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venerdì 26 aprile 2024

ABORTO e DINTORNI

 


Un attacco 

alla legge 194?

 

-         di Giuseppe Savagnone*

Con l’approvazione del Senato, dopo il sì della Camera, è diventata legge la norma secondo cui le Regioni, nell’organizzare i servizi dei Consultori familiari, possono «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità». 

Una innovazione nella quale, già da quando è stata proposta, in Commissione, si è visto un attacco alla legge 194 e alla libertà di scelta delle donne che si rivolgono ai Consultori per chiedere l’interruzione della gravidanza.  

Le critiche possono essere riassunte nelle parole dell’ordine del giorno presentato dalla deputata Dem Sara Ferrari, secondo cui la norma ha «il solo scopo di fare entrare nei Consultori associazioni anti-abortiste che possano incidere psicologicamente, in modo inaccettabile e violento, sulla volontà delle donne che si confrontano con la difficilissima scelta dell’interruzione volontaria di gravidanza».

Questa è stata la posizione ufficiale del PD, la cui segretaria, Elly Schlein, ha parlato di «attacco pesante alla libertà delle donne». Ma non solo del PD: «L’Italia sceglie di fare un ulteriore passo indietro», ha dichiarato, da parte sua, il Movimento 5 stelle. E la deputata pentastellata Gilda Sportiello ha poi annunciato una proposta di legge per inserire il diritto di aborto nella nostra Carta costituzionale. 

Reazioni dall’estero

Una ipotesi tutt’altro che peregrina, del resto, dopo che il 4 marzo scorso questo diritto è stato introdotto nella Costituzione francese e dopo che il Parlamento europeo ha votato, l’11 aprile, a favore del suo inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Insomma, il diritto di aborto sembra avviato a diventare un patrimonio comune di civiltà a livello internazionale. 

Non stupisce, perciò, che, non solo nel nostro paese, ma anche all’estero l’emendamento riguardante i Consultori abbia suscitato proteste. La ministra spagnola della Parità, Ana Redondo, è intervenuta su X: «Consentire le molestie organizzate contro le donne che vogliono interrompere la loro gravidanza equivale a disconoscere un diritto riconosciuto dalla legge (…) per frenare l’uguaglianza tra donne e uomini».

Da Madrid si è fatta sentire anche Irene Montero, l’ex ministra a cui si deve la legge che, in Spagna, garantisce l’interruzione di gravidanza libera e sicura nelle strutture pubbliche a partire dai 16 anni: «L’aborto è un diritto fondamentale di tutte le donne, è un diritto umano, e fa parte del nostro diritto alla salute».

Le parole dello scandalo

A inasprire il dibattito, in Italia, sono venute poi le parole pronunciate da Incoronata Boccia, vicedirettrice del Tg1, alla trasmissione di Serena Bortone “Che sarà”.

Boccia – premettendo di rendersi conto che le sue erano «parole forti» – ha affermato che, pur «lungi dal giudicare le storie e le persone», è però necessario dire che sull’aborto come tale «stiamo scambiando un delitto per un diritto», definendo l’interruzione volontaria di gravidanza «un omicidio» e appellandosi a voci autorevoli della Chiesa cattolica come madre Teresa di Calcutta e papa Francesco.

Affermazioni che hanno scatenato l’immediata reazione delle opposizioni. Quelle di Boccia sono parole «inammissibili» e contro «l’autodeterminazione della donna», ha detto Alessandra Maiorino di M5s, e «sviliscono le conquiste delle donne disconoscendo una legge dello Stato», secondo Luna Zanella di AVS (Alleanza Verdi e Sinistra).

Ma, ancora una volta, la presa di posizione più dura è venuta dal PD, che le ha giudicate, con la senatrice ed ex presidente delle donne democratiche, Cecilia D’Elia, «inaccettabili». Ma non basta: secondo la capogruppo Dem alla Camera, Chiara Braga, si porrebbe a questo punto una domanda che «riguarda i vertici Rai», di cui, come vicedirettrice del Tg1, la Boccia fa parte: «Può ancora ricoprire quel ruolo chi offende le donne e le leggi?».

Una modalità inopportuna

Che cosa pensare di queste polemiche, in particolare quelle riguardanti l’emendamento appena approvato e il so rapporto con la legge 194? Dal punto di vista puramente formale, appare ragionevole la critica fatta da Mara Garfagna, presidente di Azione, riferendosi al fatto che la nuova normativa è passata grazie al voto di fiducia chiesto dal governo per il disegno di legge di conversione del decreto PNRR.

«Non fa onore alla politica avere inserito l’emendamento in silenzio dentro un provvedimento che serve a tutt’altro», ha rilevato la Garfagna. Da qui l’accusa, mossa alla destra dal capogruppo PD al Senato, Francesco Boccia, di aver compiuto «un blitz».

Da qui, soprattutto, l’equivoco che l’eventuale collaborazione delle associazioni del terzo settore ai Consultori comporti – come allarmisticamente qualcuno ha detto e molti hanno creduto – l’utilizzo dei soldi del PNRR, e sia dunque «a spese dei contribuenti», quando invece nel testo si escludono espressamente «nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato».

Una diversa procedura avrebbe forse potuto evitare questa ennesima gaffe, dopo le tante a cui questo governo ci ha abituato.

Che cosa dice la legge 194…

Ma il problema decisivo, ovviamente, è se l’introduzione della norma che prevede la possibilità, da parte dei Consultori familiari, di «avvalersi, senza nuovi o maggiori oneri a carico dello Stato, anche del coinvolgimento di soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» sia compatibile o meno con la lettera e lo spirito della legge 194.

