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venerdì 21 febbraio 2020

PERCHE' LA NOTTE NON CI INGHIOTTA ....

-  I CHIAROSCURI 
di Giuseppe Savagnone  -

L’Inghilterra difende i suoi confini
Due recenti notizie, apparse in contemporanea, ma relative ad eventi che a prima vista non hanno nulla a che fare tra loro, sono indicative del clima che si sta creando in Europa.
La prima riguarda la decisione del governo inglese di negare il visto per motivi di lavoro nel Regno Unito, a partire dal 1° gennaio 2021, a coloro che non conoscono la lingua inglese e non hanno un contratto di lavoro o comunque un alto grado di specializzazione. La misura riguarderà anche i cittadini europei. È uno degli effetti della Brexit e corrisponde alla esigenza da cui essa è nata, che è di “difendere le frontiere” da un ingresso indiscriminato di stranieri.
La gravità di questa decisione si può misurare dal fatto che, secondo il Comitato sulla migrazione – un ente indipendente usato dal governo come consulente – il 70% dei cittadini europei entrati nel Regno Unito dal 2004 a oggi non avrebbe, secondo la nuova normativa, i requisiti per lavorare nel Paese.
Un duro colpo per i nostri  giovani lavoratori…
Milioni di ragazzi – tra cui moltissimi italiani – fino ad oggi trovavano a Londra e in altre città inglesi la possibilità di cominciare una nuova storia a partire da zero, lavorando come camerieri, commessi, manovali, imparando gradualmente a parlare la lingua.
Fra pochi mesi tutto questo non sarà possibile. Un duro colpo per i sogni di tanti giovani che vedevano nell’Inghilterra una prospettiva non solo occupazionale, ma anche esistenziale. Nell’immaginario collettivo la Gran Bretagna era diventata il luogo ideale per l’incontro non solo con gli inglesi, ma con l’Europa e con il mondo intero. Un luogo di relazioni personali inedite, di confronto culturale, di opportunità, oltre che economiche, umane.
…per i nostri studenti
La notizia in questione si aggiunge a quella, dei giorni scorsi, secondo cui i ragazzi europei che andranno a studiare in Inghilterra, a partire dal prossimo anno accademico, saranno equiparati a quelli che provengono da qualsiasi altra parte del mondo.
Con effetti economici per loro devastanti, perché le rette universitarie risulteranno più che raddoppiate, passando dai circa 10.000 euro attuali alle cifre che già oggi devono sborsare i loro colleghi cinesi o americani, eh vanno dai 25.000 ai 40.000 euro.
Chi potrà affrontare queste spese? Anche in questo caso, il rapporto profondo tra le nuove generazioni europee e l’Inghilterra verrà compromesso dalla Brexit, riportando il Paese a un isolazionismo che, quali che possano essere i vantaggi materiali attesi, costituisce sicuramente un impoverimento.  
Ma a chi giova?
Già, i vantaggi materiali… Ma è così sicuro che ci siano? Proprio la decisione di chiudere le frontiere ai lavoratori che non parlano inglese e che non sono specializzati sta suscitando le vibrate proteste di vasti settori del mondo economico, a cominciare da quello della ristorazione, il più colpito da queste linee guida.
Finora la libera circolazione delle persone ha garantito a pub, ristoranti e bar del Regno Unito una forza lavoro a modico prezzo e di buona qualità, fatta di giovani volenterosi e intraprendenti. Ma anche il settore dell’edilizia e della sanità si avvalevano di una manovalanza straniera di cui una buna parte proveniva dall’Europa. Alla perdita di una centralità culturale bisogna aggiungere, dunque, la minaccia di gravi danni per l’economia. Il potere dell’ideologia identitaria
Sorge spontanea la domanda: perché? Cosa ha spinto gli inglesi a una scelta che rischia di costituire una grave perdita per tutti, anche per loro?
La risposta forse si può trovare a partire da un episodio apparentemente minimo, riferito dai media britannici, verificatosi alcuni giorni fa a Norwich, in Inghilterra, dove è stato attaccato un volantino in cui stava scritto: «Qui si parlerà solo inglese o tornatevene a casa vostra». E ancora: «Non tollereremo chi parla altre lingue. Se non sai l’inglese tornatene a casa tua, nel tuo Paese». 
Qui non c’entrano le “ragioni”: è in gioco l’ideologia identitaria che chiude le porte agli altri perché li sente, per il fatto stesso che sono diversi, come una minaccia.
