sabato 6 dicembre 2025

PREPARATE LE VIE DEL SIGNORE

 

Voce di uno che grida nel deserto: 

Preparate la via del Signore,

raddrizzate i suoi sentieri!


7 dicembre 2025

II Domenica d’Avvento A

Mt 3,1-12

 

Commento del Patriarca di Gerusalemme,  Card. Pizzaballa

 Sia il tempo di Avvento che quello della Quaresima portano con sé un urgente invito alla conversione.

I due inviti, però, hanno una sfumatura diversa: il tono della Quaresima è più penitenziale, rimanda alla lotta interiore, ed indica pratiche come il digiuno, l’elemosina e la preghiera. È la conversione del cuore, che ha bisogno di lasciarsi trasformare dall’amore pasquale, un amore che vince il peccato e la morte.

La conversione che ci viene proposta nel tempo dell’Avvento riguarda innanzitutto lo sguardo: vuole aiutarci a fare attenzione, a saper riconoscere il Signore che viene. È una conversione “escatologica”, un gioioso apprendimento a vivere fin d’ora come cittadini del Regno che viene.

La conversione è il tema centrale anche del brano di Vangelo di questa seconda domenica di Avvento (Mt 3,1-12). E proprio questo brano ci aiuta ad approfondire il rapporto tra Avvento e conversione.

Protagonista è Giovanni, il Battista, che è nel deserto e da lì invita tutti alla conversione (Mt 3,1-5).

La sua figura, austera, rimanda a quella del profeta Elia, e quindi suscita in chi lo vede e lo ascolta l’attesa della venuta imminente del Messia. Il profeta Malachia, infatti, aveva legato il ritorno di Elia alla venuta del Messia, e questa credenza era comune in quel tempo. (“Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore: egli convertirà il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri” - Mal 3,23-24). La predicazione del Battista creava proprio questa atmosfera di attesa. L’eco della sua parola è forte: in molti scendono al Giordano e si fanno battezzare, confessando i propri peccati (Mt 3,5-6).

Le sue parole scuotono tutti, ma soprattutto quei molti “farisei e sadducei” (Mt 3,7) che si lasciano richiamare da Giovanni e che si sentono apostrofare “razza di vipere”: Giovanni denuncia la possibile ipocrisia di coloro che si accontentano di una religiosità esteriore, e non si aprono invece ad una reale conversione del cuore.

L’invito, per tutti, è quello di entrare in un atteggiamento penitenziale, per essere pronti ad accogliere Colui che sta venendo e che Giovanni descrive come uno più forte di Lui, che battezzerà in Spirito Santo e fuoco, che giudicherà tutti con giustizia (Mt 3,11-12).

Due sono dunque i poli di questo processo di rinnovamento che Giovanni cerca di innestare: da una parte la conversione e dall’altra l’attesa. Sono due poli fondamentali per la vita di fede, e vanno tenuti insieme.

Perché senza conversione, l’attesa rischia di essere sterile: un sogno vago, una speranza che non incide nella vita concreta. Ma senza attesa, la conversione rischia di diventare moralismo, un esercizio ascetico chiuso in se stesso, che non apre all’incontro con l’Altro.

Giovanni Battista, invece, tiene insieme questi due atteggiamenti, e lo dice da subito: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2). La vicinanza del Regno è la ragione, il motore della conversione, che diventa così un volgere lo sguardo verso Colui che viene, verso Colui che si attende.

Per conversione non si intende lo sforzo volontaristico di chi cerca di migliorarsi, di non commettere più errori. La conversione, sempre rimanendo nelle immagini usate da Giovanni, assomiglia piuttosto al lavoro del contadino, che si prende cura delle sue piante.

Giovanni usa l’immagine agricola per due volte in questo brano: prima, quando chiede a farisei e sadducei di fare frutti degni della conversione (“Fate dunque un frutto degno della conversione” - Mt 3,8); poi, subito dopo, al v. 10, quando afferma che la scure è posta alla radice degli alberi, e che ogni albero che non dà buon frutto sarà tagliato (“La scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” -Mt 3,10).

La conversione di cui parla il Battista, dunque, non consiste nel fare uno sforzo temporaneo, che solitamente si esaurisce in breve tempo, o di darsi uno stile moralistico. Si tratta invece di fondare la vita, di mettere le proprie radici in ciò che, poco alla volta, costruisce una vita piena e grata: la relazione con Dio. Nell’ascolto perseverante della Parola di Dio, e lasciandosi trasformare il cuore dall’attesa di Colui che viene per amore della nostra vita, perché la nostra vita porti frutti.

 + Pierbattista

 Patriarcato latino di Gerusalemme

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UN NEO-CRISTIANESIMO ?

 

In un articolo su «La Stampa» del 9 novembre scorso Vito Mancuso ha riassunto la tesi fondamentale del suo ultimo, ponderoso volume, intitolato Gesù e Cristo, edito da Gazanti. Dove la “e” non accentata indica il fatto che, per lui, «Gesù e Cristo sono due personaggi diversi».


-di Giuseppe Savagnone 

Gesù e Cristo: due figure parallele?

Su questa diversità l’autore insiste: «Gesù è un nome ebreo; Cristo è un nome greco. Ma non è solo una questione di nomi»: «Gesù nacque a Nazareth; Cristo a Betlemme. Gesù aveva un padre terreno; Cristo era il Figlio unigenito del Padre celeste. Gesù aveva quattro fratelli e un numero imprecisato di sorelle; Cristo era figlio unico. Gesù ebbe come maestro Giovanni il Battista; Cristo era cugino del Battista e non aveva bisogno di nessun maestro. Gesù non si capisce senza il Battista; Cristo non si capisce senza Pietro e senza Paolo». 

I personaggi in questione, secondo Mancuso, avrebbero avuto una fortuna molto diversa: «Di Gesù ben pochi parlano e coltivano la spiritualità; di Cristo ogni giorno sulla terra si proclama la natura divina». Il primo diede vita a una fede che «tramontò ben presto rimanendo pressoché sconosciuta», mentre il secondo è stato al centro di una religione, «fondata successivamente dai suoi discepoli, tra i quali emergono Pietro di Betsàida e Paolo di Tarso», che «ebbe un successo mondiale divenendo la più diffusa del pianeta».

