Il diritto di aborto
è al di là
della democrazia?
La decisione della Corte suprema degli Stati Uniti che annulla gli effetti
della famosa sentenza Roe v. Wade, con cui 50 anni fa, precisamente il 22
gennaio 1973, la stessa Corte aveva reso legittimo il ricorso all’aborto fino a
quando il bambino non fosse in grado di sopravvivere al di fuori dell’utero
materno, ha suscitato una ondata di accese proteste prima di tutto in America,
ma anche in tutto il mondo occidentale.
«Sentenza devastante», l’ha definita il presidente americano Biden. Secondo
la speaker democratica del Congresso, Nancy Pelosi, siamo davanti a una
«sentenza crudele». Di «Attacco ai diritti», ha parlato il nostro quotidiano
«La Stampa». «Norme come l’Afghanistan e peggio della Polonia reazionaria» si
trova scritto su «Il Manifesto». «L’America corre a marcia indietro. Cancellato
il diritto all’aborto», è il titolo de «Il Riformista». «Medioevo Usa, Il
diritto all’aborto abolito dai giudici», leggiamo su «Il Dubbio».
La reazione è la stessa sui giornali degli altri Paesi europei.
«Avortemente, la grande régression del la Cour supreme del Etats-Unis», titola
il prestigioso «Le Monde». Che cosa è accaduto? Forse non guasta ricordare un
momento i fatti.
Come dicevamo, la Corte Suprema americana non ha – né mai avrebbe potuto
farlo – introdotto delle norme che rendano l’aborto un reato, ma,
pronunziandosi sul caso «Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization», ha
confermato la recente legge dello Stato del Mississipi che proibisce
l’interruzione di gravidanza dopo 15 settimane.
Gli Stati Uniti sono una federazione di Stati ed è del tutto plausibile
che, a differenza di quanto avviene in Stati non federali, ognuno di essi
regolamenti questioni di grande importanza in modi diversi da quanto fanno gli
altri. Avviene già così, ad esempio, per la pena di morte, ammessa da alcuni ed
assente in altri.
Che la Corte suprema abbia «abolito il diritto di aborto», come si
esprimono i mass media, significa allora soltanto che ha riconosciuto il
diritto dei cittadini di ogni Stato americano di decidere secondo le regole
della democrazia rappresentativa, vigente negli Stati Uniti come in molti altri
Paesi dell’Occidente, come regolamentare la questione della vita nascente.
Le proteste nascono, però, dall’idea di molti che – come osservava durante
una recente puntata di «Otto e mezzo», la conduttrice Lilli Gruber – qui si
tratti di un diritto che va al di là delle regole della democrazia. È quanto
sosteneva il cardinale Ruini quando parlava di «valori non negoziabili» e
includeva tra essi, all’opposto dei sostenitori del diritto all’aborto, il
diritto del nascituro alla vita.
In questo caso il diritto “assoluto” non sarebbe più, come per il
cardinale, quello della vita, ma quello della libertà delle donne di disporre
del proprio corpo. Nessuna legge potrebbe, secondo questa visione, porre limiti
al diritto di aborto, perché violerebbe questa fondamentale libertà.
Esseri umani e persone
Ma è proprio così? A metterlo in dubbio, per la verità, è uno degli
studiosi più decisamente favorevoli alla legittimità etica e giuridica
dell’aborto, Peter Singer, il quale fa presente in un suo libro che appellarsi
alla libertà della donna – come faceva la sentenza nella causa Roe v. Wade –
«può essere una buona politica, ma certo è cattiva filosofia. Presentare il
problema dell’aborto come una questione di libertà di scelta individuale (…)
significa già di per sé presupporre che il feto in realtà non conta nulla.
Chiunque pensi che un feto umano ha lo stesso diritto alla vita degli altri
esseri umani non potrà mai ridurre il problema dell’aborto a una questione di
libertà di scelta, più di quanto possa ridurre la schiavitù a una questione di
libertà di scelta da parte degli schiavisti» (P. Singer, Ripensare la vita. La
vecchia morale non serve più, Milano 1996).
Peraltro, il famoso bioeticista australiano è convinto che l’aborto sia
lecito e vada legalizzato. Ma perché pensa di poter dimostrare che gli
embrioni/feti non hanno, come egli dice, «lo stesso diritto alla vita degli
altri esseri umani». A dire il vero, anche nei confronti degli animali non
umani molti – a cominciare dallo stesso Singer – hanno delle forti obiezioni
nei confronti della sperimentazione indiscriminata su di loro e non accetterebbero
“la libertà dei ricercatori scientifici” come un buon argomento per
giustificarla.