Una strage in Germania
E qui appare il collegamento con l’altra notizia di cui parlavo all’inizio, che è quella della strage compiuta in Germania, ad Hanau, nei pressi di Francoforte, in due bar frequentati da membri della comunità turca di etnia curda. Nove persone uccise e quattro gravemente ferite da un estremista di destra che, prima di suicidarsi, aveva scritto in un messaggio che sentiva la necessità «annientare» certi popoli la cui espulsione dalla Germania non è più possibile.
Un atto terroristico che si aggiunge a quello della settimana scorsa, a Berlino, dove un uomo è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco e altre quattro persone sono rimaste gravemente ferite in una sparatoria avvenuta all’esterno di un teatro, dove era appena terminato uno spettacolo comico turco, e all’altro dello scorso ottobre, sempre in Germania, ad Halle, dove un uomo ha attaccato una sinagoga e un fast food, uccidendo due persone.
L’autore, un militante neonazista, in realtà è riuscito ad uccidere solo due passanti che non erano ebrei, ma era arrivato alla sinagoga con una telecamera fissata sull’elmetto per filmare in diretta web quella che sperava sarebbe stata una strage.
Un clima di odio senza responsabili?
Si sta diffondendo in diversi Paesi europei un clima di odio e di violenza che, dal piano verbale, sempre più tende a passare a quello fisico. Anche in Italia dagli insulti razzisti a Gad Lerner e a Liliana Segre si è passati a veri e propri atti di aggressione. I reati legati al razzismo nel nostro Paese sono quasi raddoppiati dal 2016 ad oggi.
Naturalmente nessun partito se li intesta. Anche per quanto riguarda l’episodio di Hanau, il portavoce di Alternative für Deutschland, “Alternativa per la Germania”, il partito di estrema destra che sta guadagnano consensi ad ogni consultazione elettorale, ha definito il protagonista un «pazzo», rifiutando di attribuire un significato politico alla strage da lui commessa.
Come del resto accade in Italia, dove più volte i rappresentanti della Lega e di Fratelli d’Italia hanno replicato con sdegno alle accuse di razzismo loro mosse, specialmente dopo che avevano rifiutato di firmare l’ordine del giorno contro l’odio proposto da Liliana Segre. Né certamente i fautori della Brexit accetterebbero di avallare i toni del volantino di Norwich.
Eppure un nesso c’è…
È difficile negare, però, che esista un nesso tra il sovranismo, con il suo slogan “Prima noi”, e l’ondata xenofoba e razzista che sta montando in tutta l’Europa. Se si crea a livello ufficiale un clima di conflittualità e di contrapposizione verso chi è “diverso” per nazionalità, cultura, religione, additandolo come una minaccia alla sicurezza, se è all’interno, ai confini se si trova all’esterno, non ci si può stupire se ci sono persone labili o in mala fede che approfittano di questo clima per compiere atti concreti di volenza, interpretandoli come una “difesa”.
La responsabilità dei partiti
Non possiamo restare in silenzio di fronte a questo spaventoso deterioramento del tessuto umano delle nostre società. Qui è in gioco non l’orientamento verso un partito o l’altro, l’essere di destra o di sinistra, perché le scelte a questo livello, in una società democratica, sono tutte legittime. Il problema è “quale” destra e “quale” sinistra.
Per quanto riguarda il nostro Paese, ricordiamo ancora un passato in cui, per quanto riguarda quest’ultima, fu necessario chiedere con fermezza ai suoi sostenitori di prendere le distanze dal terrorismo delle Brigate Rosse e in generale da una logica di violenza che da alcuni era legittimata in nome dell’ideologia comunista. Oggi un’analoga, esplicita presa di distanze si deve chiedere alla destra nei confronti di tutto ciò che ricorda il fascismo e il nazismo.
Prendere le distanza dall’anima delle ideologie violente
Negare l’esistenza del problema, appellandosi all’anacronismo di questo riferimento, significherebbe in realtà rifiutarsi di dare un vera risposta. Perché nessuno pensa che quelle ideologie possano riproporsi esattamente negli stessi termini del passato.
La differenza dei nostri tempi rispetto all’inizio del Novecento è ovvia. È l’anima di quei fenomeni storici che rischia di rivivere, sotto sembianze inevitabilmente diverse. E rispetto a quest’anima oggi i sovranismi – compreso quello italiano – devono chiaramente distanziarsi non solo nelle facili dichiarazioni di principio, ma nello stile pratico.
