimenticare la disponibilità di un supporto professionale vero e proprio”, prosegue Belletti.

Dal punto di vista della società, “le reti comunitarie sono certamente fattori protettivi e promozionali del benessere, ma questo esige un doppio movimento, da parte delle persone e da parte del contesto esterno, di riconoscimento reciproco e di assunzione di responsabilità. Per questo sarà interessante verificare se i Centri per la famiglia previsti su tutto il territorio nazionale dall’ultimo Piano nazionale per la famiglia saranno in grado di promuovere nuove relazioni di cittadinanza attiva, più che offrire nuovi servizi professionali”. Dal punto di vista del contesto e delle policies, avverte il direttore del CISF, “nelle società occidentali ci si aspetta che il benessere delle persone non sia solo un bene privato, a carico delle singole persone, ma sia “anche” parte del bene comune.  Tra i diversi “compiti operativi” per l’intervento pubblico, oggi necessari, si possono citare ad esempio lo sviluppo dei servizi consultoriali, il rafforzamento dei servizi psichiatrici, la promozione di spazi relazionali per famiglie e giovani. Serve però anche una condivisione complessiva di valori e stili operativi, per far sì che l’intervento pubblico generi in modo virtuoso il bene obiettivo. Nella società contemporanea nemmeno l’intervento pubblico più consolidato può illudersi di “risolvere” da solo, ma deve agire – con il massimo possibile di qualità e di risorse – all’interno di un più ampio processo societario, in cui tutti gli attori generino un “valore aggiunto” di benessere per ogni persona e di bene comune per tutti”.


GIOCARE A ESSERE DIO

 


 “L’uomo ha sempre 

giocato a fare Dio,

 ma oltre alla scienza 

c’è bisogno dell’etica”

 


Di fronte ai progressi della biotecnologia serve una governance mondiale per la salvaguardia dell’umanità.

-di Vito Mancuso

«Giocano a fare Dio», diciamo spaventati riferendoci a coloro che intendono riprogettare l'essere umano tramite tecnologie sempre più pervasive, applicate questa volta non più su macchine e computer ma su gli stessi corpi umani. In realtà l'umanità ha sempre cercato di fare Dio, non a caso ci siamo dichiarati suoi figli, proclamati "a sua immagine e somiglianza", quindi cosa c'è da stupirsi se ora proseguiamo nell'impresa di emulare il Padre celeste? Da sempre i figli desiderano essere come il padre, anzi persino più forti di lui. E poi scusate, che male c'è nel cercare di prevenire le svariate migliaia di malattie genetiche che minacciano il formarsi degli esseri umani nel seno materno, in quei momenti in cui Dio Padre (sempre per stare alla metafora del giocare a fare Dio) si distrae un po' e invece del corretto numero di cromosomi ne lascia posizionare uno in più o uno in meno, generando irreversibili malformazioni nei bambini che nascono e un dolore abissale nei genitori? … 

E che male c'è nel prevenire la degenerazione delle cellule nervose che conduce un essere umano a vivere gli ultimi anni senza consapevolezza di sé, in preda alla demenza, con il conseguente indescrivibile strazio dei parenti e un sordo odio verso la vita per il suo beffardo destino? Domande retoriche, la cui unica sensata risposta è nessun male; anzi, solo tanto auspicabilissimo bene. La scienza deve fare il suo mestiere, che, come dice il nome dal latino scire, consiste nel "sapere": nell'incrementare sempre più la conoscenza. 

Sembrerebbe quindi che non vi sia nulla da temere e che occorra solo salutare con gioia le notizie fornite da questo giornale nei giorni scorsi riguardanti il progetto "Preventive" e le intenzioni (forse giá ben più che solo tali) di AltmanAmstrongMusk e altri miliardari che mirano a creare "uomini geneticamente modificati". 

