Il volto dell’altro
e le politiche
verso i migranti
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di Giuseppe Savagnone
La criminalizzazione dei migranti irregolari negli Stati Uniti
Il
tema dei migranti irregolari domina in questi giorni le cronache per i
contraccolpi che esso sta avendo negli Stati Uniti. Nella sua
campagna elettorale, Donald Trump aveva sostenuto che i paesi confinanti
avevano mandato i loro assassini negli Stati Uniti.
«Per
questo,» – aveva dichiarato – «per tenere al sicuro le famiglie, prometto la
più grande deportazione della storia del nostro paese». E sta mantenendo la
parola data.
L’impegno
si è subito profilato arduo, perché ad oggi si stima che i clandestini a
espellere siano oltre 11 milioni. E molti di loro sono ormai inseriti nel
tessuto sociale ed economico americano, rendendo estremamente doloroso il
taglio netto che il nuovo presidente vuole attuare. Da qui i disordini che si
stanno verificando, cominciando dalla California, in diversi Stati.
Il
primo problema da risolvere per gli espatri forzati è di trovare dove inviare
le persone espatriate. Trump lo sta risolvendo, con la consueta risolutezza, in
vari modi. A marzo – sulla base di un accordo col presidente di El Salvador,
Bukele, suo grande ammiratore, oltre che il più accondiscendente dei leader
nella regione – ha deportato nel paese sudamericano 238 presunti membri della
gang venezuelana Tren de Aragua, designata dagli USA come organizzazione
terroristica.
Resteranno
rinchiusi per un anno (rinnovabile) nel Centro di confinamento del terrorismo
(CECOT), un famigerato carcere di massima sicurezza. Lo ha fatto senza
concedere loro un colloquio per l’asilo o un’udienza nei tribunali per
l’immigrazione, avvalendosi di una legge risalente al 1798, l’Alien Enemies
Act, che consente al governo di arrestare, detenere e deportare,
clandestini di età superiore ai 14 anni provenienti da paesi che minacciano
«un’invasione o incursione predatoria» nei confronti degli Stati Uniti.
In
quest’occasione il presidente americano ha postato sul suo social network
«Truth» un video shock dove si mostrano quelli che lui chiama «i mostri»,
mentre, con le mani e le caviglie incatenate, sono spinti fuori da un
aereo, fatti salire su un convoglio di bus sorvegliato da agenti
antisommossa, e poi rasati, in ginocchio, prima di indossare una divisa
bianca e condotti nelle celle piegati a 90 gradi.
In
realtà di nessuno dei deportati è stata dimostrata in alcun modo l’appartenenza
alla banda criminale in questione. Di uno, anzi, Abrego García, cittadino
salvadoregno residente legale nel Maryland, è emersa subito la completa
estraneità alle accuse rivoltegli, tanto da indurre la Corte suprema degli
Stati Uniti a ordinarne il rientro.
Ma
la Casa Bianca ha ribadito che Abrego García non sarà autorizzato a tornare
negli Stati Uniti, nonostante l’ordinanza della Corte Suprema e pur avendo le
autorità per l’immigrazione ammesso di aver commesso un errore deportandolo.
Un
altro intervento per espellere i migranti dal territorio statunitense –
comunicato in questi giorni – è il loro trasferimento nel tristemente celebre
carcere di Guantanamo, finora riservato ai sospetti terroristi, creato
dall’amministrazione americana su territorio cubano per sottrarsi alle regole
che in patria avrebbero limitato le violazioni dei diritti umani.
Si
parla di ben 9.000 immigrati, originari di vari paesi, tra cui, secondo il
«Washington Post», due italiani. Anche se per questi è subito intervenuto il
nostro ministro degli Esteri, Tajani, assicurando che non finiranno mai a
Guantanamo.
Dei
colloqui sono in corso, intanto, con il governo del Rwanda che, in cambio di
vantaggi economici consistenti – è uno dei paesi più poveri dell’Africa – è
disposto ad accogliere i clandestini espulsi dagli Stati Uniti. E si parla
anche di un progetto analogo riguardante la Libia.