Per la ricerca storica, Gesù era un profeta escatologico-apocalittico e un guaritore, che predicava un messaggio di giustizia destinato a realizzarsi con l’imminente avvento del regno di Dio e che fu messo a morte dalle autorità politiche e religiose, timorose di possibili conseguenze sediziose. Per la fede, Cristo è il  Crocifisso-Risorto, Figlio di Dio, «generato, non creato, della stessa sostanza del Padre».

«Gesù è storia, Cristo è idea». L’intento di Mancuso è di recuperare il primo, ma non per negare il secondo, bensì per ricollocarlo in una prospettiva – inevitabilmente diversa da quella della Chiesa ufficiale – «che torni a essere accettabile per la coscienza contemporanea», sempre più lontana dal cristianesimo tradizionale.

Tuttavia, come Mancuso ha precisato in una intervista, lo stesso giorno, al «Corriere della Sera», non si tratta di opporre Gesù e Cristo, perché di entrambi abbiamo bisogno, ma di «distinguere per poi unire a un livello più alto» .

Ma l’idea di cui il Gesù della storia può essere considerato portatore non è, come nel cristianesimo che conosciamo, l’incarnazione di un Dio che entra nella storia, in un tempo e in un luogo determinati, per redimere il mondo. In questo neo-cristianesimo, secondo Mancuso, «non è un evento storico a costituire uno spartiacque prima del quale le cose erano in un modo e dopo del quale le cose sono mutate in un modo tutto diverso, a cui è necessario credere e partecipare per potersi salvare».

Per «la salvezza senza redenzione» che la nuova religione proporrebbe «il mezzo salvifico è l’etica, è la vita buona, è la vita giusta. Questa etica professata e vissuta non fa altro che esprimere una logica eterna (…). Cristo non è colui che salva perché ha offerto il suo corpo sulla croce con un sacrificio, con il suo sangue, con l’espiazione del peccato originale, ma è colui che salva nella misura in cui aderiamo a questa logica eterna che da sempre accompagna il mondo e che il lui si è manifestata».

Di questa logica eterna, secondo Mancuso, è espressione non solo il vangelo, ma tutta la grande tradizione spirituale dell’umanità. Come,  per esempio, il capitolo 125 del Libro dei morti dell’Antico Egitto, scritto 1.500 anni prima del vangelo di Matteo in cui si legge un identico messaggio: «Ho onorato Dio con ciò che egli ama. Ho dato da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, una veste all’ignudo e una barca a chi non l’aveva».

Questo non significa che la religione debba essere ridotta all’etica. «La forza del cristianesimo deve essere la sua capacità di tornare a ripresentarsi come teoria della salvezza e come teoria delle cose ultime, come contatto, comunione con l’eterno».

L’appello del Gesù rivoluzionario effettivamente esistito nella storia ha bisogno del fondamento trascendente e universale, radicato nel  mistero, offerto dalla fede nel Cristo dalla Chiesa primitiva.

L’incarnazione

Alla radice di questa posizione c’è un’idea dell’incarnazione e della stessa trascendenza di Dio diversa da quella. Lo ha chiarito lo stesso Mancuso presentando il suo libro al Palazzo Ducale di Genova. Alla domanda se Gesù fosse  solo un uomo o anche Dio, ha risposto: «Era sia uomo che Dio, ma bisogna capire cosa si intende con questa espressione. Tra umanità e divinità non c’è un fossato invalicabile. Come dicono le grandi religioni, noi dobbiamo arrivare a sentire questa identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano, quindi sì, Gesù era il figlio di Dio ma non era l’unico, sono convinto che anche qui in questa sala ce ne sono, perché il divino non è “altro” rispetto all’umano, ma piuttosto la perfezione dell’umano. Gesù ha portato a compimento la missione di essere a immagine e somiglianza di Dio».

Il post-teismo di Paolo Gamberini

Non possono non venire in mente le tesi care al filone del post-teismo, per esempio a quelle di Paolo Gamberini, il quale, nel suo lodevole sforzo di «ripensare il cristianesimo oggi», ha rimesso in discussione il modo tradizionale di concepire il rapporto tra Dio e il mondo. In un articolo su «Settimana News» dello scorso 30 agosto e nella risposta alle obiezioni, il noto teologo prende atto che «il concilio di Nicea ha voluto “decidere” della distinzione tra creatio ex nihilo e generatio de substantia Dei patris (homoousia), definendo Cristo, a differenza delle creature, «generato, non creato», ma, in questo modo, «ha introdotto un’epocale scissione (decisione) tra Dio e mondo. L’uomo Gesù è stato isolato dalle altre creature, per riconoscerne così la sua divinità. Il risultato è che il Dio è stato pensato “senza” la creatura».

Per rimediare a questa unilaterale separazione, Gamberini propone di superare la contrapposizione tra “generazione” e  “creazione”. Per lui, anche «iI mondo è stato creato dall’essenza divina (ex essentia dei). Il Figlio dipende dal Padre, così come il mondo da Dio». In questo senso, l’universo creato fa parte necessariamente di Dio, esattamente come il Figlio in cui sussiste. «Riconoscere che il mondo è “da Dio” e “sussiste” nel Logos significa affermare che l’essere del mondo non è altro da Dio, ma è lo stesso essere in modo differente: assoluto “il Dio” e relativo “il mondo”». «Dio e mondo sono i due modi con cui la sostanza divina (θεός) si definisce. Il modo “infinito” della sostanza è il Dio (ὁ θεός). Il modo “finito” della sostanza è la creatura». 

A questo punto, evidentemente, appare superata l’idea – su cui tutto il vangelo e la tradizione ebraico-cristiana sono fondati – di un Dio trascendente che crea il mondo con un atto libero e potrebbe esistere anche senza di esso. Da qui la domanda retorica «Il teismo è l’unica forma di cristianesimo possibile? Il teismo è l’unica e sola forma della fede cristiana?».