L'umanità, però, non è solo conoscenza e azione, è anche coscienza e dubbio, cioè riflessione sull'utilizzo della conoscenza ottenuta, la quale può essere usata in vari modi: o per i benefici di tutti, o per i privilegi di pochi; o per curare malattie, o per allestire un catalogo di caratteristiche biologiche da mettere in vendita; o per il bene comune, o per il profitto di privati. Perché il punto che tendiamo a dimenticare, inebriati come siamo non dalla serietà della conoscenza scientifica ma dal senso di onnipotenza che la società dei consumi infonde nelle menti per condurle a consumare sempre più, è che il bene e il male esistono per davvero e che non tutto quello che si può fare è davvero lecito fare. Inebriati dall'ideologia vincente ai nostri giorni denominabile "scientismo", dimentichiamo la lezione di Kant secondo cui sono tre le domande alla base dell'umano: 1) che cosa posso sapere? 2) che cosa devo fare? 3) che cosa mi è lecito sperare? 

Accanto al sapere c'è anche il dovere, oltre alla conoscenza c'è anche la coscienza. Il che significa che noi, oltre alla scienza, abbiamo bisogno dell'etica (e della spiritualità, se prendiamo sul serio anche la terza domanda). Che sia necessaria l'etica appare del tutto evidente non appena si riflette sul fatto che un conto è usare le biotecnologie per sconfiggere le malattie genetiche, un altro conto è selezionare dal menu eugenetico il colore degli occhi, l'altezza e l'intelligenza del figlio in arrivo (privandolo cosi della sua irriducibile differenza rispetto ai genitori, fondamento della sua originarietà e della sua libertà). Insomma, se è vero che a seguito delle tecnologie sempre più performanti siamo entrati dentro un mondo del tutto nuovo, è altrettanto vero che siamo pur sempre rimasti dentro il mondo di sempre che necessita di una bussola del bene e del male, se vogliamo custodire la libertà. 

La libertà è un bene prezioso ma fragile, si può perdere facilmente e di sicuro viene meno laddove non vi sia imprevedibilità e indeterminazione. In assenza di queste dimensioni funzioneremo di più, ma sentiremo di meno; saremo sempre vincitori, ma saremo privati del prezioso sale che viene dalla sconfitta e dal saperla rielaborare. 

Il fisico Alessandro Vespignani dichiarava ieri a questo giornale che ormai da anni noi siamo «intelligenze aumentate». É proprio così? È davvero aumentata in questi ultimi anni l'intelligenza degli esseri umani? La maggiore performatività tecnologica ha davvero prodotto un aumento dell'intelligenza individuale? Io non ne sono per nulla sicuro. 

L'intelligenza umana infatti non si caratterizza solo per essere "problem solving", ma anche per sapersi costituire come "problem posing", cioè per la sua dimensione critica e dubitativa. Funzionare di più e risolvere più problemi non significa necessariamente essere più intelligenti. Senza calcolare che questa "intelligenza aumentata" è stata finora ben lungi dall'aumentare la felicità e la serenità, ma ha semmai ha prodotto uno spaventoso aumento dell'ansia da prestazione per essere tutti all'altezza di questa "intelligenza aumentata" che ci vuole tutti più smart e più tech. Ma a che serve questo aumento dell'intelligenza se coincide con la diminuzione della felicità? Mi viene in mente questa domanda evangelica: "A che serve a un uomo guadagnare il mondo intero se poi perde la sua anima?". Il concetto di anima esprime il centro vitale di ognuno di noi. Noi siamo intelligenza, certo, ma non solo; siamo anche sentimento, passione, bisogno di senso. 

L'intelligenza ci offre conoscenza, ma è solo il sentimento che ci offre il significato. E ognuno di noi è ultimamente una domanda di significato. Questo non si può limitare al fare e all'eseguire, perché richiede anche il non-fare, il contemplare, il tacere, ovvero ciò che i nostri padri chiamavano otium e che ritenevano più prezioso del pur essenziale negotium

Sempre Vespignani dichiarava che programmare il biologico con strumenti digitali è sì un processo inevitabile, ma non dobbiamo preoccuparci perché l'obiettivo non è progettare persone ma ridurre la sofferenza e la mortalità, cioè la prevenzione e la cura. Aggiungeva inoltre che il potenziamento genetico è una promessa fuorviante e una deriva eticamente inaccettabile e che non si deve "aprire la porta al mercato". Parole bellissime che si traducevano nell'auspicio della necessità di regole chiare per l'operatività tecnologica nell'ambito clinico e biologico al fine di tenere il mercato a distanza e di conseguenza nella necessità di una solida cooperazione internazionale, visto che la scienza e la tecnologia non conoscono confini e nessun paese può regolarsi da solo. 

