*L’attacco all’Iran
difesa o suicidio
della democrazia?
-di Giuseppe Savagnone -
Il duplice obiettivo della guerra di Israele
L’attacco
di Israele nei confronti dell’Iran è stato considerato da tutti i governi
occidentali e dalla grande maggioranza dell’opinione pubblica e della stampa un
prezzo necessario per la difesa – non solo dello Stato ebraico, ma delle nostre
democrazie – dalla imminente minaccia atomica di un regime autoritario e
terrorista.
Da
qui reazioni che vanno dai toni più estremi della nostra stampa di destra –
«Finalmente! L’Iran delle belve sta per cadere», («Libero»), – a quelli
crudamente realistici del cancelliere tedesco Mertz, che ha definito
l’operazione militare «il lavoro sporco che Israele fa per tutti noi».
In
realtà, fin dall’inizio, all’obiettivo di fermare il programma nucleare
dell’Iran Netanyahu ne ha collegato un altro, quello della caduta del governo
degli ayatollah e del cambio di regime (regime change), rivolgendo un
appello in questo senso al popolo iraniano.
Si
spiegano così, oltre il bombardamento dei siti nucleari, la strategia di
sistematica decapitazione dei vertici politici e militari di Teheran e le
parole minacciose e sprezzanti del ministro della Difesa israeliano Israel Katz
nei confronti del presidente iraniano Khamenei: «Avverto il dittatore iraniano:
chiunque segua le orme di Saddam Hussein finirà come Saddam Hussein». Un
riferimento all’impiccagione del capo dello Stato iracheno, dopo la sua
sconfitta nella guerra del Golfo del 2003, che va certo molto al di là
dell’obiettivo limitato della pura e semplice neutralizzazione dell’arma
atomica, aprendo piuttosto gli scenari di una guerra totale.
Su
questa linea, anche il presidente Trump ha rivolto a Teheran la sua richiesta,
che non è stata di trattare sul nucleare ma, come ha scritto il capo della Casa
Bianca a lettere cubitali sul suo sito, la «Resa incondizionata». E suonano
altrettanto violente di quelle di Katz le sue parole riguardo a Khamenei:
«Sappiamo esattamente dove si nasconde il cosiddetto “Leader Supremo”» – ha
scritto sui social -. «È un bersaglio facile, ma lì è al sicuro. Non lo
elimineremo, almeno non per ora. Ma (…) la nostra pazienza sta finendo».
Diversa
la posizione dell’Unione Europea che, pur aderendo senza riserve alla guerra di
Israele, ha espressamente preso le distanze dal progetto del regime
change, sottolineando piuttosto la necessità di una de-escalation che porti
di nuovo l’attuale governo iraniano al tavolo dei negoziati con gli USA.
«Qualsiasi tentativo di cambiare il regime porterebbe al caos», ha avvertito il
presidente francese Macron.
L’Iran
agli antipodi delle democrazie occidentali
Non
che il regime iraniano sia visto, in Occidente, di buon occhio. Su di esso
gravano le fondate accuse di dissidenti interni e osservatori esterni, che da
tempo ormai denunziano la sistematica repressione delle libertà civili e
politiche, con particolare riferimento alle limitazioni imposte alle donne,
sulla base di una applicazione rigida della legge islamica.
Siamo
davanti a un fanatismo religioso che mescola senza distinzione le prescrizioni
del Corano e le regole della convivenza civile e che sta all’origine stessa
dell’assetto attuale dell’Iran, nato da una rivolta, nel 1979, contro il
governo laico dello Scià, culminata con l’ascesa al potere dell’ayatollah
Ruhollah Khomeini, di cui l’attuale presidente è il successore.
Siamo
lontanissimi dalla distinzione tra Stato e Chiesa a cui, pur senza rispettarla
sempre di fatto, si è comunque ispirato, in linea di principio, la civiltà
occidentale, alle cui radici spirituali non c’è un fondatore al tempo stesso
religioso e politico, guida spirituale e condottiero di eserciti, come Mohamad,
ma la figura di quel profeta disarmato che è stato Gesù.
