sabato 13 dicembre 2025

HAMAS E ISRAELE

 


I crimini 

contro l’umanità 

di Hamas,

 e quelli di Israele

 

Amnesty International documenta il genocidio e l'apartheid commessi da Israele e i crimini di guerra di Hamas e altri gruppi armati palestinesi, in particolare l'attacco del 7 ottobre 2023. «I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità», dice Agnès Callamard, segretaria generale dell'organizzazione.

 

di Redazione

 Al termine dell’Assemblea degli stati parte della Corte penale internazionale, svoltasi all’Aja, Amnesty International ha chiesto agli stati di dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale assicurando che le vittime dei crimini di guerra, dei crimini contro l’umanità e del genocidio nel Territorio palestinese occupato e in Israele vedano i responsabili chiamati a risponderne.

«Il sistema di giustizia Internazionale è sotto attacco ed è di fronte a minacce alla sua esistenza. Non c’è maggiore banco di prova della situazione in Israele e nel Territorio palestinese occupato. Gli stati devono dimostrare il loro impegno per la giustizia internazionale sostenendo organismi come la Corte penale internazionale e proteggendo la possibilità che essa giudichi i responsabili di crimini internazionali», ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International.

Amnesty International ha ampiamente documentato come Israele abbia commesso e stia continuando a commettere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza, persino dopo il cessate il fuoco, e come il suo sistema di apartheid costituisca un crimine contro l’umanità. L’organizzazione per i diritti umani ha pubblicato anche un’approfondita ricerca sui crimini di guerra e sui crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi durante e dopo gli attacchi lanciati il 7 ottobre 2023.

«I leader mondiali hanno accolto con favore la risoluzione adottata il mese scorso dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sul piano per una pace sostenibile nella Striscia di Gaza. Ma decenni di crimini internazionali non possono essere nascosti sotto il tappeto proprio mentre gli accordi in essere ignorano la ricerca delle responsabilità e rafforzano l’ingiustizia. Verità, giustizia e riparazioni sono le fondamenta di una pace duratura», ha aggiunto Callamard. «Chiediamo a tutte le parti coinvolte in Israele e nel Territorio palestinese occupato, così come alla comunità internazionale che nutre preoccupazione per le evidenti mancanze insite nella risoluzione del Consiglio di sicurezza, di sviluppare e impegnarsi a realizzare una roadmap verso la giustizia e le riparazioni, i cui obiettivi siano da un lato la fine del genocidio israeliano, del sistema di apartheid e dell’occupazione illegale del territorio palestinese e dall’altro la persecuzione dei crimini internazionali commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi».

Per garantire una giustizia genuina, efficace e significativa e la non ripetizione dei crimini internazionali, Amnesty International ha raccomandato che questa roadmap si fondi sulla complementarità di più istituzioni e meccanismi giudiziari.

Le indagini della Corte penale internazionale sui crimini commessi dal lato israeliano e da quello palestinese devono andare avanti senza essere ostacolate e prendere in considerazione tanto il genocidio e il crimine contro l’umanità di apartheid da parte israeliana quanto i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 in modo da assicurare che tutte le singole persone – per lo meno, quelle ancora in vita tra le principali responsabili – siano portate di fronte alla giustizia.

La roadmap dovrebbe impegnare gli stati a sostenere e a collaborare pienamente con organismi quali la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la stessa Corte penale internazionale. Gli stati dovrebbero eseguire i mandati d’arresto della Corte e fare tutti i passi necessari per assicurare l’annullamento delle sanzioni e delle restrizioni imposte alle organizzazioni palestinesi per i diritti umani, che da decenni documentano le violazioni del diritto internazionale e ne rappresentano tutte le vittime.

Parallelamente ai meccanismi internazionali, gli stati possono tratteggiare un nuovo corso per la pace basato sulla giustizia attraverso gli organi giudiziari nazionali, la giurisdizione universale o ulteriori forme di giurisdizione penale extraterritoriale per i crimini commessi nel Territorio palestinese occupato e in Israele.

«Le vittime delle atrocità in Israele e nel Territorio palestinese occupato meritano una giustizia autentica. Questo significa non solo vedere i responsabili processati e condannati ma anche assicurare rimedi effettivi e sviluppare garanzie di non ripetizione. Non c’è alcun dubbio che questi siano passi cruciali verso una pace e una sicurezza che durino nel tempo», ha commentato Callamard.

Il genocidio, l’apartheid e l’occupazione illegale

Trascorsi due mesi dall’annuncio del cessate il fuoco e rientrati in Israele tutti gli ostaggi ancora in vita, le autorità israeliane stanno ancora commettendo nella totale impunità il crimine di genocidio nei confronti della popolazione palestinese della Striscia di Gaza occupata, continuando a sottoporla deliberatamente a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, senza alcun segnale di un cambiamento nelle loro intenzioni. Amnesty International ha recentemente pubblicato un’analisi giuridica della situazione in atto che dimostra come il genocidio stia continuando, unita a testimonianze di abitanti della Striscia di Gaza e di personale medico e umanitario che hanno evidenziato le drammatiche condizioni in cui versa la popolazione palestinese. Nonostante una riduzione dell’intensità degli attacchi e alcuni limitati miglioramenti, non c’è un significativo cambiamento delle condizioni cui Israele sta sottoponendo la popolazione della Striscia di Gaza e non vi è alcuna prova che le intenzioni israeliane stiano mutando.

Almeno 327 persone, tra le quali 136 minorenni, sono state uccise dagli attacchi israeliani a partire dal 9 ottobre 2025, giorno in cui è stato annunciato il cessate il fuoco. Nel contesto del genocidio ancora in corso da oltre due anni, Israele ha intenzionalmente ridotto alla fame i civili palestinesi e limitato – nonostante alcuni modesti miglioramenti – l’accesso ad aiuti fondamentali e a forniture di soccorso, quali quelle mediche e le attrezzature necessarie per riparare infrastrutture indispensabili per la vita umana. Ha sottoposto la popolazione civile palestinese a successive ondate di trasferimenti forzati in condizioni inumane che hanno acuito la sua catastrofica sofferenza. Complessivamente almeno 70mila persone palestinesi sono state uccise e 200mila sono rimaste ferite, molte delle quali in un modo grave e che ha cambiato la loro vita.