«Neppure la vecchia Dc, la Dc super cattolica di Giulio Andreotti che controfirmò la Legge 194 ignorando gli appelli dell’oltranzismo a dimettersi, aveva mai immaginato di consentire ai privati di intromettersi nel percorso accuratamente prescritto dalla norma», ha scritto Flavia Perina su «Repubblica».

Tuttavia, basta leggere il testo della legge per trovare, all’art.2, un disposizione che smentisce inequivocabilmente questa critica: «I consultori, vi si dice, «sulla base di appositi regolamenti o convenzioni possono avvalersi, per i fini previsti dalla legge, della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».

La Perina ha presente l’articolo, ma ritiene che esso ammetta «un unico intervento dell’associazionismo: a sostegno della maternità difficile “dopo la nascita” (e non prima della scelta)».

Evidentemente deve esserle sfuggito che il testo legislativo, dopo aver parlato della collaborazione delle associazioni private nei Consultori «per i fini previsti dalla legge» (che non riguardano solo la fase post-partum, ma proprio la fase della scelta), aggiunge solo successivamente che esse possono «anche» aiutare dopo la nascita. Dove la seconda cosa non esclude la prima («anche»).

Perciò, almeno in questo caso, ha ragione la ministra Eugenia Roccella a rispondere alle critiche nei confronti della normativa, facendo notare che «l’emendamento non fa altro che riprodurre alla lettera un articolo della legge sull’aborto in vigore da quarantasei anni». 

Resta da chiedersi perché, allora, sia stato necessario un nuovo intervento normativo. La spiegazione data dal governo e in moltissimi casi confermata dai fatti è che fin qui la legge è stata unilateralmente interpretata solo nella parte che legittima l’interruzione volontaria della gravidanza, come d’altronde dimostrano le innumerevoli prese di posizione che, nell’attuale dibattito, le attribuiscono il riconoscimento del “diritto di aborto”.

… E qual è il suo spirito

Ma è veramente questo lo spirito della legge 194? Ancora una volta basta leggere il testo per rispondere. Cominciamo dall’art. 1, dove si esordisce dicendo che «lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio».

Esattamente al contrario della tesi oggi dominante, qui si esclude che il problema dell’interruzione della gravidanza si identifichi con quello della proprietà, da parte della donna, del proprio corpo, perché si ammette chiaramente l’esistenza di un soggetto umano che fin dall’inizio è presente e va tutelato. Al centro non c’è soltanto la donna, con i suoi diritti, ma la coppia madre-figlio («la maternità»).

Coerentemente con questo, all’art. 2 si precisa che il compito del Consultorio è di contribuire «a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza».

Il punto cruciale non è l’aborto, ma il modo evitarlo. Per questo possono essere utili gli apporti delle associazioni del volontariato, che non a caso vengono menzionate in questo contesto.

La legge certamente prevede la possibilità di abortire. Ma lo fa non nella logica dell’autonomia della donna, bensì in quella, molto diversa, del riconoscimento delle drammatiche situazioni che possono spingerla a farlo.

Perciò, all’art.4, ci si riferisce esplicitamente alle «circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito». Non una parola sul “diritto di aborto” come simbolo della libertà della donna e della sua giusta emancipazione.

Al contrario, all’art. 5, si dice che « il consultorio e la struttura socio-sanitaria, oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno il compito in ogni caso (…) di esaminare con la donna (…) le possibili soluzioni dei problemi proposti, di aiutarla a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto».

Questo dice la legge 194. Con i suoi numerosi punti deboli – in primo  luogo una certa vaghezza nell’indicazione dei controlli, che la espone a facili abusi – essa è però chiara nei criteri  di fondo. L’aborto, nella vita delle donne, è un dramma da soccorrere, non una bandiera da sventolare.

Esso comporta il doloroso sacrificio di una «vita umana» (art. 1) e l’intera società è chiamata a lottare perché la donna non vi sia costretta (art. 2). E la censura in TV, invocata per la Boccia – paradossalmente, dagli stessi che l’hanno condannata nel caso Scurati – , non è a difesa della legge in questione, ma di una ideologia che le è estranea.

*Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura. Arcidiocesi Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

 

martedì 5 marzo 2024

IL "DIRITTO" di ABORTIRE


 Francia: l’aborto nella Costituzione, 

messaggio di civiltà?


Pubblichiamo in anteprima, per gentile concessione dell’Ufficio per la Pastorale della cultura della diocesi di Palermo, il testo di Giuseppe Savagnone sulla approvazione della modifica alla Costituzione francese che recepisce il «diritto di aborto». Il testo sarà in seguito pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» che l’autore firma per il sito della Pastorale della cultura.

 -di Giuseppe Savagnone

Con l’approvazione definitiva della modifica alla Costituzione da parte del Parlamento francese, a camere riunite, lunedì 4 marzo, la Francia è ora il primo paese non solo in Europa, ma anche nel mondo, a includere il diritto di aborto nella sua Carta fondamentale.

In realtà in Francia l’interruzione volontaria della gravidanza è già stata legalizzata da decenni, e il numero di aborti è in continua crescita: 234mila solo nel 2022, record assoluto, 17mila in più dell’anno precedente. I pochissimi oppositori (nella votazione finale i voti favorevoli sono stati 780, i contrari 72) avevano sottolineato questo dato di fatto per evidenziare l’inutilità pratica di un’ulteriore conferma a livello costituzionale.

Ma non è valso a nulla, perché la solenne proclamazione del diritto di abortire è stata voluta per il suo valore simbolico, come un messaggio di civiltà. E come tale è stato salutato, con entusiasmo, in Francia e nel resto del mondo. Anche come risposta all’annullamento, un anno e mezzo fa, della Roe vs Wade da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti.