Il problema, però, qual è? È che la scienza corre a passi da gigante, mentre il diritto e la politica che devono provvedere alle regolamentazioni auspicate arrancano lenti come una lumaca. È quindi necessario tener conto di questa doppia velocità prendendo la seguente decisione: che sia vietata ogni applicazione dell'IA e delle tecnologie sulla biologia umana prima che le normative siano definite in modo chiaro e trasparente per il mondo intero. 

Non si tratta di fermare la scienza, si tratta di custodire l'umanità. Perché se veramente si vuole non aprire la porta al mercato, chi può davvero tenere chiusa quella porta è solo la politica in quanto costruttrice di diritto. Di fronte alle biotecnologie che possono mutare definitivamente la natura umana aumentandone l'intelligenza e diminuendone il cuore, abbiamo l'urgente necessità di una governance mondiale. Penso che i rettori e i senati accademici delle università di tutto il mondo, gli imprenditori più responsabili, i leader delle religioni mondiali, gli intellettuali più seguiti debbano coordinarsi tra loro per far sentire la voce dell'umano. Prima si stabiliscano le regole chiare per la salvaguardia dell'umanità, poi si intraprenda il lavoro biotecnologico sull'essere umano. Solo così si potrà davvero lavorare per sconfiggere le malattie senza cadere nello spaventoso marketing eugenetico. In sé non è sbagliato "fare Dio", ma lo si deve fare seriamente, non giocando con l'umano ma servendolo con la più alta responsabilità.

VITO MANCUSO

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martedì 18 novembre 2025

LA PACE INIZIA DAI PIU' PICCOLI


Troppo spesso le guerre proseguono o addirittura ne scoppiano di nuove, le crisi si acuiscono, le tregue non tengono, i deboli e specialmente i bambini continuano a morire

di Pasquale Ferrara

A cadenza regolare, ogni anno, l’attenzione del mondo è focalizzata sui vertici dei cosiddetti “Grandi della terra”. Li vediamo riuniti attorno a tavoli perfettamente addobbati, sorridenti, in mezzo a bandiere multicolori, disposti in ordine rigorosamente protocollare per la “foto di famiglia”.  Dovrebbero decidere - si presume - i destini del pianeta, risolvere conflitti e crisi umanitarie. Quando quelle riunioni finiscono, tuttavia, troppo spesso le guerre proseguono o addirittura ne scoppiano di nuove, le crisi si acuiscono, le tregue non tengono, i deboli e specialmente i bambini continuano a morire. Eppure, basterebbe ascoltarli. Dostoevskij coglie perfettamente la giocosa serietà e la competenza innata dei bambini: «I grandi non sanno che, perfino sulle questioni più difficili, un bambino è in grado di dare un consiglio assolutamente serio». Giovanni Pascoli riteneva che in ognuno si celasse un «fanciullino», ovvero la capacità di guardare alla realtà con uno sguardo capace di coglierne la meraviglia, di intuire la struttura profonda del mondo.  Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel suo recente discorso al Bundestag, ha denunciato «l’applicazione sistematica della ignobile pratica della rappresaglia contro gli innocenti». Innocente, etimologicamente, significa colui che “non nuoce”: in-nocens. Non solo colui che non ha colpe passate, ma che, in assoluto, non può averne. La cartina di tornasole del potere, da quello municipale a quello imperiale, è proprio come tratta gli innocenti.