La probabilità oggettiva che le attuali condizioni possano causare la distruzione della popolazione palestinese della Striscia di Gaza persiste tuttora. Ciò nonostante, le autorità israeliane non hanno mostrato un cambiamento nelle loro intenzioni: hanno ignorato tre serie di decisioni vincolanti della Corte internazionale di giustizia e non hanno indagato né sottoposto a procedimenti giudiziari le persone sospettate di atti di genocidio o chiamato a rispondere le autorità e i funzionari che hanno fatto dichiarazioni genocidarie. Le autorità responsabili della direzione e della commissione del genocidio restano al potere, con la garanzia di poter continuare a commettere atrocità. Il genocidio israeliano contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza va collocato nel contesto di una pervasiva impunità per il crimine contro l’umanità di apartheid tuttora in corso e di decenni di occupazione illegale del territorio palestinese.«È in questo scenario di apartheid e occupazione illegale che Israele ha intenzionalmente causato una carestia di massa, un bagno di sangue senza precedenti, livelli apocalittici di distruzione e massicci sfollamenti forzati e ha intenzionalmente bloccato l’aiuto umanitario: tutti esempi del crimine in corso di genocidio», ha commentato Callamard.

 In Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, il crudele sistema di apartheid israeliano e l’occupazione illegale costano assai caro alla popolazione palestinese. Le operazioni militari israeliane, compresi gli attacchi aerei, hanno causato l’uccisione di almeno 995 persone palestinesi tra le quali almeno 219 minorenni, lo sfollamento di decine di migliaia di esse ed estesi danni a infrastrutture civili essenziali, ad abitazioni e a terreni agricoli. Negli ultimi due anni c’è stato un aumento degli attacchi dei coloni sostenuti dallo stato israeliano, che hanno causato morti, feriti e sfollamenti tra la popolazione palestinese. L’Ufficio di coordinamento per gli affari umanitari delle Nazioni Unite ha documentato, dal gennaio 2025, oltre 1.600 attacchi dei coloni che hanno causato danni alle persone o a proprietà. Le comunità di pastori dell’area C sono quelle più colpite da questa ondata di incessante violenza sostenuta dallo stato israeliano. Nonostante le condanne internazionali e alcuni provvedimenti restrittivi adottati da stati terzi contro singoli coloni e loro organizzazioni, la violenza continua a crescere a causa del sostegno del governo israeliano e della pressoché totale impunità di cui beneficiano i coloni. Il piano di pace Trump è l’ultima di una serie di iniziative fatalmente manchevoli, che cercano di proporre “soluzioni” che ignorano il diritto internazionale premiando così implicitamente Israele per la sua occupazione illegale, i suoi insediamenti illegali e il suo sistema di apartheid che sono le cause di fondo delle continue atrocità inflitte alla popolazione palestinese.

Le condizioni stabilite durante l’attuale cessate il fuoco rafforzano ulteriormente il sistema israeliano di apartheid e l’occupazione illegale così come l’ingiustizia. L’imposizione, da parte israeliana, di un “perimetro di sicurezza” (una zona cuscinetto) nella Striscia di Gaza rischia di rendere permanente l’illegale occupazione israeliana e priva la popolazione palestinese delle sue terre più fertili, così come di perpetuare la frammentazione territoriale che puntella il sistema israeliano di apartheid impedendo la libertà di movimento delle persone palestinesi verso l’altra parte del territorio occupato. Analogamente, beneficiano dell’impunità le forze israeliane responsabili delle detenzioni arbitrarie, delle sparizioni e della sistematica tortura delle persone prigioniere palestinesi. Di recente il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura ha descritto una “politica statale de facto di maltrattamenti e torture organizzati e diffusi, gravemente intensificatasi dal 7 ottobre 2023” e ha espresso forte preoccupazione per le “ampie denunce di violenza sessuale nei confronti di prigioniere e prigionieri palestinesi, che costituiscono maltrattamenti e torture”. «L’ostinata mancanza di azione da parte della comunità internazionale per chiamare Israele a rispondere dei suoi crimini internazionali e premere affinché aderisca alle raccomandazioni dai meccanismi delle Nazioni Unite e delle organizzazioni internazionali per i diritti umani ha rafforzato l’occupazione illegale e l’apartheid e ha direttamente permesso a Israele di compiere il crimine di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza», ha ribadito Callamard.

I crimini contro l’umanità commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi

È a sua volta fondamentale assicurare giustizia per i crimini commessi dai gruppi armati palestinesi. A oltre due anni distanza, continuano a emergere resoconti delle atrocità da loro commessi durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 guidati da Hamas nel sud d’Israele e il successivo trasferimento di ostaggi nella Striscia di Gaza. Le persone sopravvissute agli attacchi, gli ex ostaggi e le loro famiglie continuano a tenere accesi i riflettori sull’esperienza passata e a chiedere giustizia e riparazioni. Il rapporto pubblicato da Amnesty International dà conto dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità commessi dall’ala militare di Hamas, le Brigate al-Qassam, e da altri gruppi armati palestinesi durante il loro assalto nel sud d’Israele e contro gli ostaggi successivamente portati nella Striscia di Gaza.

Nelle prime ore del 7 ottobre 2023, le forze di Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno lanciato un attacco coordinato, principalmente contro luoghi civili. Sono state uccise circa 1.200 persone, oltre 800 delle quali civili, compresi 36 minorenni: prevalentemente ebrei israeliani ma anche beduini con cittadinanza israeliana e decine di lavoratori, studenti e richiedenti asilo di nazionalità straniera. Sono state ferite oltre 4mila persone e centinaia di case e di strutture civili sono state distrutte o rese inabitabili. Attraverso l’analisi dello schema seguito negli attacchi, prove e contenuti delle comunicazioni tra le persone che vi stavano prendendo parte, Amnesty International ha concluso che questi crimini sono stati condotti nell’ambito di un attacco massiccio e sistematico contro una popolazione civile. Gli uomini armati hanno ricevuto istruzioni di prendere di mira persone civili.