Senza
contare i clandestini rimandati nei loro paesi di origine: 80 in Guatemala, 88
in Brasile, 201 in Colombia, 104 in India. E anche in questi trasferimenti, a
colpire sono state le condizioni disumane in cui queste persone – che, lo
si ricordi, non hanno mai fatto male a nessuno e che vengono considerate
criminali solo perché, alla ricerca di una vita migliore, hanno violato le
leggi sull’immigrazione – sono state costrette a viaggiare, ammanettate e
incatenate.
Non
si tratta di un errore. Già all’indomani del suo insediamento, Trump ha
volutamente amplificato l’effetto mediatico della sua prima espulsione
pubblicando la foto che mostra una fila di migranti guatemaltechi ammanettati e
in catene mentre venivano scortati su un aereo cargo militare. Il post era
accompagnato dalla scritta «I voli di deportazione sono iniziati. Promessa
fatta, promessa mantenuta». L’umiliazione di persone come strumento di
propaganda.
La
politica migratoria come copertura
È
stato osservato che per Trump la politica verso i migranti costituisce una
priorità assoluta e che sta puntando su di essa per nascondere gli effetti
disastrosi degli altri fronti della sua politica.
Le
promesse fatte nel corso della campagna elettorale sulla rapida conclusione
delle due guerre in corso, in Ucraina e a Gaza – sono state clamorosamente
smentite. L’«età dell’oro» per l’economica americana, che sarebbe dovuta
cominciare il giorno stesso del suo insediamento, per ora si è tradotta in una
imprevista, brusca recessione.
E
i sondaggi dicono che il l’indice di gradimento di Trump è il più basso tra
tutti i presidenti neoeletti degli ultimi settant’anni. Il pugno duro contro i
migranti sembra l’unico appiglio per rassicurare i suoi sostenitori che le
promesse elettorali sono effettivamente ancora valide.
Qualcosa di
simile, peraltro, sta accadendo in Italia. La premer Meloni era andata al
governo promettendo che avrebbe ridato all’Italia un prestigio internazionale
che, a suo avviso, aveva perduto. L’elezione di Trump, a cui la legava
un’affinità ideologica, aveva creato l’illusione che questa promessa stesse per
realizzarsi.
La
nostra presidente del Consiglio fin dall’inizio aveva assunto l’atteggiamento
di chi intendeva porsi come “ponte” fra le due sponde dell’Atlantico,
rifiutando di allinearsi alle posizioni critiche degli altri governi europei e
ribadendo la sua fiducia nella linea del presidente americano.
L’esplosione
del problema dei dazi sembrava l’occasione storica per l’esplicazione di questo
ruolo. Nel viaggio di metà aprile a Washington la Meloni, forte della
propria dichiarata appartenenza allo stesso fronte conservatore del presidente
americano, si era presentata come portavoce dell’UE.
Il
dispiegamento di lodi e complimenti, nei suoi confronti da parte di Trump, i
sorrisi reciproci, qualche vaga promessa, avevano giustificato le
trionfali dichiarazioni della nostra premier, all’indomani, circa un rapporto
privilegiato di cui era orgogliosa e il tripudio dei giornali di destra che
esaltavano la sua centralità sulla scena internazionale.
Anche
se l’opposizione e qualche attento osservatore, in Italia, avevano osservato
che alla fine era stato il governo italiano a portare agli USA investimenti e
denaro, per acquisti di gas e di armi, senza riceverne in cambio nulla.
Poi
è andata come tutti sappiamo. Trump grandi complimenti li ha fatti a tutti i
leader da cui ha ottenuto qualcosa e sui dazi, come su tutto il
resto, ha seguito la propria strada, ignorando la Meloni. Che, a questo
punto, si è trovata isolata e ha dovuto in fretta e furia rientrare, accettando
un ruolo marginale, nel gruppo dei “volenterosi”, riavvicinandosi al suo rivale
di sempre, il presidente francese Macron.