Da
qui la difficoltà di reciproca comprensione tra i paesi più fortemente legati
alla loro matrice religiosa islamica – in realtà non solo l’Iran, ma anche un
fedele alleato dell’Occidente come l’Arabia Saudita – e quelli eredi della
tradizione cristiana, peraltro ormai, a sua volta, largamente secolarizzata. Da
qui anche la critica a quella che, nella prospettiva occidentale, appare una
chiara violazione dei diritti umani.
Si
aggiunga a questa divergenza di fondo il fatto che l’Iran è l’ispiratore e il
finanziatore di gruppi islamici estremisti come Hezbollah e Hamas e sta dietro
atti terroristici contro Israele e contro l’Occidente. A questo titolo rientra
nella lista degli “Stati-canaglia” stilato dal governo americano. Quanto basta
a spiegare la soddisfazione con cui molti governi hanno accolto l’attacco di
Tel Aviv, pur senza aderire, come gli Stati Uniti, all’idea della guerra totale
e del regime change.
L’Occidente
alle prese con le sue contraddizioni
Eppure,
già a questo livello minimale, il conflitto esploso in questi giorni li ha
spiazzati e costretti a significative modifiche del loro linguaggio e del loro
atteggiamento.
Si
pensi al principio, solennemente enunciato e ripetuto ad ogni occasione – prima
per la guerra in Ucraina, poi per quella di Gaza – , secondo cui “non possibile
mettere sullo stesso piano l’aggressore e l’aggredito”. È stato in forza di
questo mantra indiscutibile che l’Occidente ha sostenuto compatto (fino
all’avvento di Trump) l’impostazione data da Zelenskij alla guerra con la
Russia, escludente a priori ogni negoziato fin quando l’aggressore non si fosse
ritirato.
Ed
è stato ancora più nettamente questo il principio che ha giustificato il pieno
appoggio a Israele, per un anno e mezzo, chiudendo gli occhi sui metodi
dell’esercito di Tel Aviv, in nome dello slogan “Israele ha il diritto di
difendersi” e della giustificazione “Non sono stati loro a cominciare”.
Ogni
tentativo, anche da parte di autorevoli personalità, come il segretario
generale dell’ONU, Guterres, di far notare che nella complessità del corso
degli eventi il confine tra l’aggressore e l’aggredito non è così netto, e che
bisogna tenere conto anche del contesto, ha suscitato fino ad ora reazioni
indignate da parte di politici e opinionisti infervorati nella difesa “a
priori” dell’aggredito.
L’attacco
di Israele all’Iran ha costretto, su questo punto, a cambiare precipitosamente
linea. In questo caso, è diventato essenziale, per giustificare l’appoggio a
questa aggressione, il richiamo al contesto e guardare a ciò che è accaduto
prima del 13 giugno e che ne chiarisce il significato. Solo che, se si adotta
questo criterio, bisogna retroattivamente dar ragione a Guterres, quando, nel
suo discorso all’ONU del 24 ottobre 2023, dopo aver deprecato la ferocia del
massacro del 7 ottobre, aveva fatto presente che «gli attacchi di Hamas non
sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di
soffocante occupazione».
E
avrebbe anche potuto ricordare il dramma della Nakba, l’espulsione di almeno
300.000 palestinesi (secondo la stima moderata dello storico ebreo israeliano
Ben Morris) dalle loro terre. Ma già è bastato questo accenno al contesto per
far infuriare il rappresentante israeliano e indignare gli opinionisti di tutto
l’Occidente («Un’enormità», aveva definito le sue parole il nostro Paolo
Mieli). E il 7 ottobre è diventato l’inizio di tutto, mentre il 13 giugno va
considerato “nel suo contesto”.
Anche la condanna unanime e indiscussa del terrorismo, come azione violenta
contro singoli, anche civili, senza alcuna legittimazione giuridica, entra in
crisi.