«Le nostre ricerche hanno confermato che i crimini commessi da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi nei loro attacchi del 7 ottobre 2023 e contro le persone prese in ostaggio hanno fatto parte di un massiccio e sistematico assalto contro la popolazione civile e costituiscono pertanto crimini contro l’umanità», ha dichiarato Callamard. «Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno mostrato un abominevole disprezzo per la vita umana: hanno intenzionalmente e sistematicamente colpito civili nelle loro abitazioni e durante un festival musicale con l’obiettivo di prendere ostaggi, ciò che costituisce un crimine di guerra; hanno deliberatamente ucciso centinaia di civili, usando armi da fuoco e granate per portare fuori dalle loro stanze di sicurezza, o da altri luoghi in cui si nascondevano, persone terrorizzate, comprese famiglie con bambini piccoli o le hanno attaccate mentre erano in fuga. Amnesty International ha trovato prove che alcuni palestinesi si sono resi responsabili di pestaggi e aggressioni sessuali e hanno maltrattato i corpi di coloro che avevano ucciso», ha aggiunto Callamard.

Hamas ha sostenuto che le sue forze non sono state coinvolte negli omicidi mirati, nei rapimenti e nei maltrattamenti dei civili durante gli attacchi del 7 ottobre 2023 e che molti civili sono stati uccisi dal fuoco israeliano. Ma, sulla base di ampie prove, video inclusi, e testimonianze, Amnesty International è giunta alla conclusione che, seppure alcuni civili siano stati uccisi dalle forze israeliane nel tentativo di respingere gli attacchi, la vasta maggioranza delle persone morte è stata intenzionalmente uccisa da Hamas e da altri gruppi armati palestinesi, che hanno preso di mira luoghi civili lontani da qualsiasi obiettivo militare. Uomini armati palestinesi, comprese le forze di Hamas, sono stati allo stesso modo responsabili del rapimento di civili da più località e di violenza fisica, sessuale e psicologica contro le persone rapite.

Sono state 251 le persone, per lo più civili compresi anziani e bambini, prese in ostaggio e portate nella Striscia di Gaza. Nella maggioranza dei casi, sono state rapite vive ma si ritiene che 36 di esse fossero già morte. Queste persone sono state trattenute per settimane, mesi e in alcuni casi due anni. Alcuni degli ostaggi tornati vivi hanno riferito ad Amnesty International o in occasione di incontri pubblici di essere stati tenuti in catene in tunnel sottoterra per parte o per tutto il tempo e di aver subito intense violenze, privazioni e tormenti psicologici come la minaccia di esecuzione. Alcuni di loro hanno subito aggressioni e violenze sessuali e minacce di matrimonio forzato e sono stati costretti a stare nudi. Almeno sei ostaggi sono stati uccisi dai loro rapitori.

Amnesty International ha intervistato 70 persone: 17 sopravvissute agli attacchi del 7 ottobre 2023, familiari di vittime, medici legali, professionisti sanitari, avvocati, giornalisti e autori di indagini. I suoi ricercatori hanno visitato alcuni dei luoghi attaccati e hanno esaminato oltre 350 fotografie e video di tali luoghi e delle persone tenute in ostaggio nella Striscia di Gaza. Sulla base delle proprie indagini Amnesty International ha concluso che Hamas e altri gruppi armati palestinesi hanno commesso i crimini contro l’umanità di “uccisione”, “sterminio”, “imprigionamento o altra grave forma di privazione della libertà fisica in violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale”, “sparizione”, “tortura”, “stupro (…) o ogni altra forma di violenza sessuale di gravità comparabile” e “altri atti inumani”.

«Decenni di spaventose violazioni ai danni delle persone palestinesi e di occupazione illegale e di apartheid nonché il genocidio tuttora in corso nella Striscia di Gaza non possono giustificare in alcun modo questi crimini né esonerare i gruppi armati palestinesi dai loro obblighi di diritto internazionale. Le violazioni dei diritti umani da parte dei gruppi armati palestinesi nel contesto degli attacchi del 7 ottobre 2023 devono essere riconosciute e condannate per ciò che sono: crimini di atrocità. Hamas, inoltre, deve restituire senza alcuna condizione il corpo di una persona uccisa il 7 ottobre 2023 e presa in ostaggio non appena lo avrà localizzato», ha sottolineato Callamard.

Nelle ultime settimane il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato la costituzione di un comitato che esaminerà il processo decisionale del governo in occasione degli attacchi del 7 ottobre 2023. Questo annuncio è stato assai criticato, anche dalle persone sopravvissute agli attacchi e dalle famiglie di quelle uccise, in quanto privo di indipendenza e disallineato rispetto ai precedenti di commissioni d’inchiesta dirette da un giudice. Amnesty International chiede alle autorità dello Stato di Palestina di riconoscere e denunciare le gravi violazioni del diritto internazionale commesse dai gruppi armati palestinesi e di condurre indagini indipendenti e imparziali per identificare persone sospettate di aver commesso crimini di diritto internazionale nonché di cooperare totalmente coi meccanismi internazionali d’indagine, anche condividendo prove in loro possesso.

Una giustizia internazionale necessaria per tutte le vittime

Le indagini in corso della Corte penale internazionale sulla “situazione in Palestina” e i mandati d’arresto emessi dalla stessa Corte nei confronti del primo ministro Netanyahu e dell’ex ministro della Difesa Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità restano elementi fondamentali di un genuino accertamento delle responsabilità. Assumere iniziative per chiamare alti funzionari israeliani a rispondere di crimini di diritto internazionale è un passo essenziale per far terminare il genocidio israeliano nella Striscia di Gaza, per ripristinare la fiducia nel diritto internazionale e per assicurare a tutte le vittime dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità giustizia, verità e riparazioni.