Qualche domanda

Davanti a tanto entusiasmo, può tuttavia essere lecita qualche perplessità. La prima riguarda il profondo mutamento di prospettiva che questo clima comporta. L’aborto da sempre è stato per molte donne una dolorosa necessità, di cui sono state loro stesse le prime vittime. Uccidere il bambino che si porta nel seno è sempre stato ed è, normalmente, per una madre, un dramma, reso più tremendo dal fatto che una società maschilista, ancora oggi, non fa il possibile per evitarlo, lasciandola spesso sola a vivere sulla propria pelle i tanti problemi che rendono problematica la maternità.

Il voto del Parlamento francese e i toni trionfalistici dei commenti che lo hanno esaltato, sia in Francia che sulla stampa internazionale, sembrano trasformare una tragedia per cui indignarsi e contro cui lottare in una suprema affermazione della dignità e della libertà delle donne. L’aborto diventa simbolo di emancipazione, profezia di nuovo modo intender la femminilità. Mettendo ancora una volta in secondo piano l’urgenza di investire maggiori risorse per dare alle donne, piuttosto che la licenza di eliminare i propri figli, la possibilità di non farlo.

Senza dire che l’inserimento del «diritto di aborto» nella Costituzione pone seri problemi a quei francesi che non si riconoscono in questa decisione per motivi di coscienza. Da sempre alcune grandi religioni – come il cattolicesimo –, ben lungi da ritenere l’interruzione volontaria della gravidanza un diritto, l’hanno considerata una violenza contro la vita umana e altre – come l’islam – le hanno posto limiti rigorosi. Che cosa significherà per i credenti di queste fedi religiose essere cittadini di un paese che la esalta come un valore fondamentale della comunità civile? Queste persone resteranno in Francia come stranieri morali? Come sarà possibile l’obiezione di coscienza di medici e infermieri nei confronti di un diritto costituzionalmente riconosciuto?

Si potrà dire che la laicità dello Stato non può accettare interferenze di ordine confessionale. Ma – a parte il fatto che, in un paese che proclama la tolleranza religiosa, la fede non dovrebbe costituire un motivo di spaccatura tra i cittadini – non sono pochi i laici che si sono pronunziati contro la legalizzazione dell’aborto. Valga per tutti, l’autorevole esempio di Norberto Bobbio, che in Italia rifiutò di sostenere il referendum per motivi di coscienza e di ragione.

Il parallelo polemico con la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti non funziona, anzi evidenzia la differenza: in quella non si dichiarava anticostituzionale l’aborto, anzi neppure lo si proibiva, solo ci si limitava a rimandare la questione ai singoli Stati, lasciando impregiudicata la questione a livello federale. Nessun americano era messo in condizione di scegliere tra il suo essere cittadino e la sua coscienza. In questo caso sì.

Diritto di aborto e libertà delle donne

Si potrà dire che il diritto di aborto è solo una implicazione e una conseguenza logica del riconoscimento della libertà della donna. Ed è in nome di quest’ultima, come abbiamo appena visto, che esso è stato inserito nella Costituzione francese. Ma è veramente così?

A metterlo in dubbio è proprio uno studioso che da anni è in prima fila nel sostenere la legittimità etica e giuridica dell’aborto, Peter Singer, il quale in un suo libro fa notare che appellarsi alla libertà della donna per dimostrare questa legittimità «può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia. Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla. Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti».

E lo slogan, coralmente ripetuto, secondo cui il diritto di aborto esprime la libertà della donna di fare del suo corpo quello che vuole? Le parole di Singer − autore non certo sospetto di bigotto moralismo – ci ricordano quello che qualunque biologo sa benissimo, e cioè che quello slogan è falso. Secondo la scienza, l’embrione e il feto non fanno affatto parte del corpo della donna, perché sono individui a sé stanti.

Si può ignorare questo dato scientifico, come si può essere terrapiattisti, ma la realtà non cambia. Perciò non si può equiparare la libertà della donna di abortire a quella di studiare, di viaggiare, di esercitare una professione, perché in questo caso è in gioco la vita di un altro essere vivente.

Esseri umani e persone

Se, dunque, si vuole affrontare seriamente il problema, è sul valore o meno di questa vita che bisogna concentrare l’argomentazione. Ora, come riconosce il pensatore australiano, non si può negare che, anche in questa fase, si tratti di una vita umana. Ormai, egli osserva, la biologia ha dimostrato che non ci sono “salti” tra la vita pre-natale e quella successiva al parto e una cesura tra l’una e l’altra sarebbe arbitraria.

Ma questo, secondo Singer, non significa che embrioni e feti siano persone. Ed è la vita della persona, non la vita umana come tale, che bisogna tutelare. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (…). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?». Per lui l’appartenenza alla specie umana è un dato di fatto meramente biologico, privo di implicazioni valoriali ed etiche.

Su questo punto, peraltro, convergono tutti i grandi bioeticisti anglosassoni. A essere importanti, secondo loro, non sono gli esseri umani come tali, ma le persone. Qual è la differenza? Se lo chiede un altro autorevole studioso, Michael Tooley: «Quali proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?». La sua risposta esprime la convinzione largamente condivisa, pur delle varianti, dalla maggioranza dei bioeticisti anglosassoni: «Un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una tale entità continua nel tempo».

Per essere persone, insomma, è necessaria l’autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente un altro notissimo studioso, Tristam Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane». Costoro sono esseri umani ma, poiché non sono in atto coscienti di sé, la loro vita può essere sacrificata al pari di quella degli individui di tutte le altre specie.

L’argomento non vale peraltro solo per embrioni e feti, ma anche per gli infanti, i bambini nelle prime fasi successive al parto i quali, secondo tutti questi autori, non essendo autocoscienti non sono persone. Per Engelhardt «le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo − probabilmente qualche anno − dopo la nascita». È questione di logica. Sulla stessa linea, infatti, è Singer: «Sembrano esserci solo due possibilità: opporsi all’aborto o consentire l’infanticidio».