Perché non torni la notte
La democrazia – ma, più profondamente, la custodia dell’umano – esigono che di questo si parli e che ci si trovi d’accordo. Le differenze partitiche vengono dopo, e ricevono la loro legittimità dalla loro conformità alla nostra Costituzione, in cui questi valori sono espressi senza equivoci. Al di fuori di questa base, che dev’essere comune, c’è la notte del fanatismo.




venerdì 15 marzo 2019

IL CONFINE, UN'IDENTITÀ' CHE ESCLUDE

Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, e l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro
Una riflessione del filosofo Givone sulle rimonte attuali dei concetti di sovranismo e nazionalismo e sul rischio che possano trasformarsi in nuove forme totalitarie Ma davvero oggi l’unica scelta è fra globalizzazione commerciale e l’insorgere di barriere invalicabili che separano popoli e Stati?
Si dice “confine” e non semplicemente “fine” (nel senso di finis, terminus, limite invalicabile) evidentemente per qualche buona ragione: una delle quali, non la sola, è che si tratta di una linea divisoria in comune con altri o comunque condivisa. Non dunque un elemento di separazione, al di là del quale il mondo, abitato o meno che sia, cessa di essere mondo, e si fa luogo inospitale e ostile, o addirittura nonluogo, ma un principio di riconoscimento reciproco, sia pur minimo, quale ad esempio è espresso dalla formula: «Io sono chi tu non sei, tu sei chi io non sono». Tuttavia l’idea di confine reca con sé una contraddizione. A stabilire il confine, ad assicurarlo può essere soltanto una istituzione sopra le parti in grado di impedire a qualsiasi forza aggressiva di invadere territori altrui. Questa istituzione è stata storicamente l’“impero”. Ed è proprio la vocazione imperialistica di questa istituzione sopra le parti a snaturare l’idea di confine da essa presupposta fino a contraddirla.
Infatti c’è confine e confine. C’è il confine che separa ma prima ancora unisce i popoli che formano l’impero: li conferma nella loro separatezza, rispettandone consuetudini tradizioni credenze eccetera, ma li include in un più ampio orizzonte e quindi li unifica. E c’è il confine che separa per escludere e anzi per negare qualsiasi diritto, compreso il diritto alla vita, a chiunque si ponga al di fuori di esso. Nel momento in cui l’impero si costituisce come nazione delle nazioni, e dunque non già come potere sovranazionale, ma come potere ipernazionale, il confine è uno solo: fra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori, fra i titolari dei diritti e fra coloro che non lo sono, fra i popoli dell’impero e i barbari.
Inevitabilmente il concetto di confine si fa evanescente, contraddittorio, nato com’è in nome della pace e funzionale com’è diventato unicamente alla guerra contro quello che appare un irriducibile nemico. Così è stato nel caso dell’impero romano. Con l’affermarsi del potere imperiale di Roma e con la progressiva estensione della cittadinanza romana a tutti i popoli dell’impero, il concetto di confine viene meno e svapora. In quanto confine fra popoli dell’impero cessa di essere un limite e una barriera (limes) per configurarsi come una porta aperta piuttosto che chiusa, insomma, come una soglia (limen). E in quanto confine ultimo, confine delimitante l’impero, torna a essere stazione terminale, punto conclusivo oltre il quale non c’è praticamente nulla (finis).
Se all’interno dell’impero il confine dice l’omogeneità e la compattezza dei popoli che lo compongono, ma soprattutto dice la loro piena appartenenza al mondo civile (quanto meno l’appartenenza che è propria del civis romanus), all’esterno dell’impero il confine indica quel nulla incolto e disumano che è il deserto. Perfino etimologicamente ( finis da figere, conficcare nel terreno), il confine evoca il gesto imperiale, imperialistico e soprattutto imperioso del centurione che, giunto al limite del mondo civile, decreta: hic sunt leones. E qui vale la pena di ricordare che il trattamento riservato ai leoni (nel deserto) era più o meno lo stesso riservato a coloro che (dentro i confini dell’impero) non si lasciavano assimilare ma erano peggio che barbari perché erano estranei, “stranieri”.