Ad avviso di Amnesty International, la Corte penale internazionale dovrebbe proseguire a indagare sui crimini commessi dai gruppi armati palestinesi prima, durante e dopo gli attacchi del 7 ottobre, per assicurare che le persone sospettate di essere responsabili di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità siano portate di fronte alla giustizia. «Si tratta di questioni non negoziabili. I responsabili di crimini di diritto internazionale devono rispondere alla giustizia e le istituzioni che essi rappresentano, devono avviarsi lungo un percorso nuovo, basato sui diritti umani e sul diritto internazionale, anche adottando leggi che impediscano la futura ripetizione di tali violazioni. Tutte le parti devono riconoscere le proprie responsabilità e fornire piena collaborazione agli organismi investigativi e ai meccanismi della giustizia internazionale, come la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale, dando seguito alle loro raccomandazioni e permettendo loro di raccogliere, conservare e analizzare prove al fine di accertare le responsabilità. Le vittime devono essere ascoltate, devono essere riconosciute per ciò che hanno subito e devono ricevere rimedi efficaci, comprese le riparazioni. Senza queste misure concrete per assicurare verità e giustizia non potrà esserci alcuna pace duratura», ha concluso Callamard.

VITA

 


PREPARATE LE VIE DEL SIGNORE

 DOMENICA 14 DICEMBRE

Testo del Vangelo (Mt 11,2-11): In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».


«Giovanni era una voce provvisoria. Quando gli fu chiesto: ʽChi sei?ʼ Rispose: ʽIo sono la voce che grida nel deserto: Spianate il cammino del Signore!ʼ. Cosa significa: ʽSpianate il camminoʼ, se non: ʽPensate con umiltàʼ?» (Sant’Agostino)


Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”. In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

«Fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista»

Oggi, come la domenica scorsa, la Chiesa ci presenta il personaggio di Giovanni Battista Questi aveva molti discepoli ed una dottrina chiara e distinta: per i pubblicani, per i soldati, per i farisei e sadducei...Il suo impegno era quello di preparare la vita pubblica del Messia. Prima mandò Giovanni e Andrea, oggi manda altri affinché lo conoscano. Vanno con una domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro» (Mt 11,3) Giovanni sapeva bene chi era Gesù. Lo afferma lui stesso: «Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo» (Gv 1,33). Gesù risponde con i fatti: i ciechi vedono e gli zoppi camminano...

Giovanni era di carattere fermo nel suo modo di vivere e nel restare nelle Verità, cosa che pagò con il carcere ed il martirio. Anche in carcere parla esitosamente con Erode. Giovanni ci insegna ad unire la fermezza di carattere con l’umiltà «Non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (Gv 1,27); «Lui deve crescere io, invece, diminuire» (Gv 3,30); se ne compiace al sapere che Gesù battezzi più di lui, perché si considera solamente “amico dello sposo” (cf.Gv 3,26).

Per dirla in breve, Giovanni ci insegna a prendere sul serio la nostra missione sulla terra: essere cristiani coerenti, che sanno di essere ed agiscono come figli di Dio. Dobbiamo domandarci: -Come si saranno preparati Maria e Giuseppe alla nascita di Gesù? Come preparò Giovanni l’insegnamento di Gesù? Come ci prepariamo noi per commemorarlo per la seconda venuta del Signore alla fine dei tempi? Come, dunque, diceva san Cirillo di Gerusalemme: «Noi annunciamo la venuta di Cristo, non solo della prima, ma anche della seconda, molto più gloriosa della prima; giacché la prima stette impregnata dalla sofferenza, ma la seconda porterà la corona della gloria divina».

Evangeli.net

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I DUE CRISTIANESIMI

 


I due cristianesimi negli Stati Uniti 

al tempo di Trump

 

-         di Giuseppe Savagnone  



Il ruolo politico delle sette evangeliche

Si sente spesso parlare di islamismo – di solito per condannarne il fondamentalismo – come di un blocco monolitico. Nella stessa logica l’antisemitismo attacca gli ebrei senza distinzioni. E allo stesso modo anche il cristianesimo viene considerato una visione che ha caratterizzato in modo univoco la nostra civiltà, anche se oggi se ne registra il declino.

È raro che si sottolineino le profonde differenze che si riscontrano all’interno di queste religioni e che si manifestano anche nel loro rapporto con la politica. Per guardare a quella cristiana, che ci è più vicina e che pensiamo di conoscere meglio, è un esempio significativo di questi diversi approcci la situazione degli Stati Unti.

È noto il ruolo che hanno avuto le sette neo-evangeliche, nell’elezione di Donald Trump, sia nel primo che nel secondo mandato. Meno noto, forse, è di che cosa si tratta. L’evangelicalismo o evangelismo non prevede autorità religiose o la necessità di chiese consacrate: è un movimento teologico all’interno del protestantesimo (ampiamente maggioritario negli Stati Uniti) che si concentra sulla lettura della Bibbia, che non deve essere interpretata, ma considerata come “parola di Dio” e per questo insindacabile.

I membri di questi gruppi si considerano crociati impegnati in una lotta contro il male, nell’impaziente attesa dell’Apocalisse e del ritorno di Gesù Cristo. I loro principali testi di riferimento non sono i libri del Nuovo Testamento, ma quelli dell’Antico, che essi tendono a leggere in modo letterale. Da qui la convergenza con gli ebrei ortodossi che ritengono loro missione ricostituire l’antico Israele sul territorio che Dio steso gli aveva promesso, cacciando via le popolazioni arabe che vi si erano insediate nel frattempo.

Collegando la prospettiva vetero-testamentaria con quella neo- testamentaria, queste sette cristiane ritengono che proprio la ricostituzione del regno del popolo eletto in Palestina sia la condizione per la venuta del Messia da loro atteso. Da qui il sostegno politico ed economico allo Stato ebraico e le pressioni su Trump perché sia garante della sua sicurezza.

Organizzazioni come Christians United for Israel (CUFI), guidate da figure carismatiche come il pastore John Hagee, hanno avuto un peso decisivo nel riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale di Israele. La risoluzione dell’ONU del 1947 istitutiva dei “due Stati”, stabiliva che questa città, sacra all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, avesse uno statuto internazionale. Ma nel 1980 il primo ministro Menachem Begin fece approvare una Legge fondamentale che dichiarava Gerusalemme “Capitale una e indivisibile dello stato ebraico di Israele”.