Le zone di conflitto

Oggi, secondo l’Unicef, un bambino su sei nel mondo vive in una zona di conflitto. In Ucraina, oltre 2.400 bambini hanno perso la vita, molti sono stati sottratti alle loro famiglie e condotti in Russia. La crisi umanitaria del Sudan per i bambini è, per numeri, la più grande al mondo. Migliaia di minori sono morti per via della guerra tra le fazioni militari, le malattie, la carestia, le atrocità.  A Gaza, l’Unicef riporta che 18.430 minori sono stati uccisi o gravemente menomati. E per quelli sopravvissuti non basta accoglierli, come pure è doveroso, necessario, urgente, nei nostri ospedali, se non ci si chiede chi li ha ridotti in tale stato - amputati, traumatizzati, cronicizzati nelle malattie indotte da guerrieri vili, che prendono di mira gli indifesi ed i deboli. Non basta dire che sono stati oltrepassati i limiti, se non si indentificano – essi sì – i veri colpevoli, se non si fa nulla per fermarli, se non ci si adopera affinché rispondano dei loro crimini, se non si risale alle responsabilità politiche ultime.

Un infanticidio differito

Troppi minori vengono reclutati e impiegati nei conflitti armati in tutto il mondo. Tra il 2005 e il 2022, oltre 105.000 bambini sono stati schierati dalle parti in conflitto, ma il numero effettivo dei casi è sicuramente molto più alto. Ragazzini costretti a impugnare un’arma invece di una matita. Tutto ciò, nonostante il fatto che la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, adottata dalle Nazioni Unite nel 1989, sia ad oggi il Trattato più ratificato, ma forse anche tra i meno rispettati, della storia.  Un grande polemologo, Gaston Bouthoul, concepiva la guerra come un infanticidio differito. Riprendendo questa terribile verità in chiave letteraria, Oriana Fallaci scriverà, in Lettera ad un bambino mai nato, che «la guerra è un infanticidio in massa, rinviato di vent’anni». Ma alla guerra generalizzata non corrisponde una pace generica: di paci ce ne sono almeno tre tipi, come suggeriva Johan Galtung. La Pace Diretta è la semplice assenza di violenza fisica o diretta, come nei conflitti armati o nella violenza individuale. Ma – per quanto essenziale – è solo una condizione di base, non sufficiente a garantire una pace duratura. C’è però bisogno anche della Pace Strutturale, che riguarda la rimozione delle ingiustizie sociali ed economiche, le disuguaglianze e le strutture oppressive che impediscono l'accesso equo alle risorse, ai diritti e alle opportunità.

La pace culturale

Ma soprattutto c’è la Pace Culturale, che riguarda le attitudini, le ideologie e le convinzioni che ammettono o addirittura giustificano la violenza e l’intolleranza. La pace culturale promuove il rispetto, la comprensione reciproca e la non-violenza, non solo a livello individuale, ma anche a livello delle comunità e della società. Si costruisce attraverso l’educazione e la diffusione di valori di empatia, solidarietà e cooperazione. In Colombia, dal 2014 è in atto un’iniziativa educativa esemplare: la creazione di una “cattedra della pace”. Una legge introduce in tutte le scuole del Paese un insegnamento obbligatorio volto a promuovere competenze di convivenza, mediazione e cittadinanza democratica. In Italia, anche senza aspirare a tanto, il prossimo 20 novembre, in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, si potrebbe lanciare l’iniziativa del “banco vuoto”. Un banco lasciato libero per ricordare le vite spezzate di tutti i bambini ed i ragazzi che la guerra dei grandi ha sottratto al futuro del mondo. Un banco da cui gli alunni, a turno, potrebbero condividere riflessioni, proporre azioni, esprimersi creativamente, o semplicemente colmare, anche con il semplice silenzio, una tragica assenza con una presenza. Sedersi in rappresentanza dei loro coetanei che non ci sono più. La grande strategia è importante, ma altrettanto lo è la micro-fondazione della pace. Se è certamente necessario perseguire la Pace con la maiuscola, altrettanto indispensabile è costruire con tenacia, giorno per giorno, tante piccole “paci”. 

Alla guerra dei grandi, rispondere con la pace dei piccoli.

www.avvenire.it 


 


LA GRATITUDINE CI RENDE FELICI

 


Come essere aperti all'effetto sorpresa della realtà?.





Praticare la gratitudine è un ottimo modo per essere più felici e realizzati. 

Essere grati migliora anche la relazione con se stessi e gli altri; e ha effetti benefici sulla nostra salute.