Ma da questo superamento del teismo deriva un altro modo di intendere anche l’incarnazione: «Il Logos incarnato non va inteso nella sua esclusività dell’uomo Gesù ma comprende e si estende a tutto il creato. Se da un lato si afferma che “questo” Gesù è Logos, si deve affermare anche che tutto ciò con cui questo Gesù è collegato (carne della sua carne!) è assunto dal Verbo. La grammatica ipostatica (Gesù è il Logos) indica un’identificazione che non si ferma a questo Gesù ma al creato intero. Questa è la dimensione cosmica dell’incarnazione».

È evidente la convergenza con la posizione di Mancuso. Anche per Gamberini Gesù non è il Logos incarnato, ma solo una sua manifestazione tra le tante che costellano il mondo e l’umanità.   

Due considerazioni

Non è questa, evidentemente, la sede per una puntuale analisi critica di queste posizioni, che peraltro richiederebbe un confronto diretto con i testi, di cui qui abbiamo riportato solo le sintesi essenziali fatte dai loro autori. Possiamo, però,  basandoci su queste ultime, fare alcune considerazioni.

La prima è che all’origine dell’esigenza di un neo-cristianesimo stanno la sincera preoccupazione per la progressiva scristianizzazione dell’Occidente e la giusta esigenza di dare della tradizione cristiana una versione più vicina alla sensibilità degli uomini e delle donne di oggi. Meritano dunque attenzione e rispetto tutti i tentativi fatti in questa direzione.

E tuttavia c’è da chiedersi – e questa è la seconda considerazione – se quello che resta, dopo l’eliminazione della divinità di Gesù e, più a monte, dello stesso Dio Padre a cui Gesù si rivolge come a una Persona trascendente, si possa ancora considerare “cristianesimo”. In questa rilettura verrebbe meno, infatti, l’annuncio centrale che costituisce l’originalità di questa religione rispetto a tutte le altre, e cioè l’incarnazione, che da un lato suppone un Dio radicalmente “altro” rispetto al mondo, dall’altro afferma che questo Dio ha scelto, per un atto d’amore, di entrare nella storia, facendosi Egli stesso uomo,  per scendere fin negli abissi più profondi del male  e redimerlo con il suo sacrificio.

Privata di questo, la “nuova” religione annunciata da Mancuso e da Gamberini assomiglia molto, in realtà, a tante altre  che considerano  Gesù, al pari di Buddha, di Confucio e di tutti i grandi spiriti della storia, come maestri di saggezza, in cui si esprime una divinità che non è “Qualcuno”, ma “Qualcosa”, e che pervade tutto.

Ciò è particolarmente evidente nella interpretazione di Mancuso. A dire il vero la contrapposizione tra il Gesù della storia e il Cristo della fede risale a una celebre conferenza di Martin Käler, nel 1892. E da allora essa ha costituito il filo conduttore di tute le interpretazioni dell’evento cristiano, segnata da un’alternanza tra chi ha privilegiato Gesù, il personaggio storico,  rispetto al Cristo , l’idea, e chi ha fatto il contrario . Ciò che costituisce l’originalità della  posizione di Mancuso è che egli si propone  di tenere insieme le due figure.

È ciò che egli chiama «distinguere per unire a un livello più alto». Solo che la distinzione si dà tra aspetti di una stessa realtà – sono distinti il colore di un oggetto e la sua larghezza – ed è stata già ampiamente utilizzata dalla teologia per parlare di Gesù al tempo stesso come uomo e come Figlio di Dio. Quello che Mancuso propone, invece, è di distribuire queste caratteristiche su due personaggi diversi, radicalmente separati l’uno dall’altro, e spesso contrapposti l’uno all’altro. La sua, perciò, non è una distinzione, ma una separazione. E a questo punto unire le due figure diventa una somma arbitraria di realtà differenti.

Che rapporto ci può essere tra il profeta-guaritore, estraneo ad ogni figliolanza divina, effettivamente esistito, e il Risorto frutto solo della fede dalla comunità cristiana?  A renderlo impossibile è la stessa separazione a priori, fatta dall’autore, tra una dimensione storica che esclude la compenetrazione col trascendente e una trascendenza che non può essere cercata nella storia.

Se poi, in nome della «identità che sta tra il mistero divino e il mistero umano», la divinità di Cristo si riduce a un’apertura all’universalità di una legge morale, di cui ogni essere umano può essere rappresentante quanto Gesù, la Buona Notizia che Dio, Dio in persona, si è fatto uomo, assumendo la nostra vita in ogni suo aspetto, viene definitivamente vanificata.

È veramente questo che può restituire al cristianesimo il suo fascino agli occhi dei nostri contemporanei? Eliminare la scandalo dell’incarnazione della crocifissione – ma anche della resurrezione – di Dio, banalizzando il vangelo come un messaggio di giustizia e un’apertura generica al mistero forse lo renderebbe più gradito perché più inoffensivo, ma non certo più interessante. Soprattutto, al di là del gradimento o meno di cui sarebbe oggetto, lo svuoterebbe della sua carica rivoluzionaria, quella che duemila anni fa ha provocato la reazione dei contemporanei di Gesù, decisi a lapidarlo, gli dissero, «perché tu, che sei uomo, ti fai Dio» (Gv 10,33). 

 www.tuttavia.eu

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LA PAROLA FA UGUALI


Il capitale semantico della società: dalla parola che fa eguali a Barbiana, alla comunicazione significativa

di Daniele Scarampi 

Ogni lingua stabilisce un sistema di significati sconfinato e assai eterogeneo se rapportato ad altri sistemi: ecco perché, sulla spinta delle teorie di A. von Humboldt e per tutta la successiva prima metà del Novecento, è nata e poi si è consolidata la teoria del relativismo linguistico, ovverosia l’idea che la lingua possa influenzare il pensiero, determinare le concezioni e veicolare ovvero modificare la percezione della realtà da parte di ogni singolo individuo (Sapir, Whorf 2017).