A questo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha risposto, con 14 voti favorevoli, nessun contrario e una sola astensione (USA), dichiarando nulla e vana la legge in questione e ribadendo per gli Stati membri  l’obbligo di mantenere le loro ambasciate a Tel Aviv. L’unico capo di governo che ha sfidato questa decisione è stato Trump, che, durante il suo primo mandato, nel 2018 ha  spostato quella americana a Gerusalemme, per compiacere i suoi sostenitori evangelici.

Non è il solo esempio dell’appoggio delle sette cristiane a Israele. Un’inchiesta del giornale israeliano «Haaretz»,  nel 2018, ha svelato che diverse associazioni che gravitano nell’orbita dell’universo evangelista avevano donato più di 65 milioni di dollari in dieci anni alla causa israeliana. Questi soldi, sempre secondo «Haaretz», avevano finanziato le attività degli insediamenti illegali dei coloni israeliani in Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre, inoltre, secondo l’Associated Press, il CUFI e altre organizzazioni evangeliste avrebbe elargito diversi milioni di dollari  per finanziare la guerra di Israele a Gaza.

Trump non si è limitato ad ascoltare i leader evangelisti in politica estera:  ha loro riconosciuto un ruolo pubblico istituendo un Ufficio della Fede. Chiamando a guidarlo una telepredicatrice, Paula White – che da anni è una sua fidata consulente spirituale – , sostenitrice della “teologia della prosperità”, secondo cui Dio ricompensa i veri fedeli con ricchezza materiale e successo personale..

In questa occasione, il neo-presidente ha annunciato di voler «riportare la religione»  negli Stati Uniti. Rivelandosi anche in questo coerente con le dichiarazione fatte durante la sua campagna elettorale, che aveva  definito una «crociata giusta» contro «atei, globalisti e marxisti».

La posizione della Chiesa cattolica

Molto diversa da quella delle sette evangeliste, sicuramente,  la posizione dei cattolici americani. Anche se diversi vescovi, tra cui l’arcivescovo di New York Timothy Dolan,  hanno apertamente appoggiato la rielezione di Trump, bisogna tenere conto che l’alternativa era costituita da quella Kamala Harris che non ha trovato niente di meglio per la sua campagna elettorale che sventolare continuamente la bandiera della libertà di aborto.

Ed invece è stata decisa l’opposizione dei vescovi cattolici a Trump quando ha cominciato a delineare la sua politica volta a «rendere di nuovo grande l’America». Il presidente della Conferenza Episcopale statunitense, l’arcivescovo Timothy Broglio, in un comunicato, ha attaccato le disposizioni contenute negli ordini esecutivi riguardanti il trattamento degli immigrati e dei rifugiati, gli aiuti ai paesi poveri e l’ambiente. Esse, ha detto, «ignorano non solo la dignità umana di pochi ma di tutti noi».

In particolare, davanti al progetto di deportazione sistematica degli immigrati, monsignor Mark Joseph Seitz, vescovo di El Paso e presidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale, ha dichiarat:o  «L’uso di generalizzazioni radicali per denigrare qualsiasi gruppo, ad esempio descrivendo tutti gli immigrati clandestini come “criminali” o “invasori”, per privarli della protezione della legge, è un affronto a Dio che ha creato ciascuno di noi a sua immagine».

Sulla questione è intervenuto anche papa Francesco, con una lettera inviata ai pastori della Chiesa cattolica. «Un autentico stato di diritto – si legge nella comunicazione del Pontefice – si attua sulla base del trattamento dignitoso che meritano tutte le persone, soprattutto quelle più povere ed emarginate; il vero bene comune si promuove quando la società e i governi, con creatività e rispetto rigoroso dei diritti di tutti accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi e vulnerabili».

E il pontefice aggiungeva: «L’atto di deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, ferisce la dignità di tanti uomini e donne, di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità».

Il santo padre ha poi risposto alle parole del vice presidente JD Vance, che  pure si dichiara cattolico, il quale aveva giustificato le misure anti-immigrazione illegale assunte da Trump ricorrendo al concetto agostiniano dell’ordo amoris, secondo cui si deve pensare prima a se stessi, alla famiglia, ai vicini di casa, alla propria comunità, al proprio paese e solo poi a chi vive altrove.

Ordo amoris

«Il vero ordo amoris da promuovere – ha osservato il papa – è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del ‘buon Samaritano’, meditando cioè sull’amore che costruisce una fraternità aperta a tutti, nessuno escluso. Preoccuparsi dell’identità personale, comunitaria o nazionale, prescindendo da queste considerazioni introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà del più forte come criterio di verità».

Infine, nel novembre scorso, è stata tutta la Conferenza Episcopale cattolica a inviare un messaggio, approvato a larghissima maggioranza (216 sì, 5 no, 3 astensioni) in cui i vescovi esprimono il loro dissenso per una retorica che «vilipende gli immigrati» e per «le deportazioni di massa indiscriminate» in corso.

Papa Leone ha così commentato il comunicato: «Apprezzo moltissimo quanto detto dai vescovi. È una dichiarazione importante. Inviterei in particolar modo tutti i cattolici e tutte le persone di buona volontà ad ascoltare quello che hanno detto. Credo che dobbiamo cercare maniere di trattare la gente con umanità rispettando la loro dignità».

La questione di Gaza

Anche sulla questione di Gaza si nota una profonda differenza. Mentre le sette evangelicali hanno raccolto milioni di dollari per finanziare Israele, la sua guerra e le invasioni dei coloni, lo scorso 12 agosto mons. Broglio, presidente della Conferenza Episcopale, ha inviato una lettera ai suoi confratelli vescovi in cui diceva: «La nostra Chiesa piange per le terribili sofferenze dei cristiani e di altre vittime innocenti della violenza, che lottano per sopravvivere, proteggere i propri figli e vivere con dignità in condizioni disperate»,  e chiedeva di promuovere «una raccolta speciale per offrire aiuto umanitario e sostegno pastorale ai nostri fratelli colpiti a Gaza e nelle aree vicine del Medio Oriente».