Alessandro D’Avenia

 

L'infelicità è carenza di sorprese. La vita ne è piena ma siamo noi a dormire: l'educazione in fondo è allenamento a star svegli e pronti a riceverle. Per questo al mattino cerco di inventare un appello diverso per «ri-svegliare» corpo e anima dei ragazzi. Qualche giorno fa ho fatto ascoltare il primo movimento del concerto per violino n.1 di Vivaldi: La primavera. Il famosissimo Allegro, forse il brano più noto al mondo, dura 3 minuti e 20, come la Donna cannone. I ragazzi l'hanno subito riconosciuto anche se magari non ricordavano nome e autore. Su una cosa però concordavano tutti: li aveva messi di buon umore in soli tre minuti. Come ci era riuscito? Sorprendendoli. La sorpresa è infatti il primo gradino della felicità, purché per sorpresa non s'intenda la sua riduzione odierna: il bisogno continuo di choc dopaminergici da post e video per dimenticare quanto siamo insoddisfatti della vita, «sorprese» che invece di renderci vivi ci addormentano, perché sono dipendenze. Le vere sorprese (dal latino super prendere: afferrare dall'alto, esser «elevati», «sollevati») donano invece una leggerezza che non è fuga ma pieno possesso della vita, liberano perché «sorprendersi» è fare esperienza della gratuità, cioè, sentire che la vita è data, gratis, anche nel ripetersi. Un arcobaleno è sempre sorprendente, così come l'Allegro della Primavera di Vivaldi. Come fare allora a essere ordinariamente aperti all'effetto sorpresa della realtà senza il quale esser felici è impossibile?

Vivaldi

Quest'anno quel concerto di Vivaldi compie 300 anni. Era il 1725 quando ad Amsterdam furono pubblicati gli spartiti del «Cimento dell'armonia e dell'invenzione», 12 concerti (in origine una forma musicale in tre tempi in cui il solista dialoga-contende, con-certa, con gli altri strumenti) per violino solista e archi, di cui i primi quattro sono le celeberrime Stagioni. Allora non essendoci supporti di registrazione, la musica rimaneva solo quando veniva pubblicata e accadeva solo ai più grandi. Eppure, la prima esecuzione era avvenuta qualche anno prima a Venezia, in un orfanotrofio, «sorprendendo» tutti. Infatti, Vivaldi, sacerdote cattolico, insegnava violino alle giovani accolte in una delle istituzioni di carità per orfani e poveri della città: l'Ospedale della Pietà, specifico per le ragazze, altrimenti destinate alla strada. In questo contesto venivano educate nel canto e nello strumento (perché nelle nostre scuole quest'arte indispensabile all'educazione è ridotta al flauto o alla melodica delle medie?), raggiungendo esiti passati alla storia (ascoltate lo Stabat Mater o il Gloria di Vivaldi). Vivaldi, detto «il prete rosso», per i capelli o per l'abito indossato da lui e dalle musiciste, dirigeva le ragazze celate da grate lignee al pubblico proveniente da tutta Europa (ne parlano anche Goethe e Rousseau) per ascoltarne l'incanto. Nelle Stagioni in particolare il musicista si era divertito a imitare i suoni naturali: uccelli, tuoni, cani, foglie, venti gelidi... tanto da stupire tutti per genialità compositiva, esecutiva e sociale, un fenomeno unico in un'epoca in cui alle donne era vietato suonare in chiese e teatri. I miei studenti, benché fossero le 8 del mattino, erano anche loro «sorpresi», cioè elevati a un livello di vita gioioso e sollevati dalle zavorre del XXI secolo: facevano esperienza del «gratuito». Il contrario di questa esperienza è infatti il «dare per scontato», espressione nata per indicare qualcosa di acquisito (nel senso di acquistato) perché pagato subito a fronte di uno sconto: saldato vs regalato. Solo l'esperienza della vita data «gratis» e non «per scontata» (che infatti è diventato sinonimo di: «non mi sorprende più») provoca risveglio e unione, i due elementi della gratitudine, senza la quale non è possibile esser felici. Il giorno in cui si dà qualcosa o qualcuno per scontato finisce la gioia, perché la felicità è tanta quanta lo stupore: la sorpresa di un volto o un oggetto si spengono.