L’ombra lunga, lunghissima di Roma si estende in modo quanto mai inquietante e pauroso sul nostro tempo, caratterizzato com’è da forme di imperialismo non sempre evidenti né dichiarate, ma inconfutabili, che derivano da una doppia dissoluzione: la dissoluzione dell’impero romano, prima, e la dissoluzione del sacro romano impero, poi. Ma qui più che di dissoluzione si dovrebbe parlare di trasformazione: da impero a impero, l’uno non meno dell’altro a vocazione imperialistica, come dimostra il fatto che l’idea di confine è sempre quella. Nasce come idea inclusiva e finisce come idea esclusiva. Dove il confine è frontiera, la frontiera è esclusione, l’esclusione è di fatto annichilimento dell’alterità dell’altro. Consideriamo gli Stati Uniti d’America – sempre che sia lecito applicare una categoria come quella di imperialismo a una democrazia per molti versi esemplare – senza chiudere gli occhi di fronte agli aspetti oscuri e sconcertanti che hanno inquinato la storia di quel grande Paese e che si ripresentano sempre di nuovo in modo inquietante. Dà da pensare il fatto che il Paese massimamente inclusivo, il popolo fatto di popoli provenienti da Europa, Asia, Africa e America Latina, stia erigendo sul suo confine meridionale una frontiera invalicabile e percepisca come un’invasione potenzialmente distruttiva una pacifica processione di disperati che in realtà altro non sono che potenziale forza-lavoro (quella forza-lavoro già reclutata in tempi non lontani con i mezzi più brutali).
Si era materializzata una prima volta in America l’idea che il confine fosse una frontiera, una nuova frontiera, da raggiungere con qualsiasi mezzo per fissare là dove tramonta il sole (far west) il limite oltre il quale il mondo non è più mondo, ma deserto, oppure oceano. Il mondo è di chi se ne impossessa, lo fa suo, lo coltiva, scacciandone ed estirpandone chi lo abita neanche fosse gramigna. Fanno da corollario a questa condotta le pratiche omicide che mettono capo al linciaggio, da una parte, e all’eugenetica, dall’altra, l’una e l’altra legate da un filo rosso, ed è la soppressione della vita che si presume indegna o estranea alla comunità. È doloroso ammetterlo, ma sarebbe falso negarlo: il leerer Raum in cui avrebbero dovuto lanciarsi i carri armati tedeschi verso il confine orientale riproponeva a suo modo lo “spazio vuoto” dove si erano lanciati i carri dei coloni, così come le deportazioni altro non erano che forme di linciaggio e cioè di assassinio cui la popolazione assisteva e assentiva silenziosamente.
È dunque inevitabile che il confine sia destinato a cessare di essere confine per ridiventare ostacolo, muro, carcere (come sembra suggerire la parola confino)? Non resta cioè che denunciare la propria impotenza di fronte alla deriva non solo imperialistica ma totalitaria del potere, per cui non c’è differenza che non finisca con l’essere sacrificata sull’altare di una identità tanto idolatrica quanto ideologica? Davvero il diritto, il diritto delle genti, non esiste se non in forza di un imperium che tende a perpetuarsi e a confermare se stesso?
L’impero – ogni impero, sia quello che si chiama così sia quello che si nasconde nella tendenza all’imperialismo che è propria delle nazioni – è basato su una cessione di sovranità. Diventando a sua volta sovrano grazie a questa operazione, l’impero si fa nazione: più esattamente, nazione delle nazioni. E facendosi tale sfuma i confini al suo interno fino a farli sparire e ribadisce i confini con l’esterno fino a trasformarli in frontiere. Così i popoli diventano nazioni e le nazioni si sciolgono nell’impero.
Per i popoli non c’è più posto, proprio nel posto che li doveva accogliere tutti: non c’è più posto per i popoli nomadi, per i popoli sradicati, per i senza terra o la cui terra sia stata violata. A questo punto la domanda è: è possibile invertire questa tendenza apparentemente irreversibile verso un mondo sempre più globalizzato e prigioniero di un unico stile di vita, mondo senza popoli, mondo di consumatori? Oggi c’è chi pensa di reagire appellandosi alla sovranità perduta, contrapponendo all’imperialismo il populismo, ripristinando i confini. Senza rendersi conto che significa evocare quella logica sovranista, nazionalista e identitaria che, sviluppata, porta al totalitarismo.
Ma forse c’è un’altra strada. Espressa in forma di domanda, è la seguente: e se la cessione di sovranità avvenisse non tanto a favore di una nazione delle nazioni, con i suoi confini e tutto il resto, ma di una non-nazione, una terra di nessuno perché di tutti, una terra di libero scambio, dove i popoli potessero abitare appunto liberamente, facendo della libertà il principio regolatore e legittimante?