In piena sintonia, ancora una volta, con la denuncia prima di papa Francesco, che ha parlato addirittura di «genocidio», e poi di Leone XIV, il quale, smentendo le dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu, ha denunciato la situazione drammatica di Gaza, dove, ha detto, «la popolazione civile è schiacciata dalla fame e continua ad essere esposta a violenze e morte».

No, i cristiani non sono tutti uguali. Non lo sono negli Stati Uniti e neppure in Italia, dove, addirittura tra gli stessi cattolici, sono evidenti differenze radicali. Le parole chiarissime degli ultimi due pontefici sul tema dei migranti e su quello di Gaza sono state finora ignorate dal nostro governo, al cui vertice stanno leader che ad ogni occasione e ostentano la loro fede religiosa e la loro vicinanza ai papi. Anche se il loro modello è, dichiaratamente, il presidente americano, di cui ricalcano la politica di deportazione e, soprattutto, l’atteggiamento sprezzante verso quanti considerano, per usare le parole di mons. Seitz, “criminali” o “invasori”. Per quanto ci riguarda, noi stiamo col papa.

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GUERRA ! GUERRA !


IL GRANDE INGANNO

 Una bella notizia, che farà inorridire i patriottici, è pubblicata da Avvenire del 3 dicembre.



- di Severino Dianich 

Alla domanda, proposta dall’Autorìtà garante per l’infanzia e l’adolescenza a un campione di adolescenti (14-18enni): «Se il mio Paese entrasse in guerra, mi sentirei responsabile e, se servisse, mi arruolereì. Quanto sei d’accordo con questa affermazione?”, il 68% dei ragazzi ha risposto di non essere d’accordo. 

Si potrebbe anche dire che non è una bella notizia, perché testimonierebbe la diffusa e preoccupante fragilità dei nostri ragazzi. Ma è una bella notizia venire a sapere che la nuova generazione ha demitizzato i sedicenti valori della guerra, prendendo coscienza dell’insensatezza dei suoi orrori e della sua fondamentale schifezza. 

Al di là della sensazione immediata, derivante dalla visione dei suoi effetti disastrosi, resta necessario, però. fare un passo in avanti: sbugiardare le ragioni della guerra. 

Dietro ogni mitragliata sparata per la difesa della patria, da un lato, sul fronte e sotto le macerie dei bombardamenti, cadono i morti e, dall’altro lato, piovono i dollari e i dividendi nelle tasche dei signori della guerra. I proiettili costano e chi li ha venduti ci ha guadagnato. Una sola scarica di mitraglia, affidandoci alle stime abitualmente diffuse, può costare fino a 20 euro. Un solo soldato, in una giornata di sparatoria di bassa intensità, può farci spendere fino a mille euro al giorno. Sono mille euro che, ovviamente, vanno a finire nelle tasche di qualcuno. 

Pur lasciando all’IA di chatgpt la responsabilità ultima della veridicità dei dati, è utile vedere la scheda che ce ne viene fornita a proposito della crescita dei dividendi, avvenuta nell’arco di un anno, in favore di chi investe nelle società che producono armi: RTX +45%; Leonardo +79.8%; General Dynamics +22%; Northrop Grumman +16%; L3Harris +15-16%. 

Sono dati, ovviamente, che non ignorano né il presidente Macron che sta preparando, come da lui stesso è stato dichiarato, la popolazione del suo paese alla guerra, né il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, il generale Carmine Masiello che, sulla stessa linea, in un’intervista del 2 ottobre 2025, ha ammonito gli italiani che «se si va in guerra non combatte solo l’Esercito, combatte l’Italia intera». 

Da Macron i francesi, e dal generale Masiello gli italiani, hanno il diritto di sapere se essi, mandandoci in guerra per l’Ucraina, sono sicuri di vincerla e se il prezzo da pagare per vincerla, il numero dei morti, sia in qualche modo proporzionato al valore dell’indipendenza e della libertà dell’Ucraina, che si intende tutelare. 

Si dice che, in realtà, è l’Europa chiamata a difendere se stessa dalle mire espansionistiche di Putin, ma i popoli hanno buona memoria e non dimenticano di essere già stati ingannati su presunti pericoli, che poi si sono svelati non veri, quando l’amministrazione Bush, per giustificare la seconda Guerra del Golfo, con i suoi 13.000 morti solo fra gli irakeni, sosteneva essere necessario neutralizzare Saddam, perché egli possedeva armi chimiche e biologiche, cosa che risultò non vera. 

Progettare una guerra senza prevedere i morti che costerà, per un politico e un militare, è immorale già in partenza, perché chi progetta una guerra pretendendo che venga considerata giusta, deve, prima di tutto, poter esibire la certezza che la vincerà, e poi che il numero dei morti previsto è, per quanto mai lo si possa dire con un minimo di decenza, proporzionato al valore da difendere, l’indipendenza e la libertà del paese. 

Anche questi, pur altissimi, valori non sono un valore assoluto e l’Ucraina, con i suoi 39 milioni e mezzo di abitanti corre il rischio di veder morire la maggioranza della sua popolazione, mentre la Russia resta in grado di attingere coscritti dai suoi 143 milioni e mezzo di abitanti, tanti quanti le sono necessari per continuare la guerra. 

È notorio e assodato che, a guerra finita, appurare il numero dei morti è impresa molto difficile, non solo per le difficoltà obiettive di registrare puntualmente tutti i dati degli eventi che occorrono, ma anche, e soprattutto, perché i governi li occultano. Ben si sa che la verità e le garanzie costituzionali di un regime democratico sono fra le prime vittime della guerra. Caso mai i governi pubblicano vistosamente, e maggiorandolo, il numero dei morti del fronte opposto. 

Eppure, anche Gesù, per suggerire agli aspiranti discepoli suoi di fare bene i conti sul prezzo che dovranno pagare per seguirlo, invitava a domandarsi se mai un re, «partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace» (Lc 14,31-32). Se oggi questa saggezza degli antichi viene dimenticata, è perché sotto le ragioni fasulle, accampate per giustificarla, ci sono le ragioni nascoste di chi ci guadagna. 

