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mercoledì 14 maggio 2025

MAESTRI, NON BUROCRATI

 

 

La palestra della vita 

ha bisogno di maestri

 

Altro che didattica a distanza, le sfide del futuro sono legate all’unire: studi umanistici, scienza, internet, inglese Ma anche questioni sociali, civili, economiche 

Un saggio di Dionigi Non ci si deve rassegnare a un malinteso egualitarismo che rende deboli i saperi anziché forti gli allievi. 

Per questo i professori non vanno declassati e resi burocrati

 

-         di IVANO DIONIGI

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Magister

Magister: parola latina emblematicamente carica di senso. Composta dal prefisso latino magis (“più”, che indica superiorità qualitativa) e dal suffisso greco -teros (che indica comparazione), significa il superiore, colui che sa di più e conta di più, e che si mette a confronto e in relazione con gli altri. Figura propria della lingua religiosa, oltre che giuridica e politica, il Magister designava il celebrante principale, assistito dal Minister (da minus e -teros), il celebrante in seconda, l’assistente, il servitore. Segno dei tempi: noi oggi abbiamo sostituito il rispetto per i maestri con l’ossequio per i ministri. Parola nobile, evocativa, emozionante, sideralmente lontana dal surrogato influencer: il maestro di danza, di musica, di sport, di studi, di vita spirituale, di vita; i tanti maestri senza cattedra. Rabbi, Maestro, era chiamato Gesù dagli Apostoli. Per tanti ha deciso le sorti della vita.

«La scuola», ha sentenziato Manara Valgimigli, «la fanno i maestri, non i ministri». Penso ai tanti maestri e alle tante maestre che insegnano ai nostri bambini e alle nostre bambine l’arte del leggere e dello scrivere: nelle periferie delle grandi città, negli sperduti paesi dell’Appennino, negli ospedali al capezzale dei piccoli ricoverati. Fanno il mestiere più bello, più importante, più misconosciuto del mondo. [...] Quale scuola? Non certo la scuola della didattica a distanza, la prima vittima della pandemia, posposta alle messe in piega delle parrucchiere, con i ragazzi addomesticati e oscillanti tra il pigiama, il divano e lo smartphone, spettatori e non protagonisti dell’apocalisse. E neppure quella prima della pandemia, improntata alla separazione sia dei saperi sia delle classi sociali. Immagino una scuola fulcro della formazione e stella polare del Paese.

Una scuola aperta

 Una scuola aperta ventiquattro ore: lezioni, compiti, musica, teatro, sport, otium e negotium, cella e pulpito; perché la scuola non è né dei professori né delle famiglie, ma degli studenti.

Una scuola dove coabitino informatica e storia dell’arte, inglese e filosofia, scienze applicate e latino, storia delle religioni e matematica, educazione civica ed educazione alimentare, ecologia e diritto, italiano ed economia. Aumentare e accrescere, non diminuire e sottrarre: et et, non aut aut deve essere la misura della scuola. Perché ciò che potrebbe essere un’aggiunta diviene un’alternativa?

Una scuola consapevole che, di fronte alle nuove sfide delle scienze e alla pervasività delle tecnologie digitali, può trovare negli studia humanitatis un’alleanza naturale e necessaria. Una scuola vissuta come forma e forza di giustizia sociale, a cominciare dai territori svantaggiati del Sud, che prevenga dispersioni e fallimenti precoci. Il primo e vero antidoto alla malavita. Una scuola dove gli studenti incontrino e interroghino i responsabili della vita economica civile e politica: scuola più scuola, questa è la vera alternanza. Una scuola che veda nei suoi insegnanti  e studenti gli interlocutori privilegiati e i consulenti del sindaco e del Consiglio comunale; e anche degli architetti che progettano gli edifici scolastici.

Una scuola intesa come palestra dei fondamentali del sapere che, al riparo da pedagogie facilitatrici, non si rassegni, per una malintesa idea di democrazia e di egualitarismo, a rendere deboli i saperi anziché forti gli allievi.

Affascinare

Una scuola dove i professori non siano declassati a burocrati e umiliati a capoclasse ma riconosciuti economicamente e socialmente, per poter professare ( profiteri) a pieno titolo l’affascinare ( delectare), l’insegnare ( docere), il mobilitare le coscienze ( movere), come aruspici di quella cosa tremenda e stupenda che è la vita dei giovani: che Erasmo considerava «il bene più prezioso della città» e che noi abbiamo degradato a “capitale umano”. Il giorno in cui il presidente del Consiglio terrà la delega della Scuola, vorrà dire che questo Paese ha deciso di prendersi sul serio, di avere cittadini più consapevoli e di formare una classe dirigente più responsabile. Allora ne guadagnerà non solo il benessere individuale ma anche il Pil. [...] Nella mia non breve esperienza di docente ho tenuto a mente una domanda centrale e ineludibile che Montaigne formulò in modo impareggiabile: come tutelarci dal diventare un giorno «scienziati senza conoscenza, magistrati senza giurisdizione e comici senza commedia»?