Le diversità linguistiche sono pertanto divenute il mezzo per spiegare almeno parzialmente le differenze cognitive o culturali delle varie società, atteso che idee e concetti possono subire l’influenza della lingua e quest’ultima, sovente, utilizza i suoi strumenti per plasmarli. La lingua è dunque un agente trasformativo della realtà, include in sé la visione del mondo e la modifica oppure ne cambia i presupposti, stabilendo successivamente le modalità del pensiero di coloro che la utilizzano (Prato 2019): tra linguaggio e pensiero – come già ammoniva L.S. Vygotsky – sussiste infatti una relazione dinamica e un rapporto di stretta reciprocità perché i parlanti e gli scriventi decodificano la realtà mediante la lingua; del resto la nota ipotesi di E. Sapir e B. Whorf, linguisti e antropologi, conosciuta anche come ipotesi della relatività linguistica, asserisce che ogni lingua determina la struttura cognitiva di chi la pratica. In altri termini, una data lingua, per mezzo del suo vocabolario e delle sue strutture grammaticali, tende a influenzare il sistema cognitivo e il modo di percepire il mondo: di conseguenza, chi parla e scrive lingue diverse avrà una differente concezione della realtà.

Ogni lingua è tutt’altro che un mero mezzo d’accesso al pensiero; è piuttosto uno strumento attraverso cui il pensiero prende forma ed esercita un’influenza diretta sulla cognizione.

Ne consegue che le differenze tra le lingue testimoniano sempre le diverse sfumature attraverso le quali i vissuti degli individui vengono percepiti, cosicché accettare la diversità etnolinguistica significa anzitutto accettare le diversità tanto sociali quanto culturali tra i popoli; è indubbio che, oggi, intervenire educativamente nei linguaggi parlati o scritti significa anche intervenire sulle condizioni sociali di parlanti e scriventi.

Compito dell’istruzione è intendere gli altri e farsi intendere, in modo da possedere gli strumenti necessari per poter affrontare la quotidianità, con tutte le sue difficoltà e i suoi fallimenti. La parola fa eguali, salva, emancipa e ben lo aveva intuito don Lorenzo Milani con la sua scrittura collaborativa e riflessiva, antesignana dell’attuale cooperative learning, della peer education, della didattica laboratoriale e di quella per competenze. Attualmente sui banchi di scuola non ci sono più gli ospiti di Barbiana, ma ci sono i figli degli immigrati, i bambini e i ragazzi che portano il fardello di situazioni familiari disastrose, i bisogni educativi speciali non certificati, i numerosissimi minori non accompagnati, gli apolidi, i dispersi, gli abbandonati o i figli delle guerre: insomma le nuove povertà educative.

L’ottavo sacramento

Il compito della scuola, che don Milani definiva l’ottavo sacramento, è inseguire un ideale di giustizia ed equità sociale e tradurlo in una serie di azioni pratiche e concrete, a supporto di ogni discente. Perché la scuola che sa accogliere è anche quella che sa prendersi cura di ogni esigenza e soprattutto che sa mettere lo studente al centro dell’apprendimento.

Del resto la scuola non deve essere soltanto un luogo di trasmissione dei saperi, ma deve farsi spazio di ricostruzione del senso; l’educazione non è più soltanto un processo di istruzione, ma è un atto di ricomposizione semantica del mondo: là dove i linguaggi si moltiplicano e si frammentano, la scuola deve diventare il luogo in cui si genera il capitale semantico della società, ovverosia l’insieme dei significati condivisi che permettono a una comunità di pensare, comunicare e progettare il proprio futuro (Fundarò 2025). Questa è la più intima eredità di Barbiana.

Il nostro tempo è attraversato da una profonda crisi del significato, dovuta all’infodemia che la rivoluzione digitale ha generato; per cui l’aumento della mole informativa non corrisponde a un aumento di conoscenza, semmai la disgrega e la parcellizza.

Educare, pertanto, significa anche e soprattutto costruire la competenza semantica, cioè la capacità di attribuire significati condivisi, costruire relazioni di senso e riconoscere le connessioni tra le informazioni. La scuola, in questa prospettiva, ha l’obbligo di custodire e implementare il capitale semantico, cosicché – nella selva dei linguaggi frammentati – si possa perseguire l’unità del senso, condurre verso la responsabilità della parola e dare forma al pensiero.

La sfida educativa dei nostri giorni – come ben hanno intuito L. Floridi (2024) e A. Fundarò (2025) – non è reperire dati e informazioni, ma piuttosto comprenderli, interpretarli e trasformarli in conoscenza, poiché la competenza semantica presuppone tre dimensioni fondamentali: la capacità di decodificare testi e messaggi, l’attitudine a valutare la verosimiglianza delle informazioni e, non in ultimo, la creatività cognitiva, ossia l’abilità nel generare nuovi significati a partire dai dati disponibili.

Capitale semantico

D’altronde il capitale semantico è quella sommatoria di contenuti che consente di dare un senso alle esperienze vissute, alimentando processi di interpretazione, comunicazione e comprensione reciproca: l’eredità invisibile fatta di parole condivise, esperienze sedimentate, simboli riconoscibili; in un mondo dove i devices sanno già comunicare e il web veicola la conoscenza, il vero traguardo è comprendere, selezionare, interpretare i messaggi orali e scritti in modo da restituire significati comprensibili a tutti e combattere la disinformazione. Oltretutto ragionare sulle parole, usate nelle più disparate situazioni, ci aiuta a capire un po’ meglio come funziona la lingua.

Ora, se il fine ultimo dell’istruzione è creare individui consapevoli, il traguardo che la scuola deve imporsi è quello di emancipare le persone dai gioghi culturali e sociali, per poi condurle verso lo sviluppo d’una coscienza critica utile a far valere sempre quei diritti fondamentali troppo spesso vilipesi e calpestati. Ecco dove nasce la pedagogia dell’aderenza assai cara al Priore di Barbiana: partendo dall’ambiente in cui vive, lo studente costruisce la propria conoscenza e il docente, nell’organizzare i significati, struttura con il discente un ambiente d’apprendimento efficace e operativo. Dal particolare all’universale allievo e maestro pattuiscono regole comuni.

Quindi, costruito un apprendimento significativo, la pedagogia dell’aderenza accompagna verso lo sviluppo di quella che C. Rinaldi (2024) definisce «intelligenza sensibile» – naturale evoluzione dell’intelligenza emotiva di M. Goleman – che, trascendendo l’empatia, raggiunge un livello assai profondo di comprensione sensoriale.