Davanti alle probabili perplessità che una simile implicazione del diritto di aborto può suscitare, entrambi gli studiosi fanno notare che civiltà molto evolute, come quella greca, hanno ritenuto normale l’infanticidio e che, come ha scritto Singer, il tabù relativo ad esso si deve solo a «due millenni di ossequio puramente formale all’etica cristiana», ora finalmente alle nostre spalle.

Una pericolosa discriminazione

Questo è ciò che, in nome della ragione, si è riusciti a dire finora per giustificare la legittimità etica e giuridica dell’aborto. Dove è chiaro che l’appello alla libertà della donna lo può giustificare solo se è valida la distinzione tra esseri umani e persone, che a sua volta è basata su una filosofia, non sulla scienza, per la quale i non nati sono individui biologicamente umani, come i nati.

Solo che questa distinzione non vale solo per la questione dell’interruzione della gravidanza e, più in generale, implica la divisione in uomini e donne di serie A e uomini e donne di serie B, escludendo i secondi da ogni tutela e consegnandoli all’arbitrio dei primi.

Non possono non ritornare alla mente le società del passato che in base a questa distinzione hanno considerato non-persone gli schiavi, le donne, gli indios, i poveri. O, più recentemente, gli ebrei. E non è un caso che oggi le dichiarazioni dei diritti parlino di esseri umani, senza altro requisito che la loro umanità.

Ora, in nome della libertà delle donne, la Costituzione francese introduce solennemente una nuova discriminazione, l’esercizio in atto dell’autocoscienza. Così il diritto di abortire apre la porta a quello di eliminare chiunque sia sfornito di quel requisito (neonati, malati di mente, individui in coma). È questo il messaggio di civiltà che la Francia vuole lanciare al mondo?

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venerdì 26 maggio 2023

DISSENSO o VIOLENZA ?


LA MINISTRA CONTESTATA

- di Giuseppe Savagnone*

 I fatti

Ha lasciato una scia di polemiche e di tensioni irrisolte la vicenda del Salone del Libro di Torino, dove, il 20 maggio scorso, la presentazione di un libro del ministro Roccella è stata interrotta e poi sospesa per la contestazione di esponenti del movimento femminista «Non una di meno» e di quello ecologista «Extinction rebellion».

In verità, l’episodio non ha, di per sé, nulla di eccezionale, anche se merita sicuramente una riflessione; ma a renderlo estremamente significativo sono state le reazioni a cui esso ha dato luogo da parte di personalità della politica e della cultura.

Cominciamo dalla cronaca dei fatti. Sono le tredici e nell’Arena Piemonte, al Salone del Libro di Torino, comincia la presentazione del libro «Una famiglia radicale» (Rubbettino), in cui la Roccella parla della sua storia familiare.

Subito scatta la contestazione. Urla, fischi, cori, manifestanti che si sdraiano per terra. Vengono scanditi a gran voce slogan come «Nessuno Stato, nessun Dio, sul mio corpo decido io». L’obiettivo principale della protesta sembra l’obiezione di coscienza sull’aborto.

La reazione della ministra, in questo bailamme, viene descritta con grande obiettività da un articolo di www.micromega.net che è assolutamente credibile perché, nel suo insieme, molto critico nei confronti della ministra stessa e del governo: «“Non voglio che sia portato via nessuno con la forza”. Le parole della ministra per la Famiglia, la natalità e le pari opportunità Eugenia Roccella contestata al Salone del Libro di Torino risuonano nette mentre i poliziotti stavano già iniziando a trascinare via di peso le attiviste e gli attivisti (…). “Ho iniziato così la mia militanza politica, ricordo bene quando venivo trascinata via di peso durante manifestazioni non violente, non voglio che accada qui adesso”. La ministra ha invitato i manifestanti al dialogo, una delle attiviste ha dunque preso il microfono e letto un documento».

In esso si contesta alla Roccella di avere «più volte dichiarato che purtroppo l’aborto è un diritto delle donne». Si accusa, inoltre, «un sistema politico cieco di fronte alla gravità della crisi climatica».

La ministra nota che avrebbe preferito il dialogo, non un comunicato. Comunque, risponde che in Italia nessuno vuole toccare il diritto all’aborto, che però anche l’obiezione di coscienza è un diritto e che non è vero che essa rappresenti un ostacolo all’interruzione di gravidanza. Poi rilancia riprendendo un tema che a lei preme molto e che trova d’accordo anche frange consistenti del movimento femminista: «Lottate contro l’utero in affitto insieme a noi, contro la mercificazione del corpo delle donne».

L’intervento del direttore del Salone

Il risultato è l’esasperarsi della protesta. Viene chiamato il direttore del Salone, Nicola Lagioia, che tenta di parlare ai manifestanti: «La democrazia contiene anche la contestazione, ma non perdiamo questa occasione di dialogo. Mandate un vostro delegato qui sul palco a discutere con la ministra. Anche in politica si fa così. State manifestando pacificamente, adesso cercate un dialogo».

Accusato di essere stato incapace di impedire la contestazione, Lagioia ha poi spiegato ad Agorà su Rai3: «Io non sono il servizio d’ordine del Salone e non sono la polizia. Ho detto ai ragazzi: eleggete un vostro delegato e trasformiamo questa contestazione in un dialogo. Loro mi hanno detto di no. Hanno rifiutato questa mediazione. È un peccato, ma è legittimo da parte loro. Il mio metodo è quello del dialogo, non del manganello».