La libertà
La libertà deve sempre fare i conti con la responsabilità verso l’altro. E
di un “altro”, non soltanto di una parte dell’organismo femminile, si tratta
nel caso dell’embrione e, ancora più evidentemente, del feto. Se poi questo
“altro” è un essere umano – e nessuno nega che essi lo siano, in base al
semplice dato del loro DNA – la questione si fa ancora più seria.
Il punto, per Singer, come per Engelhardt, per Tooley, per Regan – per
tutti i più noti bioeticisti che giustificano l’aborto – , è che dobbiamo avere
il coraggio di rimettere in discussione quella che spesso viene considerata una
certezza indiscutibile, e cioè il valore della vita umana come tale. «Perché è
moralmente sbagliato», si chiede Singer, «sopprimere una vita umana? (…). Che
cosa c’è di così speciale nel fatto che una vita sia umana?».
Per questi autori se mai il valore da tutelare sono le persone. Ma, essi
spiegano, “persone” si possono considerare solo gli esseri umani dotati di
autocoscienza. Perciò, come dice lapidariamente un altro notissimo studioso,
Engelhardt, «non tutti gli esseri umani sono persone. Non tutti gli esseri
umani sono autocoscienti, razionali e capaci di concepire la possibilità di
biasimare e lodare. I feti, gli infanti, i ritardati mentali gravi e coloro che
sono in coma senza speranza costituiscono esempi di non-persone umane» (H. T.
Engelhardt, Manuale di bioetica, Milano 1991).
La persona
Questi esseri sono umani, ma, non essendo persone, possono essere uccisi, o
usati per esperimenti, senza violare in nulla l’etica. Lo diceva già, in un suo
famoso articolo, un altro noto bioeticista, Tooley, che si chiedeva: «Quali
proprietà si devono avere per essere una persona, cioè per avere un serio
diritto alla vita?» La risposta dell’autore è che «un organismo possiede un
serio diritto alla vita solo se possiede il concetto di sé come soggetto
continuo nel tempo di esperienze e altri stati mentali, e crede di essere una
tale entità continua nel tempo» (M. Tooley , Aborto e infanticidio).
Perché ci sia persona, insomma, si richiede, secondo lui, quello che egli
chiama «requisito di autocoscienza». Ma siamo sicuri che distinguere esseri
umani e persone, subordinando il secondo titolo al possesso di certe qualità
diverse dall’appartenenza alla specie umana, sia una buona idea? Non possono
non ritornare alla mente le civiltà del passato, che in base a questa
distinzione hanno considerato appartenenti alla nostra specie, ma non-persone,
gli schiavi, le donne, gli indios …
E forse non è un caso che oggi si sia riconosciuto finalmente che i diritti
umani si applicano a tutti gli uomini e le donne per il semplice motivo che
sono “umani”, a prescindere dal possesso di altri requisiti.
Una nuova fede (sottratta alla ragione)
Alla luce di queste elementari considerazioni è un po’ strano considerare
una incredibile regressione alla barbarie la posizione di coloro che, come la
Chiesa cattolica, condannano l’aborto. Ma, nel caso della sentenza della Corte
americana, non si tratta neppure di una condanna. Semplicemente si lascia ai
cittadini dei singoli Stati di decidere come va regolamentata una materia così
delicata.
Che questo diritto dei cittadini venga negato in nome di un preteso valore
assoluto, come sarebbe la libertà della donna, fa riflettere sul fatto che,
venuti meno i dogmi delle grandi religioni, se ne sono inventati altri. Solo
che quelli riguardavano una sfera superiore, in cui la fede appare legittima,
mentre i nuovi non possono sottrarsi al controllo della ragione.
E’ in base ad essa che appare necessario bilanciare il valore indiscutibile
della libertà della donna con quello, fino a prova contraria altrettanto
indiscutibile, dell’essere umano che essa porta dentro di sé. In realtà anche
nelle legislazioni più restrittive questo bilanciamento prevede, di solito, il
diritto di ricorrere all’interruzione volontaria della gravidanza quando è in
pericolo la vita del madre o quando sono diagnosticate gravissime deformazioni
del feto. Spesso è preso in considerazione, come motivazione per abortire, il
caso dello stupro.
Queste ragionevoli condizioni, però, nelle esasperate proteste di questi
giorni, non vengono neppure pese in considerazione. Il diritto della donna sul
proprio corpo è considerato così assoluto da non dover rendere conto non solo
alla democrazia, ma neppure alla ragione. Facendo rimpiangere la fede
religiosa, che, almeno nella visione cristiano-cattolica, ha sempre ritenuto di
poter andare oltre l’intelligenza umana, ma non di poterla contraddire.
*Pastorale della Cultura – Diocesi di Palermo
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