Non si tratta solamente di comprendere ciò che il nostro interlocutore prova sul piano emotivo, ma di ascoltare anche i suoi segnali più sottili e corporei che costituiscono un fondamentale feedback comunicativo. La comunicazione efficace non è fatta soltanto da un uso sapiente delle parole, ma anche dalla capacità di ascolto attivo, che consente di accogliere l’altro, di creare un clima di fiducia reciproca, di mettersi in frequenza comprendendone i messaggi e stabilendo quelle connessioni indispensabili al superamento di attriti e incomprensioni.

In conclusione vale la pena osservare che, da sempre, l’identità di un popolo o di una cultura è legata inscindibilmente alla lingua, in quanto scrigno di valori culturali e punti di vista differenti resi manifesti per il tramite degli strumenti lessicali e delle regole grammaticali. Tuttavia lingua e identità sono concetti mobili, in continua evoluzione, ed ecco che il capitale semantico fornisce gli strumenti concettuali per dare senso alla realtà e creare un senso di appartenenza.

 

Biblio-sitografia

Bramante, R.P., Ascolto attivo: una competenza silenziosa, , 24 ottobre 2025.

Fundarò, A., Il capitale semantico dell’educazione: costruire identità e senso nell’era digitale, , 31 ottobre 2025.

Genovese, G.A., , Erickson.it, 23 gennaio 2025.

Laudisa, E., , GoodJob.Vision, 4 febbraio 2024.

, Rivista.ai, 31 ottobre 2024

Prato, A., , IstitutoEuroArabo.it, 2019.

Rinaldi, C., , Milano, Egea, 2024.

Ronchi, M., , econopoli.ilsole24ore.com,16 ottobre 2025.

Sapir, E., Whorf, B., , Cassarai, M., Crucianelli, E. (ed.), Roma, Castelvecchi, 2017.

Scarampi, D., L’ottavo sacramento: una scuola che accoglie. La lezione di don Milani, Firenze, Giunti Scuola, 2021.

Scarampi, D., , Lingua italiana, Treccani.it., 2023.

Treccani 

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venerdì 5 dicembre 2025

GENITORI E INTELLIGENZA ARTIFICIALE

 

Genitori nell’era dell’Intelligenza Artificiale

 la sfida che non possiamo delegare

 

 

 di Giovanna Abbagnara

 

Un adolescente seduto sul letto, lo schermo illuminato davanti al viso, le cuffie nelle orecchie. Parla a qualcuno che non vediamo. Sorride. Si confida. Chiede consigli ma dall’altra parte non c’è un amico, non c’è un adulto affidabile, non c’è nemmeno un coetaneo. C’è una chatbot. Un algoritmo. Un programma addestrato a essere sempre disponibile, sempre gentile, sempre d’accordo. Questa scena non appartiene più alla fantascienza malinconica di “Her”. È già entrata nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre famiglie – spesso senza che ce ne accorgessimo.

Chi sta educando davvero i nostri figli? I nuovi chatbot “affettivi”, gli AI Companion, non si limitano a rispondere alle domande: costruiscono relazioni. Assumono identità, imitano personaggi, si modellano sulle emozioni dell’utente. E soprattutto non deludono mai: non rimproverano, non dissentono, non hanno limiti.

La tentazione per un adolescente è fortissima: un “amico perfetto” sempre disponibile, che ti ascolta anche alle tre di notte, che ti consola, che ti dà ragione ma questa perfezione è artificiale, e proprio per questo pericolosa.

Le prime ricerche – e alcune inchieste giornalistiche internazionali – mostrano quanto possa diventare forte la dipendenza emotiva, fino a sostituire legami reali, amicizie vere, il dialogo con i genitori. Stiamo consegnando ai nostri figli uno strumento capace di insinuarsi dove noi facciamo fatica ad arrivare: nel buio delle loro incertezze, nelle domande più intime, nei turbamenti dell’età dello sviluppo. E spesso il chatbot risponde. Anche quando non dovrebbe.

Google ha da poco annunciato che il suo chatbot Gemini sarà disponibile anche per i bambini sotto i 13 anni tramite Family Link. Nella stessa comunicazione invita i genitori alla prudenza e avverte che potrebbero comunque comparire contenuti inadatti. Una contraddizione che non possiamo ignorare. Il mercato dell’AI sta correndo verso gli utenti più piccoli: più sono giovani, più cresceranno fedeli alle piattaforme. Noi genitori sappiamo bene, o almeno dovremmo sapere, che non tutto ciò che è innovativo è automaticamente buono.

Vent’anni fa ci siamo detti la stessa cosa dei social: “Porteranno connessione, amicizia, creatività”. Oggi contiamo i danni di quell’entusiasmo cieco: dipendenze, ansia, disturbi del sonno, isolamento, polarizzazione. Vogliamo davvero ripetere l’errore?

 La legge esiste, ma da sola non basta. La normativa italiana ha fissato il limite dei 14 anni per l’uso autonomo delle piattaforme e dell’AI generativa. AGCOM ha imposto filtri sulle SIM dei minorenni. Sono passi importanti ma ogni educatore lo sa: nessuna legge può sostituire il legame educativo. Nessun divieto può tenere se un ragazzo è lasciato solo davanti a uno schermo che gli promette comprensione infinita. Il vero lavoro si gioca altrove: nel rapporto quotidiano, nella testimonianza degli adulti, nella capacità della comunità di assumersi la responsabilità dei più giovani.

Serve un patto educativo. Non per frenare l’innovazione, ma per salvaguardare l’umano. In molte scuole, oratori, associazioni, famiglie si sta diffondendo l’idea di un patto digitale di comunità: decidere insieme quando consegnare lo smartphone, stabilire regole comuni, sostenersi a vicenda di fronte alla pressione sociale che ci vuole tutti sempre connessi. 

Qui si trovano informazioni importanti: Patti digitali.it. 

È una strada concreta, realistica. Perché il problema non è lo smartphone, né l’intelligenza artificiale in sé. Il problema è la solitudine dei nostri figli, e la tentazione degli adulti di delegare troppo. L’AI può essere un aiuto straordinario – anche educativo. Ma non può prendere il posto di una madre che ascolta, di un padre che accompagna, di una comunità che protegge. Non ha un cuore, non ha una storia, non ha amore da donare. Ha solo dati. E agli adolescenti questo non basta. Anche se, nell’immediato, sembra rassicurante.