La sua mediazione viene considerata inadeguata dalla deputata di Fratelli d’Italia Montaruli che lo investe a gran voce: «Vergognoso! Sei stato vergognoso! La contestazione legittima! Con tutti i soldi che prendi! Vergognati!». E allude alla prossima scadenza della sua carica dicendo che la sua uscita di scena sarà salutata da «un rullo di tamburi».

La Roccella, dopo due ore di vani tentativi di ristabilire la calma ha deciso di abbandonare il Salone, salutata dai cori ironici e dagli applausi dei contestatori trionfanti che le dicevano «Ciao, Roccella, ciao».

I commenti

È appena il caso di dire che giornali e personalità politiche della destra hanno dato piena solidarietà alla ministra. Non è stato così invece, da parte di altri. Con qualche eccezione. Ha scritto su Twitter Matteo Renzi: «Il Salone del Libro di Torino è una bellissima palestra di libertà e democrazia. Impedire alla ministra Roccella di parlare significa negare i valori della cultura, del dialogo e del rispetto. Pasolini, che era un gigante, non parlava a caso di ‘fascismo degli antifascisti».

Molto diversa la reazione della segretaria del PD Elly Schlein: «In una democrazia si deve mettere in conto che ci sia il dissenso, sta nelle cose, non riguarda mica solo chi sta al potere. Noi siamo per il confronto duro, acceso, ma è surreale il problema che ha questo governo con ogni forma di dissenso».

L’unica voce del PD che si leva in solidarietà di Roccella è quella del sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. La contestazione alla ministra è «legittima», dice, ma «quando travalica e rende impossibile esprimere il proprio pensiero si sconfina in una dimensione che è antitetica al concetto stesso di libertà».

È peraltro una eccezione nel panorama della sinistra. Non solo a livello politico, ma anche a quello culturale. Selvaggia Lucarelli, in un tweet, ha scritto: «Chi pensa che il dissenso non si esprima in quel modo, non ha ben chiaro un concetto base: il dissenso, laddove esprima un malessere per la propria condizione determinata da una scelta politica, non si esprime dalla propria cameretta (…). Se un ministro ha idee retrograde e pericolose, in cui una parte della società non si riconosce, è sacrosanto che attivisti e semplici cittadini portino le proprie istanze all’attenzione pubblica (…). Io ringrazio chi ha protestato ieri: lo ha fatto anche per me».

La scrittrice Michela Murgia, all’intervistatore che le faceva notare che il ministro aveva offerto la possibilità di fare un dibattito, ha risposto così: «La ministra Roccella non è una scrittrice come un’altra. È una persona che ha il potere di “fare le leggi” (…) E queste persone stanno pagando quotidianamente per le scelte di queste leggi. Quindi è normale che siano arrabbiate ed è normale anche che vadano a mostrarlo. Se volevi il dibattito, l’avresti fatto nel percorso di costruzione di quelle leggi (…) perché in democrazia la mediazione si fa PRIMA delle leggi.

Se PRIMA fai le leggi e POI vuoi il dibattito, io mi sento un po’ presa in giro. Quindi capisco che le persone abbiano detto: “E’ troppo tardi per il dibattito” (…). Si può fare conflitto, contestazione di idee anche dicendo all’altro: quello che tu hai fatto e che hai scritto e teorizzato in questo libro ha reso la mia vita peggiore e quindi io non ti lascio parlare».

Ci sono diverse forme di violenza

Prima di dare un giudizio personale, ho voluto vedere il video che circola online e invito i miei lettori a fare lo stesso. Da esso risulta con evidenza che quello che si è creato è stato – e non per colpa della ministra – un clima di violenza.

Perché la violenza non è solo muscolare. Ce n’è una che si esercita attraverso la burocrazia, di cui abbiamo avuto un esempio nella censura (poi rientrata) nei confronti di Carlo Rovelli, contro cui si è giustamente levata la protesta del mondo della cultura. E ce n’è una vocale, che consiste nell’urlare, rendendo impossibile all’altro di farsi ascoltare.

E del resto, a leggere bene le prese di posizione della Lucarelli e della Murgia, non si nega che ciò sia accaduto, ma lo si giustifica con la posizione politica della Roccella. Nel caso della Murgia, accusandola di aver rifiutato il dialogo “prima” di fare le leggi.

Ora, a parte il fatto che le leggi le fa il parlamento e non un ministro, a parte il fatto che non si capisce a quale legge la Murgia si riferisca – visto che la Roccella, ultimamente, si è solo battuta (in linea con la posizione di molte associazioni femministe) contro l’utero in affitto, che in Italia è già vietato, e che anche per quanto riguarda l’aborto non c’è stata nessuna legge promossa dl governo – , i dibattiti “prima” delle leggi si fanno nelle aule parlamentare e l’invito della ministra non voleva certo sostituirli, ma dare un’occasione ai suoi contestatori di un confronto culturale. È questo che essi hanno rifiutato.

Hanno preferito continuare a gridare slogan, dimostrando purtroppo la loro inferiorità culturale rispetto a una persona come la Roccella che, figlia di uno dei fondatori del partito radicale, è entrata a 18 anni nel Movimento di liberazione della donna, diventandone leader e si è fatta portavoce di molte battaglie femministe – per l’aborto, contro la violenza sulle donne, per le pari opportunità – e conosce questi problemi molto meglio dei suoi contestatori.

Chi segue, anche solo saltuariamente, questi “Chiaroscuri”, sa quale sia la mia opinione su questo governo. E, ovviamente, essa coinvolge tutti coloro che ne fanno parte. Ma in questo episodio la difficoltà al confronto non può essere addebitata alla ministra, bensì ai suoi contestatori.

Non riconoscerlo, e anzi lasciar intendere che essi hanno fatto bene a tacitarla, è un grave autogol per una sinistra che voglia seriamente rivendicare la propria superiorità culturale. E che proprio in questo modo invece, rischia di appiattirsi sul peggiore stile della destra.