La gratitudine

Allora non è la felicità a renderci grati, ma è la gratitudine a renderci felici. Ci sono persone che, pur avendo tutto, non sono felici, e persone che, avendo poco, lo sono. Come mai? La differenza sta nella pratica (è un'azione) della gratitudine, che rende capaci di ricevere l'istante come un dono, cosa che purtroppo spesso ci riesce solo quando perdiamo qualcosa o qualcuno (chi ha sofferto per amore o per un lutto lo sa). Questo significa che la capacità di sorprendersi è in noi: è interiore e va allenata. Infatti tradizioni spirituali e filosofiche millenarie e molto diverse tra loro invitano a svegliarsi e vegliare, e non perché ci vogliano insonni e ansiosi come accade oggi salvo poi invocare un po' di mindfulness a buon mercato, ma perché ci vogliono grati, cioè felici. Il cristianesimo dovrebbe produrre un'etica della gioia (la parabola delle vergini addormentate che devono partecipare alla festa lo racconta bene), perché tutto è grazia per chi ha fiducia (fede) nella vita che è infatti «eucarestia» (in greco «ringraziamento»), rito nel quale la vita stessa di Dio è data gratis, risolto spesso in una pratica da sbrigare. Ma torniamo alle sorprese: possono riguardare anche cose brutte o consuete, perché ciò che conta è che stanno capitando a noi che siamo liberi, cioè capaci di decidere che cosa farci. Il problema non è il cosa accade ma il che cosa ci faccio. Ad esempio: che cosa ci fa un geniale musicista con delle ragazze abbandonate? Le fa diventare una Primavera immortale: Anna Maria della Pietà - violinista, clavicembalista e compositrice - fu la solista più celebrata dell’Ospedale della Pietà, a lei Vivaldi dedicò 28 concerti per violino, molti venivano a Venezia solo per ascoltarla (dopo la morte del maestro, fu lei a dirigere); Chiara della Pietà, detta «la meraviglia di Venezia» per la versatilità, suonava tutti gli strumenti a corda e a fiato; per Candida della Pietà, nota per purezza ed estensione di voce, Vivaldi scrisse arie con l’indicazione specifica «per Candida»; Apollonia della Pietà, per lei il maestro compose i suoi concerti per fagotto, strumento raro all’epoca ma che lei maneggiava come nessuno; di Barbara e Pellegrina della Pietà, cantanti soliste, le cronache riferiscono che «i forestieri, udendo le loro voci, giuravano di trovarsi in paradiso». Per queste ragazze senza cognome se non l’appellativo «della Pietà» la musica fu salvezza e riscatto. Chi le aveva ascoltate senza vederle dietro le paratie di legno, quando poi le incontrava di persona si stupiva di trovarsi davanti popolane non troppo aggraziate e dai modi semplici. Una vera «sorpresa». La tomba della felicità è il «dato per scontato» o «dato per scartato». Chi dà per «scontato» o «scartato» non riceve, chi non riceve non è grato, chi non è grato non è felice. E la scuola è proprio il luogo in cui si impara a essere sempre aperti alla vita, dove ci si allena quindi a essere, in sequenza: svegli, sorpresi, grati, felici, vivi. A cominciare dall'appello o da un po' di buona musica. Magari un Allegro di Vivaldi. 

Corriere della Sera

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sabato 15 novembre 2025

FIDARSI DI DIO

 


Di fronte alle insidie della storia 

occorre fidarsi 

della promessa di Dio. 