Alla fine, la questione è una sola, ed è urgente: vogliamo che i nostri figli imparino a vivere da un algoritmo, o da noi? La risposta non la daranno le aziende, né le istituzioni, né la tecnologia. La daremo noi genitori, scegliendo se restare vigili, presenti, coraggiosi – oppure lasciare che siano le chatbots a educare i nostri ragazzi nel momento più fragile della loro crescita. Siamo ancora in tempo. Ma il tempo sta correndo veloce. Come sempre, più della tecnologia corre il cuore dei nostri figli, che cercano qualcuno che li guardi negli occhi e dica loro: “Ci sono. Possiamo parlarne”. E questo, nessuna chatbot potrà mai farlo al posto nostro.

 Leggi anche: L’uomo nell’era delle macchine

Punto Famiglia



GIOVANI E VIOLENZA


Io, magistrato, vi dico dove nasce

 la violenza 

dei ragazzi perbene

 

-         di Luciano Moia

 

Dopo il caso di corso Como, in cui è stato accoltellato uno studente, parla il procuratore minorile di Milano, Luca Villa: «Guardate ai dati delle aggressioni fisiche che alcuni adolescenti infliggono agli stessi genitori: le denunce erano 5 o 6 qualche anno fa, oggi sono 106 all'anno.

E sono la spia di possibili reati futuri, a danno di donne e coetanei».

Ma può capitare che un ragazzo che studia e frequenta l’oratorio, che non ha mai dato problemi in famiglia, che appare equilibrato e addirittura educato, a un certo punto si lasci invischiare da un gruppo di coetanei balordi, prenda l’abitudine di uscire di casa con il coltello in tasca e finisca per essere protagonista di violenze assurde e immotivate, come quelle capitate qualche giorno fa in corso Como, a Milano?

Episodi che, visti in superficie, sembrano creati apposti per suscitare reazioni stupite e quasi incredule: ma come?

Un ragazzo così a modo, un figlio di famiglie perbene.

Impossibile.  No, purtroppo.

Sono situazioni che si verificano sempre più spesso e su cui occorre riflettere.

Luca Villa, magistrato di lungo corso, vasta esperienza con i giovanissimi più fragili, procuratore minorile a Milano, scuote la testa con amarezza.

Se fosse un politico, uno di quelli abituati a ributtare la palla nel capo avversario e a lavarsene le mani, risponderebbe più o meno così: «Ma come facciamo noi magistrati a raddrizzare quello che né la società, né la famiglia, né la scuola sembrano ormai non riuscire più a controllare».

E in buona parte avrebbe ragione.

Ma per fortuna non è un politico di quella pasta e lui le mani se le sporca tutti i giorni, ascoltando ragazzi e genitori, raccogliendo la loro sofferenza, cercando nuove soluzioni a problemi sempre più complessi.

È un magistrato, certo, ma anche un padre di tre figli.

Conosce fin troppo bene il mondo che abbraccia e talvolta confonde, disorienta i giovanissimi.

È convinto che solo un rinnovato e originale impegno educativo possa servire per sanare ferite che la repressione non riuscirà mai a fare.

E poi ci sono alcune derive, insospettabili solo fino a pochi anni fa, che lo preoccupano in modo particolare.

Mercoledì, Giornata mondiale contro le violenze sulle donne, ci sono stati grandi dibattiti anche sui maltrattamenti in famiglia, si è riparlato di maschilismo e di patriarcato.

Tutto giusto, ma Villa invita a considerare anche qualche altro dato, a cominciare dall’abbassamento dell’età degli autori di reato.

E, in queste violenze familiari, ci sono anche i maltrattamenti che i figli adolescenti infliggono ai genitori.

Violenze verbali ma anche e soprattutto fisiche, percosse, danneggiamenti gravi che costringono madri e padri, di fronte all’impossibilità di arginare diversamente la furia dei loro ragazzi, a far intervenire la polizia.

«Fino a qualche anno fa registravamo 5 o 6 denunce l’anno per casi del genere.

Nel 2024 siamo arrivate a 106 denunce solo a Milano.

E parliamo di famiglie che, secondo un certo modo di dire, definiamo “normali”, famiglie italiane ma anche immigrate di seconda generazione, perfettamente integrate, con una casa e un lavoro».

La violenza è diventata uno stile di vita che i ragazzi scelgono per una sorta di adeguamento al peggio.

I maltrattamenti che oggi infliggono ai genitori domani diventeranno abituali verso i figli o le compagne.

La ragione di questa spirale che appare sempre più diffusa?

Il responsabile della procura minorile di Milano non ha dubbi. «Il fattore scatenante – spiega – è l’isolamento relazionale in cui piombano questi ragazzi.

Il meccanismo d’innesco può essere una canna a cui segue il nirvana dei videogiochi e dei social in cui si immergono troppo spesso fino a notte fonda.

In questa realtà parallela i risultati scolastici peggiorano, si medita il ritiro e si scatenano le liti familiari.

Le relazioni si deteriorano, cominciano i maltrattamenti, la violenza diventa linguaggio abituale».

In questo cortocircuito relazionale, in cui troppo spesso le reazioni di madri e padri sembrano contrassegnate da profondo analfabetismo affettivo, si finisce inconsapevolmente per consegnare i figli alla logica della violenza.

Escono di casa con taglierini, lame a serramanico, ma anche con coltelli da cucina.

E le ragazze si adeguano.

Lo spray al peperoncino che tutte ormai hanno in borsetta, meglio se fuorilegge perché con una percentuale di principio attivo più alto, sembra più uno strumento offensivo che difensivo.

«Quando in udienza ascolto i ragazzi che affrontano il periodo della messa alla prova, chiedo loro: “Com’è la tua routine serale?”.

La maggior parte è contenta di misurarsi nelle varie attività di volontariato ma poi in pochissimi riescono a liberarsi dal ricorso alla cannabis.

“Mi serve per dormire”, si giustifica qualcuno.

Ma non è vero e se io propongo loro di rivolgersi alla nostra assistenza medica per superare il problema, avverto resistenze, spesso non si intende neppure tentare».

Insomma, se i tentativi di recupero di questi ragazzi sono un dovere, le probabilità di successo non sono mai scontate.