 

*Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura, Diocesi Palermo

  www.tuttavia.eu


 

 

martedì 28 giugno 2022

ABORTO e DEMOCRAZIA


 Il diritto di aborto 

è al di là 

della democrazia?

 -         di Giuseppe Savagnone

        

La decisione della Corte suprema degli Stati Uniti che annulla gli effetti della famosa sentenza Roe v. Wade, con cui 50 anni fa, precisamente il 22 gennaio 1973, la stessa Corte aveva reso legittimo il ricorso all’aborto fino a quando il bambino non fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno, ha suscitato una ondata di accese proteste prima di tutto in America, ma anche in tutto il mondo occidentale.

«Sentenza devastante», l’ha definita il presidente americano Biden. Secondo la speaker democratica del Congresso, Nancy Pelosi, siamo davanti a una «sentenza crudele». Di «Attacco ai diritti», ha parlato il nostro quotidiano «La Stampa». «Norme come l’Afghanistan e peggio della Polonia reazionaria» si trova scritto su «Il Manifesto». «L’America corre a marcia indietro. Cancellato il diritto all’aborto», è il titolo de «Il Riformista». «Medioevo Usa, Il diritto all’aborto abolito dai giudici», leggiamo su «Il Dubbio».

La reazione è la stessa sui giornali degli altri Paesi europei. «Avortemente, la grande régression del la Cour supreme del Etats-Unis», titola il prestigioso «Le Monde». Che cosa è accaduto? Forse non guasta ricordare un momento i fatti.

Come dicevamo, la Corte Suprema americana non ha – né mai avrebbe potuto farlo – introdotto delle norme che rendano l’aborto un reato, ma, pronunziandosi sul caso «Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization», ha confermato la recente legge dello Stato del Mississipi che proibisce l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane.

Gli Stati Uniti sono una federazione di Stati ed è del tutto plausibile che, a differenza di quanto avviene in Stati non federali, ognuno di essi regolamenti questioni di grande importanza in modi diversi da quanto fanno gli altri. Avviene già così, ad esempio, per la pena di morte, ammessa da alcuni ed assente in altri.

Che la Corte suprema abbia «abolito il diritto di aborto», come si esprimono i mass media, significa allora soltanto che ha riconosciuto il diritto dei cittadini di ogni Stato americano di decidere secondo le regole della democrazia rappresentativa, vigente negli Stati Uniti come in molti altri Paesi dell’Occidente, come regolamentare la questione della vita nascente.

Le proteste nascono, però, dall’idea di molti che – come osservava durante una recente puntata di «Otto e mezzo», la conduttrice Lilli Gruber – qui si tratti di un diritto che va al di là delle regole della democrazia. È quanto sosteneva il cardinale Ruini quando parlava di «valori non negoziabili» e includeva tra essi, all’opposto dei sostenitori del diritto all’aborto, il diritto del nascituro alla vita.

In questo caso il diritto “assoluto” non sarebbe più, come per il cardinale, quello della vita, ma quello della libertà delle donne di disporre del proprio corpo. Nessuna legge potrebbe, secondo questa visione, porre limiti al diritto di aborto, perché violerebbe questa fondamentale libertà.

 

Esseri umani e persone

Ma è proprio così? A metterlo in dubbio, per la verità, è uno degli studiosi più decisamente favorevoli alla legittimità etica e giuridica dell’aborto, Peter Singer, il quale fa presente in un suo libro che appellarsi alla libertà della donna – come faceva la sentenza nella causa Roe v. Wade – «può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia. Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla.

Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti» (P. Singer, Ripensare la vita. La vecchia morale non serve più, Milano 1996).

Peraltro, il famoso bioeticista australiano è convinto che l’aborto sia lecito e vada legalizzato. Ma perché pensa di poter dimostrare che gli embrioni/feti non hanno, come egli dice, «lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani». A dire il vero, anche nei confronti degli animali non umani molti – a cominciare dallo stesso Singer – hanno delle forti obiezioni nei confronti della sperimentazione indiscriminata su di loro e non accetterebbero “la libertà dei ricercatori scientifici” come un buon argomento per giustificarla.

La libertà

La libertà deve sempre fare i conti con la responsabilità verso l’altro. E di un “altro”, non soltanto di una parte dell’organismo femminile, si tratta nel caso dell’embrione e, ancora più evidentemente, del feto. Se poi questo “altro” è un essere umano – e nessuno nega che essi lo siano, in base al semplice dato del loro DNA – la questione si fa ancora più seria.

Il punto, per Singer, come per Engelhardt, per Tooley, per Regan – per tutti i più noti bioeticisti che giustificano l’aborto – , è che dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione quella che spesso viene considerata una certezza indiscutibile, e cioè il valore della vita umana come tale. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (…). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?».

Per questi autori se mai il valore da tutelare sono le persone. Ma, essi spiegano, “persone” si possono considerare solo gli esseri umani dotati di autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente un altro notissimo studioso, Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane» (H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1991).

 

 

La persona

Questi esseri sono umani, ma, non essendo persone, possono essere uccisi, o usati per esperimenti, senza violare in nulla l’etica. Lo diceva già, in un suo famoso articolo, un altro noto bioeticista, Tooley, che si chiedeva: «Quali proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?» La risposta dell’autore è che «un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una tale entità continua nel tempo» (M. Tooley , Aborto e infanticidio).