Impostando la riflessione a proposito della guerra e della pace sulla base concreta delle cose che accadono e non solo su argomentazioni di carattere teoretico, sembra di dover dire che quanti intendono promuovere le politiche di pace debbano, prima di tutto, studiare la guerra e metterne a nudo il grande inganno.

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LABORATORIO DI CULTURA E DIALOGO

 

Religione cattolica a scuola: oltre l’80% degli studenti sceglie l’Irc in un contesto di pluralismo religioso e migrazioni. 

Di Andrea Carlino

 

La Conferenza Episcopale Italiana ha pubblicato la nota pastorale “L’insegnamento della religione cattolica: laboratorio di cultura e dialogo”, approvata dall’81ª Assemblea Generale svolta ad Assisi dal 17 al 20 novembre scorso.

Il documento esce a quarant’anni dalla firma dell’Intesa che dava attuazione all’Accordo di revisione del Concordato lateranense in materia di insegnamento della religione cattolica e a trentaquattro anni dalla prima nota pastorale del 1991. Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha firmato la presentazione del testo che colloca l’Irc “in un contesto attraversato da mutamenti rapidi: flussi migratori, pluralismo religioso, secolarizzazione crescente, intelligenza artificiale”. La nota si propone di “fare il punto della situazione e richiamare l’attenzione sull’Irc, volendo evidenziare e rilanciare il suo servizio alla scuola” secondo quanto dichiarato nella presentazione ufficiale. Il documento conferma “la validità di una presenza scolastica che rispetta la libertà di coscienza di tutti e assicura un fondamentale servizio educativo”.

L’apertura al dialogo interreligioso e la dimensione culturale dell’Irc

La nota pastorale si articola in quattro capitoli che descrivono il “cambiamento d’epoca”, la natura istituzionale dell’Irc, la figura dell’insegnante di religione e i rapporti con la comunità ecclesiale. L’Irc “ha saputo aprirsi al confronto e al dialogo proprio grazie all’identità che la contraddistingue, che ne valorizza la portata culturale e formativa” secondo il testo della Cei. Il documento evidenzia come l’insegnamento “ha saputo trasformarsi e rinnovarsi, rispondendo negli anni alle domande della scuola e della società italiana”. La Conferenza Episcopale cita come esempio di apertura le schede per conoscere l’Ebraismo e l’Islam, predisposte dagli uffici della Segreteria Generale “rispettivamente con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e il Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica, in vista della redazione dei libri scolastici e della formazione degli insegnanti di religione“. Papa Leone XIV ha affermato il 27 ottobre 2025, all’apertura del Giubileo del mondo educativo, che “chi studia si eleva, allarga i propri orizzonti e le proprie prospettive, per recuperare uno sguardo che non si fissa solo in basso, ma è capace di guardare in alto: verso Dio, verso gli altri, verso il mistero della vita”.

Le criticità organizzative e i segnali di vitalità del servizio scolastico

Il numero di avvalentisi dell’Irc supera l’80% a livello nazionale secondo i dati riportati nella nota pastorale. Il documento “non trascura le difficoltà presenti soprattutto nella gestione organizzativa e nell’applicazione della normativa specifica da parte delle scuole”. La Cei sottolinea che “continua a far pensare la possibilità offerta agli alunni più grandi di poter uscire da scuola privandosi di un’occasione formativa quale l’Irc o l’attività alternativa”. I segnali di vitalità risultano superiori alle criticità e mostrano come “l’Irc si confermi uno strumento di arricchimento culturale, di attenzione educativa, di dialogo sincero con tutte le istanze provenienti dal mondo contemporaneo”. La nota definisce l’insegnamento della religione cattolica “un segno importante di quelle alleanze educative tra famiglia, scuola e comunità ecclesiale”. Il cardinale Zuppi ha precisato che “ogni componente della comunità ecclesiale locale deve impegnarsi per la piena realizzazione di questo servizio che è parte integrante della piena promozione culturale dell’uomo e del bene del paese”. La consultazione che ha preceduto l’approvazione del documento ha coinvolto tutte le diocesi italiane.

Orizzonte scuola

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CEI – RELIGIONE A SCUOLA



 

venerdì 12 dicembre 2025

UNA CARO

 


 Elogio 

della monogamia



Farrell: strumento prezioso per formare 

al rispetto reciproco 

tra uomo e donna 

e allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio

Pubblichiamo di seguito la dichiarazione del cardinale Kevin Farrell, Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita, sulla Nota dottrinale Una Caro. Elogio della monogamia. Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca che è stata presentata in conferenza stampa dal Dicastero per la dottrina della fede, stamattina 25 novembre 2025. 

***

La Nota dottrinale Una Caro. Elogio della monogamia. Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca è uno strumento prezioso per il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita: ci permetterà di offrire ai Vescovi, ai Movimenti ecclesiali, alle Associazioni di fedeli e agli animatori di pastorale giovanile e familiare, importanti linee di riflessione teologica e pastorale sulla pienezza dell’amore umano.

Investire in percorsi formativi per comprendere la ricchezza di un rapporto esclusivo, che avrà bisogno di una vita intera per crescere in pienezza

Tale pienezza trova compimento nell’unità e nell’esclusività del matrimonio tra uomo e donna e ad essa vanno accompagnati gli sposi nella comprensione di quella che è una “vocazione a due” nel mondo e nella Chiesa.

Al giorno d’oggi non è facile trasmettere questo messaggio, che si inserisce in un contesto in cui la “cultura del provvisorio” – come la chiamava papa Francesco - svilisce il “per sempre” del matrimonio: molti faticano a comprendere non solo il valore del sacramento, ma di ogni vincolo indissolubile.

Per questo, a livello pastorale è decisivo saper investire in percorsi formativi che aiutino a comprendere la ricchezza di un rapporto esclusivo, che avrà bisogno di una vita intera per crescere in pienezza.