Anche perché, come già accennato, i giudici minorili troppo spesso sono costretti ad operare senza il sostegno delle famiglie e con risorse limitate.

«Il venir meno della socialità spontanea, quella di piazza, è un altro degli aspetti che più mi preoccupano.

Oggi la socialità è quella del web, della rete.

Tanto comoda ma anche tanto ingannevole.

Sui social la violenza, tanto per tornare ai nostri argomenti, è sempre spostata sul piano ludico.

Quando poi si pretende di trasferire quel tipo di violenza nella realtà, si fanno grandi guai e si causano sofferenze profonde.

Ma i ragazzi non si accorgono, spesso non immaginano neppure quanto dolore producono quei gesti».

Per questo, quando si tratta di stilare progetti di messa alla prova, il procuratore minorile di Milano chiede sempre che vengano inseriti momenti di consapevolezza per quanto riguarda la relazione d’aiuto con una persona fragile.

«Obblighiamo questi ragazzi a stabilire una relazione empatica, a riscoprire il contatto con l’umanità sofferente.

Più realtà e meno virtuale.  Non credo esista altra strada.

Ma noi genitori dobbiamo essere i primi a dare il buon esempio.

E invece…».

 

www.avvenire.it

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I GIOVANI E LA SPERANZA


 Il cardinale Zuppi: 

per i ragazzi serve un’alleanza sociale

 per la speranza

L’intervento del presidente della Conferenza episcopale italiana al convegno di studio ‘Giovani e dipendenze’ promosso, il 3 dicembre a Roma, dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile. Da gennaio un percorso di ascolto unirà per un anno Cei, Caritas, comunità terapeutiche e di accoglienza

 

- Giovanni Zavatta – Città del Vaticano

C’è un problema grave in Italia, forse sottovalutato, che «sembra invisibile», e riguarda i giovani. Prende vari nomi (alcol, cannabis, sigarette elettroniche, psicofarmaci, gioco d’azzardo, smartphone, pornografia) ma in tutti i casi nasconde disagio, solitudine, sofferenza. E «la sofferenza è un grido: dobbiamo ascoltarlo e capire cosa ci chiede». C’era anche il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Maria Zuppi, ieri 3 dicembre al seminario di studio Giovani e dipendenze promosso a Roma dal Servizio nazionale per la pastorale giovanile. L’occasione per un confronto e una riflessione sulle dipendenze giovanili ma soprattutto per proporre strumenti concreti e costruire alleanze. Non solo parole, quindi, ma fatti che a partire dal gennaio del 2026 si espliciteranno in un percorso di ascolto promosso assieme da Cei, Caritas Italiana, Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche) e Cnca (Coordinamento nazionale comunità accoglienti), attraverso laboratori territoriali ai quali parteciperanno studenti, famiglie, insegnanti, educatori e referenti diocesani: ascolto dei giovani, raccolta delle buone prassi nei territori, successiva lettura dei dati, restituzione finale nel dicembre del 2026, come hanno spiegato don Marco Pagniello, direttore di Caritas Italiana, ed Elisabetta Piccioni, responsabile comunicazione della Fict.

La diffusione di sostanze illegali

«Dobbiamo lasciarci ferire dalla sofferenza delle persone», ha detto Zuppi: «Non bastano calmanti ai problemi, servono progetti che liberano davvero. La repressione da sola non risolve le dipendenze, ci vuole un’alleanza sociale per la speranza. La complessità non si affronta con semplificazioni o polarizzazioni. Serve conoscenza, coraggio e pazienza. Non possiamo perdere gli “incubatori” di umanità: la loro esperienza e motivazione sono un tesoro», ha aggiunto il presidente della Cei citando lo sport come «grande via di socializzazione». Walter Nanni, sociologo Caritas, ha ricordato dati preoccupanti: tra i ragazzi fra i 15 e i 19 anni l’uso di sostanze legali e illegali è diffuso, soprattutto fra i maschi, mentre molte femmine utilizzano psicofarmaci senza prescrizione. Senza parlare dei giovani che, specialmente nei fine settimana, si stordiscono con superalcolici e droghe pesanti.

Coinvolgere i giovani

«Per ricostruire insieme bisogna avere il coraggio di rimettere in discussione il sistema», ha osservato Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana comunità terapeutiche. Per anni, ha quindi indicato, è stato costruito «un modello fatto di categorie, settori, comparti; un modello frammentato che non parla più ai ragazzi e non parla più tra sé». Ciò che serve oggi, è il coraggio «per rimettere in discussione i presupposti su cui abbiamo costruito i nostri servizi e i nostri percorsi educativi. E farlo non da soli, ma insieme ai giovani, coinvolgendoli davvero nella costruzione dei percorsi, nelle scelte, nelle visioni». Tutto questo significa, ha proseguito Squillaci, fare dei ragazzi non più destinatari passivi, quanto parte integrante del processo, «creando luoghi veri, laboratori, tavoli, spazi di confronto, in cui dirci le cose con sincerità. Perché senza verità non si costruisce nulla. Altrimenti continueremo a immaginare un mondo di cartone, dove persino il Covid non ci ha insegnato il senso del limite e della finitezza. E rischiamo di offrire ai giovani una vita senza fine e quindi senza un fine. Ripartire dalla verità, dalla relazione e dalla co-costruzione è l’unico modo per ricominciare davvero». 

Di fronte ad un fenomeno così complesso e diffuso serve quindi un approccio integrato, mettendo assieme uffici, parrocchie, gruppi e realtà ecclesiali, il che «non è solo una strategia efficace ma un dovere verso i nostri giovani».