Perché ci sia persona, insomma, si richiede, secondo lui, quello che egli chiama «requisito di autocoscienza». Ma siamo sicuri che distinguere esseri umani e persone, subordinando il secondo titolo al possesso di certe qualità diverse dall’appartenenza alla specie umana, sia una buona idea? Non possono non ritornare alla mente le civiltà del passato, che in base a questa distinzione hanno considerato appartenenti alla nostra specie, ma non-persone, gli schiavi, le donne, gli indios …

E forse non è un caso che oggi si sia riconosciuto finalmente che i diritti umani si applicano a tutti gli uomini e le donne per il semplice motivo che sono “umani”, a prescindere dal possesso di altri requisiti.

Una nuova fede (sottratta alla ragione)

Alla luce di queste elementari considerazioni è un po’ strano considerare una incredibile regressione alla barbarie la posizione di coloro che, come la Chiesa cattolica, condannano l’aborto. Ma, nel caso della sentenza della Corte americana, non si tratta neppure di una condanna. Semplicemente si lascia ai cittadini dei singoli Stati di decidere come va regolamentata una materia così delicata.

Che questo diritto dei cittadini venga negato in nome di un preteso valore assoluto, come sarebbe la libertà della donna, fa riflettere sul fatto che, venuti meno i dogmi delle grandi religioni, se ne sono inventati altri. Solo che quelli riguardavano una sfera superiore, in cui la fede appare legittima, mentre i nuovi non possono sottrarsi al controllo della ragione.

E’ in base ad essa che appare necessario bilanciare il valore indiscutibile della libertà della donna con quello, fino a prova contraria altrettanto indiscutibile, dell’essere umano che essa porta dentro di sé. In realtà anche nelle legislazioni più restrittive questo bilanciamento prevede, di solito, il diritto di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza quando è in pericolo la vita del madre o quando sono diagnosticate gravissime deformazioni del feto. Spesso è preso in considerazione, come motivazione per abortire, il caso dello stupro.

Queste ragionevoli condizioni, però, nelle esasperate proteste di questi giorni, non vengono neppure pese in considerazione. Il diritto della donna sul proprio corpo è considerato così assoluto da non dover rendere conto non solo alla democrazia, ma neppure alla ragione. Facendo rimpiangere la fede religiosa, che, almeno nella visione cristiano-cattolica, ha sempre ritenuto di poter andare oltre l’intelligenza umana, ma non di poterla contraddire.

 

*Pastorale della Cultura – Diocesi di Palermo

sabato 11 settembre 2021

DIRITTO ALL'ABORTO ?

 Il dibattito negli Stati Uniti

La polemica che divampa negli Stati Uniti, dopo l’approvazione, ai primi di settembre, della nuova legge dello Stato del Texas, con cui si limita il diritto di aborto, ha un rilievo che va oltre i confini americani e spinge a un confronto tra il modello di donna adottato dall’Occidente e quello imposto dai talebani in Afghanistan. Un confronto suggerito, peraltro, dall’appellativo di “Taliban State” attribuito dai critici “liberal” al Texas.

A suscitare l’ondata di proteste – lo stesso presidente Biden, ha definito quella del Texas una «legge estrema» che «viola apertamente il diritto costituzionale» – è il fatto che la nuova legge fissa in sei settimane il tempo massimo entro cui poter procedere all’interruzione di gravidanza.

L’ira dei democratici in realtà si è estesa anche nei confronti della Corte suprema che, dopo le tre nomine fatte da Donald Trump, ha una maggioranza “conservatrice”, e che ha rifiutato di sospendere la nuova legge texana. «Con il favore delle tenebre, scegliendo di non fare nulla, la Corte suprema ha consentito che una legge incostituzionale sull’aborto entrasse in vigore la scorsa notte», ha twittato Hillary Clinton, da sempre decisa sostenitrice del diritto di aborto, dopo la decisione della Corte.

Il principio di autodeterminazione alla base del diritto all’aborto

Per capire la rivoluzione apportata dalla legge del Texas bisogna ricordare la famosa sentenza Roe v. Wade con cui, il 22 gennaio 1973, proprio la Corte Suprema degli Stati Uniti si è riferita al  XIV Emendamento della Costituzione, che prevede il diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona, stabilendo che l’aborto è legittimo per qualsiasi ragione la donna lo voglia (e non solo per quelli di eugenetica o di salute), fino al momento in cui il feto non sia in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero materno (in pratica, entro i sette mesi di gravidanza).

La svolta del Texas appare particolarmente problematica, perché restringe la possibilità dell’aborto entro limiti temporali molto ristretti – i critici fanno notare che a sei settimane molte donne non sanno neppure di essere incinte – e non prevede eccezioni neppure in caso di incesto o di stupro. Però è chiaro che lo scontro non riguarda tanto questi aspetti concreti, quanto il principio generale della libera autodeterminazione della donna, sancito dalla sentenza del 1973 e ora rimessa in discussione dalla legge texana con la implicita approvazione della nuova Corte suprema.

Da questo punto di vista si capisce che la questione non riguarda solo gli Stati Uniti. È tutto l’Occidente a considerare ormai da tempo il diritto di aborto un principio di civiltà, proprio in nome della libertà della donna.

Sarebbe un motivo in più per denunziare la violazione dei diritti delle donne da parte dei talebani.  Nell’Islam, infatti, dove si ritiene che il feto riceva l’anima solo dopo 120 giorni dal concepimento, l’aborto dopo il quarto mese è considerato un omicidio, salvo che quando sia in pericolo la vita della madre. Dobbiamo indignarci anche per questo?

Prima di farlo è il caso, forse, di chiederci se il “diritto di abortire” si possa allineare a quelli spesso citati in questi giorni e violati dai talebani: il diritto a studiare, a svolgere una professione, a fare sport…

Esseri umani e persone

A metterlo in dubbio, per la verità, è uno degli studiosi più decisamente favorevoli alla legittimità etica e giuridica dell’aborto, Peter Singer, il quale fa presente in un suo libro che qui la variante è la presenza di un “altro”, che è l’embrione o il feto. Perciò, egli osserva, appellarsi alla libertà della donna – come fa la sentenza Roscoe v. Wade – «può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia.  Presentare il problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…) significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla.  Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di libertà di scelta da parte degli schiavisti» (P. Singer, Ripensare la vita.  La vecchia morale non serve più, Milano 1996).