L’unico
titolo che le è rimasto per vantare una centralità internazionale è, a questo
punto, la politica migratoria, dato che il suo “protocollo Albania” –
fallimentare finora per la sproporzione tra costi (enormi) e benefici
(nulli) – ha avuto da parte dei paesi europei un ampio riconoscimento.
Ed
è vero che, a livello simbolico, esso incarna efficacemente il ripiegamento su
se stessa di un’Europa smarrita e senza più ideali che non siano quelli legati
alla propria autoconservazione – primo fra tutti la sicurezza – ,
ripiegamento confermato dall’innalzamento ovunque di muri difensivi.
L’idea
di tenere i migranti fuori dei propri confini, rispedendoli a casa loro senza
che neppure abbiano potuto mettere piede sul nostro territorio, ha avuto un
prezzo altissimo in termini economici (un qualunque CPR, in Italia, sarebbe
costato immensamente di meno), ma è perfettamente rappresentativa di quella
“difesa dei confini” che è al centro dei programmi di tutti i partiti di
estrema destra, a comunciare da quello neo-nazista Alternative für Deutchland.
E
non è un caso che anche i 40 migranti che sono sbarcati in Albania, prima di
essere poi riportati in Italia, avessero i polsi ammanettati, come quelli
deportati negli USA. Alle proteste il ministro degli Interni Piantedosi ha
replicato che si tratta di una «normalissima pratica», anche perché tra gli
stranieri sbarcati alcuni erano stati condannati per reati comuni. Senza
spiegare, però, perché le manette fossero state imposte anche agli altri.
Ragionevole
cautela o violenza che nasce dalla paura?
Ciò
che colpisce, nella vicenda americana e in quella italiana – ma ormai
tendenzialmente anche europea – , è che non si tratta solo di affrontare con
ragionevole cautela un fenomeno migratorio che, privo di ogni controllo,
risulterebbe disastroso per i nostri paesi sia dal punto di vista economico che
da quello culturale.
Su
questo punto anche i sostenitori di una politica di accoglienza, come papa
Francesco o, in Italia, la Cei, sono stati chiari, e solo una malevola
distorsione della loro posizione ha potuto far credere che la loro richiesta
fosse di una irragionevole apertura illimitata.
In
realtà, il clima che negli Stati Uniti è evidenziato dal sostegno popolare alle
politiche di espulsione di Trump, nel nostro paese, dal modesto risultato del
recente referendum sulla cittadinanza degli stranieri, non è affatto di
benevola, ragionevole prudenza, ma di paura e di violenta ripulsa.
Lo
straniero è visto come un nemico e come tale viene considerato una minaccia o
quanto meno un ingombro di cui disfarsi. Da qui l’esibizione compiaciuta della
sua umiliazione e delle sue catene, funzionale a far dimenticare gli insuccessi
in altri campi.
Vengono
in mente, davanti a questo quadro, le riflessioni del filosofo ebreo francese
Emmanuel Levinas, diventato famoso per avere messo al centro della esperienza
umana la scoperta del «volto dell’altro», troppo spesso
misconosciuto e vilipeso nella società del denaro e del benessere. Per
Levinas è il volto altrui che ci permette di comprendere noi stessi e di uscire
fuori dalla nostra angusta prospettiva autoreferenziale.
Ciò
a cui assistiamo oggi è la deriva della civiltà occidentale, che era nata nel
medioevo dall’accoglienza dall’integrazione dei “barbari”, dei “diversi” – da
cui è scaturita poi tutta la sua ricchezza – , verso una isterica chiusura che
impedisce di guardare in faccia l’altro, magari per coprire, con stupore, che è,
come noi, semplicemente un essere umano, con gioie e dolori simili ai nostri.
In
questo abbandono del valore cristiano della fraternità e nell’apoteosi
unilaterale di quello della propria sicurezza – e del sentimento corrispondente
della paura – , è la nostra stessa civiltà che rischia di essere compromessa.
Senza dire che prima o poi, come la storia ha ampiamente dimostrato, i muri
sono destinati a crollare e chi li ha eretti rimane sotto le macerie.
Immagine: Foto
di Nitish Meena su Unsplash
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