Il monoteismo tecnologico

Detto con parole più attuali: nell’era del monoteismo tecnologico, come formare persone egregie e non gregarie, vale a dire intelligenze libere e capaci di porre limiti e ribellarsi a macchine più o meno intelligenti? Circa vent’anni fa, un ministro della Repubblica intendeva riformare la scuola e il mondo della formazione sulla base di Inglese, Internet, Impresa: aggiornamento mercantile del non meno noto e allarmante Inglese, Internet, Novecento. Quelle tre parole d’ordine non solo non hanno risolto i problemi, ma si sono rivelate essere, almeno in parte, addirittura il problema, perché adottavano unicamente le categorie dei mezzi, dello spazio, del presente.

Ritengo che le nuove istanze e i nuovi squilibri vadano iscritti nell’orizzonte dei fini, del tempo, dei giorni a venire, e che a tale scopo debba essere interpellata un’altra triade, marcata anch’essa da una triplice i: Interrogare, Intelligere, Invenire. Tre voci che andrebbero scolpite all’ingresso delle nostre scuole, università e istituzioni formative. Non vedo altro luogo, altra istituzione, al di fuori della scuola, in cui i ragazzi possano attrezzarsi per interrogare, comprendere e scoprire sé stessi e il mondo.

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Magister. La scuola la fanno i maestri, non i ministri

 www.avvenire.it

Immagine



 

mercoledì 20 giugno 2018

" I GIOVANI, LA FEDE, IL DISCERNIMENTO" - L'Instrumentum Laboris in preparazione al Sinodo dei Giovani

RISCOPRIRE 
LA BELLEZZA 
DELLA VITA

"Desidero aiutare tutti e ciascuno a mettersi in sintonia con l’Instrumentum laboris del prossimo Sinodo dei giovani dal tema “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, che si svolgerà a Roma dal 3 al 28 ottobre prossimi. Come avrete certamente notato, si tratta di un testo abbastanza ampio e articolato, del quale cercherò di illustrare alcuni elementi principali, partendo dal dire qualcosa sulle finalità del Sinodo, sul metodo seguito e sulla struttura del documento.
Il Sinodo ha come prima finalità quella di rendere consapevole tutta la Chiesa del suo importante e per nulla facoltativo compito di accompagnare ogni giovane, nessuno escluso, verso la gioia dell’amore; in secondo luogo, prendendo sul serio questa missione, la Chiesa stessa potrà riacquistare un rinnovato dinamismo giovanile; in terzo luogo è importante anche per la Chiesa cogliere quest’occasione per mettersi in discernimento vocazionale, così da riscoprire in che modo può meglio corrispondere oggi alla sua chiamata ad essere anima, luce, sale e lievito del nostro mondo.
Come conseguenza di queste finalità, l’Instrumentum Laboris è redatto secondo il “metodo del discernimento”. Con ciò intendo dire che in sostanza il Sinodo stesso è un esercizio di discernimento, il cui processo si attua compiendo gli stessi passi che aiutano ogni giovane a far luce sulla propria vocazione. Papa Francesco, in Evangelii Gaudium 51, presenta il processo di discernimento con tre verbi: riconoscere, interpretare, scegliere.
Per questo motivo, il testo è diviso in tre parti, ciascuna riferita a uno dei tre verbi. Il primo passaggio del discernimento è segnato dal verbo riconoscere. Subito viene in mente il racconto dell’episodio di Emmaus, dove si dice che «si aprirono i loro occhi e lo riconobbero» (Lc 24,31). È quindi evidente che “riconoscere” non è un generico vedere o un semplice ascoltare, ma dice molto di più: si tratta di lasciarsi abitare dalla grazia per avere lo sguardo del discepolo, una comprensione della realtà che sa vedere il cuore, un’intelligenza che nasce dalle viscere di misericordia che abitano in ognuno di noi. “Riconoscere” significa partecipare dello sguardo di Dio sulla realtà, osservando il modo in cui Dio parla a noi attraverso di essa.
Il secondo passaggio punta sul verbo interpretare. La realtà è più importante dell’idea, ma le idee diventano necessarie nel momento in cui si sono riconosciuti gli appelli che vengono dalla realtà. Ci vuole un quadro di riferimento per interpretare la realtà, altrimenti si resta preda della superficialità. È necessario andare in profondità, verso un livello biblico e antropologico, teologico ed ecclesiologico, pedagogico e spirituale. Le buone idee illuminano, fanno chiarezza, sciolgono i nodi, aiutano a sbrogliare la matassa, a superare la confusione e a risolvere le frammentazioni, accompagnando verso una visione integrale e sinfonica.

Il terzo momento si concentra sulla necessità di scegliere. Dopo aver riconosciuto e interpretato, la fase più delicata e importante è prendere decisioni coraggiose e lungimiranti alla luce del percorso svolto. Il discernimento troppe volte rischia di arenarsi su infinite analisi e su molte e diverse interpretazioni, che non arrivano a buon fine, cioè a decisioni concrete, profetiche e pratiche. Ecco che diventa importante portare a compimento il cammino attraverso scelte condivise che ci aiutino nel nostro percorso di conversione pastorale e missionaria....