Commento al Vangelo nella XXXIII domenica del Tempo ordinario - Anno C

di Padre Gianpiero Tavolaro, Comunità Monastica di Ruviano

Mal 3,3-19-20a; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19


Quando l’evangelista Luca compone la sua opera si mostra molto attento a cogliere la vita della comunità dei credenti in Cristo all’interno del ben più vasto orizzonte della storia. Diversi sono gli eventi ai quali, in modo più o meno esplicito, egli fa riferimento: il Tempio di Gerusalemme è stato distrutto (e questo è un segno potente della novità che è Cristo e del “salto” che egli realizza rispetto alla prima economia della salvezza); la vita della Chiesa è fiorente, ma esposta a delle minacce; il sangue dei primi testimoni è stato versato (come, in Atti, attestano le morti violente di Stefano e di Giacomo). È dentro questo quadro di riferimento che si inserisce il discorso che Gesù fa, al capitolo 21, sollecitato dall’ammirazione di alcuni per la grandiosità del Tempio e per le sue bellezze: alla cosiddetta piccola apocalisse del capitolo 17 (riguardante il “destino” personale), segue ora la grande apocalisse (riguardante il corso della storia tutta). Si tratta di una rivelazione che riguarda le ultime cose: non tanto la fine della storia, quanto piuttosto il suo fine.

Di fronte alle paure, alle derive e ai possibili inganni degli uomini sull’attraversamento della storia, Gesù afferma, in modo inequivocabile, che la storia ha un senso, cioè una direzione, per cogliere la quale, senza indulgere a facili e banali allarmismi, occorrono la fedeltà e la perseveranza, attraverso cui si manifesta la disponibilità ad attraversare la storia fidandosi della promessa stessa di Dio. Per quanto difficile e segnato da contraddizioni interne ed esterne, il camminare della Chiesa nella storia richiede che tutto vada assunto con verità, ma anche nella lucida consapevolezza che tutto è “relativo” a un più grande progetto di Dio, non perché “le cose di quaggiù” non abbiano valore, ma perché, al contrario, in Dio può acquisire senso anche ciò che può sembrare non averne: solo così è possibile sottrarsi al rischio di vivere in un’illusione che anestetizza i credenti, facendoli vivere “fuori” dalla storia, o in una delusione che, producendo smarrimento, li trasforma in uomini disperati, prigionieri dei non-sensi dell’oggi. 

l cammino del credente, secondo Luca, è esposto al rischio di trappole che il mondo tende e in cui si può cadere e Gesù ne individua tre attraverso cui il male cerca di aggredire chi crede. La prima trappola è costituita dalla menzogna e dall’inganno, che pretendono perfino di indossare le maschere del volto di Dio. Gesù che, fin dal principio dell’evangelo, ha chiamato alla sequela (cf. Lc 5,11.27; 9,59; 14,27), qui mette in guardia dalle sequele sbagliate, che portano morte. Tremendo, a tale proposito, è l’uso del suo nome: il credente può essere intrappolato perfino da chi si serve del nome di Cristo, invece di farsene servo. Per questo, più avanti, sempre in questa grande apocalisse, Gesù presenta la sua Chiesa come fatta da coloro che saranno perseguitati «a causa del mio nome».

La seconda trappola che il mondo tende nella storia alla comunità dei credenti è la persecuzione, quella stessa cui è stato sottoposto il Maestro. Se la Chiesa pronunzierà parole di mondano “buon senso”, essa avrà l’applauso dei sapienti secondo il mondo e non patirà persecuzione; se, al contrario, annuncerà con forza e parresía la parola scomoda del Vangelo («la parola della croce», 1Cor 1,18), allora patirà persecuzione e accanimento. Nella persecuzione, però, in maniera paradossale, sperimenterà la potenza della presenza del Signore, che è fedele compagno di viaggio nel cammino della Chiesa nella storia. La terza trappola che il mondo tende alla Chiesa è quella della divisione, che penetra nelle relazioni più sacre che l’uomo può vivere: «Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici». L’odio del mondo per le vie che lo contraddicono può arrivare fino a questo punto, dal momento che il mondo non tollera chi gli si oppone, in qualunque modo.

Di fronte a tutto questo occorre perseverare, essere pazienti: questa è stata la via percorsa da Gesù di fronte al rifiuto del mondo e questa è la via che egli propone ai suoi. La storia sarà salvata e custodita da un piccolo resto, capace di resistere agli inganni, alle divisioni, alle persecuzioni: un piccolo resto capace di pagare di persona. Questa è parola di speranza e di consolazione, che dà ai passi dei credenti la forza e il coraggio di attraversare la storia senza fuggirla, ma vivendola portando in essa la bellezza del Vangelo.

Clarusoonline

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