Approfondire in ogni contesto culturale e geografico del mondo  l’aspetto dell’appartenenza reciproca

Un aspetto del documento che mi pare significativo e che sarà importante approfondire in ogni contesto culturale e geografico del mondo è l’aspetto dell’appartenenza reciproca tra i coniugi, che nel vissuto esistenziale non può e non deve mai sfociare nel possesso dell’altro: è un’appartenenza-non appartenenza, un’unità tra i due che va costruita sempre nel rispetto di due dignità e di due libertà, che non annullano la differenza e l’individualità di ciascuno.

Allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio

Questa tematica ha ricadute pastorali che ci interpellano a formare al rispetto reciproco tra uomo e donna, per allontanare il rischio di gravi forme di violenza e di dominio, che oggi richiedono una più decisa azione pedagogica anche da parte della Chiesa.

Aiutare i coniugi a rendere generativa la coppia nelle comunità in cui vivono

Urge, infatti, educare ad una sana unità coniugale, che possa davvero essere via di crescita e di pienezza esistenziale per entrambi i coniugi. Essi vanno aiutati a comprendere che non è bene chiudersi nel loro reciproco amore, ma che è necessario aprirsi per rendere generativa la coppia, non solo all’interno della famiglia, ma anche nella comunità in cui vivono e in cui possono farsi strumento di accoglienza e di cura dei più fragili, rendendo ancora più fecondo il loro amore.

Card. Kevin Farrell,

Prefetto del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita

 

  UNA CARO. ELOGIO DELLA MONOGAMIA [IT]



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LA RISORSA DEI MIGRANTI

 


La Santa Sede:

 migranti risorsa 

per la pace, 

superare stereotipi

 e polarizzazioni

 

Nel suo intervento al Consiglio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), l’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra, invita a un’“analisi oggettiva e completa” dei movimenti migratori, che ne consideri cause e conseguenze. 

Chi è costretto a lasciare la propria casa, sottolinea, incarna il “volto umano della globalizzazione”, spesso sostenuto, nelle aree più remote e carenti di servizi, da organizzazioni religiose

 

-         -di Edoardo Giribaldi – Città del Vaticano

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La voce grossa dei dibattiti odierni finisce per ammutolire, attraverso "stereotipi e narrazioni", chi potrebbe farsi portavoce di "relazioni pacifiche tra le nazioni". I migranti, ovvero non “problemi da risolvere” né “opportunità da sfruttare”, ma il vero e autentico “volto della globalizzazione”. È questa la posizione della Santa Sede, espressa dall’arcivescovo Ettore Balestrero, osservatore permanente vaticano presso le Nazioni Unite e le altre Organizzazioni Internazionali a Ginevra, nel suo intervento del 10 dicembre alla 116.ma sessione del Consiglio dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM).

Considerare oggettivamente i migranti

L’intervento dell’arcivescovo si apre da un dato: 304 milioni di migranti internazionali nel mondo. Chi lascia il proprio Paese è, prima di tutto, “un essere umano”, ricorda Balestrero, la cui dignità e i cui diritti devono costituire il fulcro della cooperazione internazionale e delle politiche in materia. Per questo, occorre superare discussioni permeate da pregiudizi e visioni divisive, che impediscono una “considerazione oggettiva e completa della migrazione”, delle sue cause e delle sue conseguenze.

Il volto umano della globalizzazione

Tali contrasti ignorano inoltre i contributi positivi che i migranti apportano alle società. Se da una parte, come ricordava Papa Benedetto XVI, essi “hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l’identità nazionale”, dall’altra rappresentano il volto umano dei processi di globalizzazione e possono promuovere l’armonia internazionale.

I diritti degli Stati e di chi migra

Balestrero ribadisce il diritto di ogni Stato di proteggere i propri confini. Esso, tuttavia, deve andare di pari passo con il rispetto della dignità di coloro che li raggiungono. Come sottolineava Papa Leone XIV, quando chi cerca protezione subisce maltrattamenti “non assistiamo al legittimo esercizio della sovranità nazionale, ma piuttosto a gravi crimini commessi o tollerati dallo Stato”.

 Le piaghe delle rotte pericolose e dei trafficanti

La Santa Sede ribadisce profonda preoccupazione per la vulnerabilità dei migranti, spesso costretti a percorrere "rotte pericolose". Un presagio che trova conferma nel dato drammatico del 2024: almeno 8.939 persone hanno perso la vita durante gli spostamenti dai propri Paesi di origine. “L’anno più letale mai registrato”, osserva l’arcivescovo, ricordando che ogni decesso rappresenta un fallimento dell’umanità, degli Stati e della comunità internazionale. Un’altra piaga connessa alle migrazioni è lo sfruttamento operato da trafficanti e contrabbandieri che “approfittano della disperazione a scopo di lucro”. In questo senso, la Santa Sede accoglie con favore l’impegno dell’OIM nel proseguire le attività di prevenzione, soccorso e assistenza alle vittime.

L'apporto delle organizzazioni religiose

Balestrero riconosce inoltre il valore dell’adozione di “un linguaggio concordato e consensuale nel Programma e Bilancio dell’OIM per il 2026”, così da evitare definizioni ambigue o prive di un significato condiviso nel diritto internazionale e tra gli Stati membri. Nel contesto migratorio, spiega l’arcivescovo, un ruolo decisivo è svolto dalle organizzazioni religiose. La loro presenza capillare e di lunga data, “anche nelle aree più remote e carenti di servizi”, rappresenta un sostegno concreto alle persone in movimento. Un aiuto che ha preceduto il momento in cui la migrazione è divenuta una "questione internazionale". Un impegno che continua “anche dopo che l’attenzione dei media è svanita”, grazie alla promozione di una rete globale lungo le rotte migratorie. Con un unico obiettivo, già delineato da Papa Francesco: “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, senza distinzioni. L’arcivescovo conclude ribadendo ciò che i migranti non devono essere: questioni da dirimere o “opportunità” da cui trarre vantaggi personali. Per questo, gli sforzi congiunti della comunità internazionale devono puntare a “promuovere il rispetto della loro dignità e permettere loro di viverla pienamente”.

Vatican News

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