In realtà il famoso bioeticista australiano è convinto che l’aborto sia lecito e vada legalizzato. Ma perché pensa di poter dimostrare che gli embrioni/feti non hanno «lo stesso diritto alla vita degli altri esseri umani». Biologicamente appartengono anch’essi, è vero, alla nostra specie. Questo Singer, come del resto qualsiasi studioso serio, non lo nega. C’è il Dna ad attestarlo e rifiutare l’identità umana all’embrione sarebbe mettersi contro la scienza. E allora?

Per Singer, come per Engelhardt, per Tooley, per Regan – per tutti i grandi bioeticisti che giustificano l’aborto –, dobbiamo avere il coraggio di rimettere in discussione quella che spesso viene considerata una certezza indiscutibile, e cioè il valore della vita umana come tale. «Perché è moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (…). Che cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?».

Per questi autori se mai il valore da tutelare sono le persone. Ma, essi spiegano, “persone” si possono considerare solo gli esseri umani dotati di autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente un altro notissimo studioso, Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane» (H. T. Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1991). Questi esseri sono umani, ma, non essendo persone, possono essere uccisi, o usati per esperimenti, senza violare in nulla l’etica.

Lo diceva già, in un suo famoso articolo su Aborto e infanticidio, un altro noto bioeticista, Tooley, che si chiedeva: «Quali proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio diritto alla vita?» La risposta dell’autore è che «un organismo possiede un serio diritto alla vita solo se possiede il concetto di sé come soggetto continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una tale entità continua nel tempo» (M. Tooley, Aborto e infanticidio). Perché ci sia persona, insomma, si richiede, secondo lui, quello che egli chiama «requisito di autocoscienza».

Ma siamo sicuri che distinguere esseri umani e persone, subordinando il secondo titolo al possesso di certe qualità diverse dall’appartenenza alla specie umana, sia una buona idea? Non possono non ritornare alla mente le civiltà del passato, che in base a questa distinzione hanno qualificato esseri umani, ma non-persone, gli schiavi, le donne, gli indios…E forse non è un caso che i diritti umani si applichino a tutti gli uomini e le donne, a prescindere dal possesso di altri requisiti.

Aborto e infanticidio

Si sarà notato, in Engelhardt, il riferimento ad altre categorie di non-persone, oltre il feto, tra cui gli infanti, i bambini piccoli. Questi autori sono unanimi nel ritenere che anch’essi, pur avendo lo statuto biologico umano, nei primi mesi, non essendo autocoscienti, non siano persone. Per Engelhardt «le persone in senso stretto vengono in essere solo qualche tempo – probabilmente qualche anno – dopo la nascita». Fino ad allora, un bambino, non essendo una persona, può essere eliminato senza che questo crei un problema morale. Sulla stessa linea è Singer: «Sembrano esserci solo due possibilità: opporsi all’aborto o consentire l’infanticidio».

Ed è logico, se la giustificazione dell’eliminazione di un essere umano qual è il feto, è la mancanza di autocoscienza. Come dice Tooley, «l’osservazione quotidiana chiarisce in modo, credo, inoppugnabile, che un neonato non possiede un concetto di sé continuo nel tempo, non più di quanto lo possieda un gatto appena nato. Se è così, l’infanticidio per un breve intervallo di tempo dopo la nascita deve essere moralmente accettabile».

Possibilità e potenzialità

A chi obietta che il feto e il neonato, pur non potendo ancora esercitarla, per sono potenzialmente dotati di autocoscienza, viene risposto che la potenzialità non è altro che una possibilità; ma il fatto che l’autocoscienza sia possibile vuol dire semplicemente che ancora non c’è.

In realtà la potenzialità è qualcosa di molto diverso – già secondo Aristotele – dalla pura e semplice possibilità. Quest’ultima, infatti, non comporta che vi sia qualcosa di reale. Qualunque CD “può” contenere una rara esecuzione della settima sinfonia di Beethoven diretta da Claudio Abbado. Resta il fatto che non la contiene ancora e che danneggiando il CD non si cancella questa rara esecuzione. Allo stesso modo, un giovane che non ha mai studiato l’inglese “può”, in linea di principio, parlare in questa lingua, ma prima dovrebbe apprenderla e, a chi gli chiedesse in un colloquio di lavoro, se la parla, dovrebbe onestamente rispondere di no.

La potenzialità, invece, comporta che qualcosa sia già effettivamente presente, anche se ancora non in forma esplicita. Se il CD contiene l’esecuzione della settima sinfonia, quest’ultima – anche se si trova presente in potenza, perché non risuona effettivamente – è già realmente in essa. E chi conosce bene l’inglese può rispondere tranquillamente “sì” a chi glielo chiede perché, in potenza, lo parla. Allo stesso modo implicito anche il feto ha, in potenza, l’autocoscienza.

Rimetterci anche noi in discussione

Viene spontaneo chiedersi: su queste basi si può davvero parlare di un “diritto ad abortire”? È questo il modello di libertà femminile che noi occidentali possiamo pretendere di far valere, contro le evidenti assurdità della posizione islamica su altri punti? Francamente, non lo penso. Anche noi dobbiamo rimetterci in discussione. E, a chi ritenesse oscurantista e reazionario il mio dubbio, chiederei di criticare quanto ho detto con delle ragioni. Lasciamo il fanatismo ai talebani.

 

*Pastorale cultura Diocesi Palermo

 

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