Nell’attacco
all’Iran il Mossad ha ucciso, oltre a capi militari e politici, anche 14
scienziati – fisici e ingegneri – con attentati che li hanno fatti saltare in
aria insieme alle loro famiglie. Cosa penseremmo se dei servizi segreti
stranieri facesse questo nei confronti degli scienziati – ma anche dei politici
e dei capi militari – responsabili solo di lavorare al servizio del nostro
paese? Uccidendo anche le loro mogli e i loro figli innocenti? Probabilmente è
anche a questo che si riferisce il cancelliere tedesco quando parla di un
«lavoro sporco che Israele fa per tutti noi». Ma saremo ancora noi stessi
avallando il terrorismo che giustamente condanniamo quando ne sono responsabili
gli altri?
Ma
c’era davvero la minaccia?
Il
fatto è – si è risposto finora – che la minaccia atomica iraniana è un pericolo
così grave, per Israele e per tutti, da giustificare anche questi compromessi.
Ma esiste davvero questa minaccia? La domanda potrebbe sembrare provocatoria,
se non fosse posta, in questi giorni, dal «New York Times» e dalla CNN, che, a
proposito della possibile entrata in guerra degli Stati Uniti, hanno evocato lo
spettro della guerra del Golfo del 2003, scatenata da George Bush jr sulla base
di false prove che l’Iraq disponeva di «armi di distruzione di massa».
Richiamando
quella bufala, i giornalisti americani riferiscono che nel mese di marzo la
direttrice dell’Intelligence nazionale nominata dallo stesso Trump, Tulsi
Gabbard, ha testimoniato davanti al Congresso che, secondo la comunità di
intelligence statunitense, l’Iran non sta affatto costruendo un’arma nucleare.
Gabbard
ha a questo proposito sottolineato che, secondo le informazioni raccolte dagli
007 americani, «la Guida Suprema Khamenei non ha autorizzato la ripresa di un
programma di armi nucleari, sospeso nel 2003».
Da
parte sua, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA), che aveva
pubblicato il 12 giugno un rapporto nel quale dichiarava che l’Iran «ha violato
i propri obblighi di fornire all’AIEA una cooperazione completa e tempestiva in
merito al materiale nucleare non dichiarato e alle attività in più siti non
dichiarati in Iran», ha precisato ora, per bocca del suo direttore Rafael
Grossi, che questo non implicava un riferimento alla costruzione di una bomba:
«Non avevamo alcuna prova di uno sforzo sistematico (dell’Iran) per arrivare a
dotarsi di un’arma nucleare».
Chiamati
a una scelta
E
allora? In base a che cosa tutto questo sta accadendo, con i suoi immensi costi
umani, morali, politici, economici? La risposta è semplice: in base alla parola
di Netanyahu, il solo rimasto a garantire che l’Iran è sul punto di dotarsi di
un’arma nucleare.
Solo
che, se si crede a Netanyahu, in questi diciotto mesi l’esercito israeliano ha
rigorosamente rispettato i diritti umani dei palestinesi, sia a Gaza che in
Cisgiordania, e le denunzie rivolte non solo dalla Corte Penale Internazionale,
ma ormai anche da governi che pure sono alleati di Israele, sono il frutto di
una indegna “crociata antisemita”.
È
difficile, a questo punto, scacciare il sospetto che l’improvviso attacco di
Israele all’Iran, più che alla minaccia nucleare, sia stato deciso per stornare
l’attenzione internazionale dalle violenze quotidiane sempre più gratuite e
inaccettabili contro l’innocente popolazione palestinese, ricompattando in
difesa dello Stato ebraico i governi che, come quello inglese, stavano ormai
cominciando a varare sanzioni nei confronti dei ministri ultra-ortodossi di Tel
Aviv.
Disegno,
peraltro, coronato da successo, se è vero che i massacri a Gaza sono sempre più
sanguinosi, ma l’opinione pubblica mondiale è polarizzata sulle «belve
iraniane».
Quali
che siano le colpe del regime di Teheran, in questo momento in gioco sono le
nostre democrazie che le hanno sempre giustamente denunziate. Siamo noi,
l’opinione pubblica e i governi occidentali, a dover decidere se seguire
Israele in questa corsa verso il suicidio della democrazia – sempre più
sganciata dai valori di verità e di giustizia che la rendono tale – , oppure
avere il coraggio di prenderne le distanze e dire, con forza, il nostro
«basta!».
Foto di Moslem Danesh su Unsplash
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