Vatican News

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giovedì 4 dicembre 2025

NONOSTANTE TUTTO


 Volontari, l’esercito 

dei “nonostante”

Nella Giornata mondiale del Volontariato, dedichiamo a loro la homepage del nostro sito, con le “dieci parole” che oggi sono i motori del volontariato. È il nostro "grazie" ai 4,7 milioni di italiani che si spendono gratuitamente per gli altri e per il bene comune: oggi, nonostante tutto. Le dieci parole sono tratte dal magazine di novembre, "Volontario perché lo fai?”: un numero schierato, che difende con forza le ragioni e il senso del “noi ci impegniamo”. Insieme, rappresentano una sorta di riscrittura, ai giorni nostri, del bellissimo testo che don Primo Mazzolari scrisse nel 1949, che vi riproponiamo qui nella sua versione originale

 di Sara De Carli

 A muovere l’azione volontaria, le ricerche ce lo dicono da qualche anno, non è più la solidarietà. In un tempo segnato dalla cifra dell’impotenza, il “voler cambiare il mondo” suona per lo più come utopia. E se c’è chi sceglie rage-bite come “parola dell’anno”,  noi diciamo che il volontariato è l’antidoto più potente alla rabbia, al cinismo, alla rassegnazione. Come scrive su VITA Riccardo Guidi, «il volontariato è una delle più preziose strategie collettive per reagire alla frustrazione attraverso la cura». E come ci ha ricordato Andrea Cardoni, citando il poeta Angelo Maria Ripellino durante la presentazione del magazine che abbiamo fatto a Firenze, «siamo tutti dei “nonostante” sferzati dal vento, che cercano di resistere alle sofferenze della vita».

Il numero di VITA dedicato ai volontari, “Volontario, perché lo fai?” è un numero schierato: una scelta di campo e un grandissimo “grazie” ai milioni di volontari che in Italia, ogni giorno, si dedicano agli altri e al bene comune. Nella Giornata mondiale del Volontariato, dedichiamo a loro la homepage del nostro sito, con le “dieci parole” che oggi rappresentano i motori del volontariato: da “comunità” a “frustrazione”, da “desiderio” a “immaginazione”.

Le dieci firme che riflettono sui nuovi motori del volontariato

Insieme, rappresentano una sorta di riscrittura, ai giorni nostri, del bellissimo e sempre attuale testo che don Primo Mazzolari scrisse nel 1949, Il nostro impegno, qui nella versione originale condivisa dalla Fondazione don Primo Mazzolari. Ripartiamo da qui, ripartiamo da noi.

Il nostro impegno

Ci impegniamo

noi e non gli altri

unicamente noi e non gli altri

né chi sta in alto né chi sta in basso

né chi crede né chi non crede.

Ci impegniamo

senza pretendere che altri s’impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo.

 Ci impegniamo

senza giudicare chi non s’impegna

senza accusare chi non s’impegna

senza condannare chi non s’impegna

senza cercare perché non s’impegna

senza disimpegnarci perché altri non s’impegna.

Sappiamo di non poter nulla su alcuno né vogliamo forzar la mano ad alcuno, devoti come siamo e come intendiamo rimanere al libero movimento di ogni spirito più che al successo di noi stessi o dei nostri convincimenti.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo si muta se noi ci mutiamo si fa nuovo se alcuno si fa nuova creatura imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi

Noi non possiamo nulla sul nostro mondo, su questa realtà che è il nostro mondo di fuori, poveri come siamo e come intendiamo rimanere e senza nome. Se qualche cosa sentiamo di potere — e lo vogliamo fermamente — è su di noi, soltanto su di noi.

Il mondo si muove se noi ci muoviamo

si muta se noi ci mutiamo

si fa nuovo se alcuno si fa nuova creatura

imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi.

L’ordine nuovo incomincia se alcuno si sforza di divenire un uomo nuovo.

La primavera incomincia col primo fiore

la notte con la prima stella 

il fiume con la prima goccia d’acqua  

l’amore col primo sogno. 

Ci impegniamo  perché… 

Noi sappiamo di preciso perché c’impegniamo: ma non lo vogliamo sapere, almeno in questo primo  momento, secondo un procedimento ragionato, l’unico che soddisfi molti anche quando non  capiscono, proprio quando non capiscono. 

Questo sappiamo e più che agli altri lo diciamo a noi stessi: 

Ci impegniamo  perché non potremmo non impegnarci. 

C’è qualcuno o qualche cosa in noi — un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia — più forte  di noi stessi. 

Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che non si sa di preciso donde vengano, ma che  costituiscono la più sicura certezza, l’unica certezza nel disorientamento generale. Lo spirito può aprirsi un varco attraverso le resistenze del nostro egoismo anche in questa maniera,  disponendoci a quelle nuove continuate obbedienze che possono venire disposte in ognuno dalla coscienza, dalla ragione, dalla fede. 

Ci impegniamo 

per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita, una ragione che non sia una delle tante ragioni che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore, un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte ai giovani dalla gente pratica. Si vive una sola volta e non vogliamo essere «giocati» in nome di nessun piccolo interesse. 

non ci interessa la carriera 

non ci interessa il denaro 

non ci interessa la donna se ce la presentate come femmina soltanto 

non ci interessa il successo né di noi stessi né delle nostre idee 

non ci interessa passare alla storia. 

Abbiamo il cuore giovane e ci fa paura il freddo della carta e dei  marmi 

non ci interessa né l’essere eroi né l’essere traditori davanti agli uomini se ci costasse la fedeltà a noi stessi. 

Ci interessa  di perderci per qualche cosa o per qualcuno che rimarrà anche dopo che noi saremo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci. 

ci interessa 

di portare un destino eterno nel tempo  

di sentirci responsabili di tutto e di tutti 

di avviarci, sia pure attraverso lunghi erramenti, verso l’Amore, che ha diffuso un sorriso di poesia  sovra ogni creatura, dal fiore al bimbo, dalla stella alla fanciulla, che ci fa pensosi davanti a una culla  e in attesa davanti a una bara. 

Ci impegniamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo 

Ci impegniamo 

non per riordinare il mondo  

non per rifarlo su misura  

ma per amarlo 

per amare 

anche quello che non possiamo accettare  

anche quello che non è amabile  

anche quello che pare rifiutarsi all’amore  

poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è, insieme a una grande sete d’amore, il volto e il cuore  dell’Amore. 

Ci impegniamo 

perché noi crediamo all’Amore,  

la sola certezza che non teme confronti,  

la sola che basta per impegnarci perdutamente.

 La fonte della citazione è P. Mazzolari, Impegno con Cristo, ed. critica a cura di G. Vecchio, EDB, Bologna, 2007. La foto in apertura è di Anffas. La foto di don Primo Mazzolari è di LaPresse

VITA

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