lunedì 23 giugno 2025

DANTE, PELLEGRINO DI SPERANZA

 


La speranza cristiana 
nella 

Divina Commedia


- di P. Giuseppe Oddone


 La nascita della Divina Commedia è collegata al primo giubileo della storia della Chiesa indetto nell’anno 1300. L’opera è scritta animata dal desiderio e dalla speranza di indicare alla Chiesa e alla società cristiana di quel tempo e di ogni tempo il cammino del rinnovamento personale e comunitario. Occorre anzitutto precisare che il termine speranza ha per Dante un doppio significato. Può essere semplicemente una passione umana che cerca di ottenere un bene terreno, un bene possibile, anche se difficile da raggiungere; esso mette in atto il dinamismo della volontà per ottenerlo: può essere la salute, o il denaro, o la conquista affettiva di una persona, o il potere e anche in un senso più ampio il benessere della società, della propria nazione, il raggiungimento della pace. Ma solitamente la speranza di Dante è la speranza tipicamente cristiana, la virtù infusa da Dio con il battesimo nella nostra volontà, indissolubilmente legata con la fede e l’ardore di carità, è la certezza che sorretti dall’onnipotenza misericordiosa di Dio possiamo raggiungere la salvezza eterna e migliorare la nostra vita personale e sociale. Anche i beni terreni infatti possono essere oggetto secondario della speranza, se favoriscono ed orientano verso il fine ultimo della creatura umana, che è Dio e la vita eterna con lui. 

 La speranza cristiana impegna nella vita presente, lega il tempo che viviamo all’eterno e lo proietta nella definitiva comunione con Dio. Dante smarrito nella selva oscura Dante inizia la Divina Commedia affermando che è entrato, praticamente senza rendersene conto, nella selva oscura del peccato, in una situazione di lontananza da Dio, in una forma di accecamento spirituale “ché la diritta via era smarrita” (Inferno, I, 1-9). Finalmente prende coscienza della sua situazione, spera di uscirne da solo, ma comprende ben presto che non può raggiungere la salvezza con le sue sole forze. Mentre ostacolato da tre fiere rovina nuovamente verso il fondo della selva del peccato, gli appare Virgilio (Inferno, 61-136). Egli spiega a Dante che una catena di mani soccorritrici giunge a lui dal mistero inaccessibile di Dio. E’ la Vergine Maria che prova dolore per la sua situazione e spezza il duro giudizio di condanna divina; Maria chiama Lucia, la martire siracusana che Dante ha in grande venerazione, Lucia convoca Beatrice, creatura celeste e insieme umana, perché donna calda di affetto per il suo amico smarrito; essa a sua volta va dal poeta più amato da Dante, Virgilio, nel primo cerchio dell’Inferno, perché a sua volta lo faccia uscire dalla selva oscura. Le tre donne benedette sono simbolo della grazia preveniente, della grazia illuminante, della grazia attuale e Virgilio dell’impegno umano nel cammino verso la piena libertà dagli aspetti negativi delle passioni terrene. Virgilio dichiara che Dante per volontà divina è destinato a compiere un altro viaggio, ha cioè una missione da compiere: indicare all’umanità peccatrice “che mal vive” un cammino di conversione e di redenzione, farsi pellegrino per prendere coscienza di tutta la realtà nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, capire la libertà dell’uomo e come egli con le sue scelte possa fissarsi nel male e perdersi, oppure costruire nella vita terrena la sua felicità sia nella propria storia personale, che in quella sociale ed ecclesiale. I due poeti condividono questa certezza: il viaggio nell’ aldilà è voluto da Dio per indicare all’umanità corrotta e traviata la via della conversione e della salvezza terrena ed eterna (Inferno, II, 1-142). 

 Il cammino di Dante nell’Inferno sorretto dalla speranza

Non è un viaggio facile quello dell’Inferno, che insacca tutto il male del mondo, giudicato definitivamente da Dio, un mondo senza la virtù della speranza: “lasciate ogni speranza voi ch’entrate!” (Inferno III,9). Scendendo di girone in girone i due poeti si vedono spesso sbarrata la strada dai vari custodi infernali. E’ difficile per l’intelligenza dell’uomo capire la realtà negativa del male: essa tende a nascondersi per non farsi scoprire, per non essere illuminata. Dante comunque discende in questo mondo senza speranza con la speranza cristiana e con la protezione di Maria. Deve indagare le conseguenze del rifiuto di Dio perché questa è la volontà divina, che vince tutte resistenze: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole” (Inferno III,95,96; V, 23-24) e la stessa Vergine è invocata nel Paradiso come “Regina, che puoi ciò che tu vuoli” (Paradiso XXXIII, 34-35) Vi sono tuttavia dei valori umani che rimangono anche nell’Inferno pur non avendo trovato la loro piena realizzazione. Quello che scoperto in Dio sta davanti a Dante dice praticamente: “Io sono te. Considera il rischio che corri se rifiuti la prospettiva della speranza cristiana e la grazia divina!”. Dante ammira la squisita gentilezza e la femminilità di Francesca, ma non può condividere la teoria dell’amore cortese libero da ogni vincolo morale (Inferno V, 73-142), ammira l’amore per Firenze in Farinata degli Uberti, ma comprende che non si può impostare la vita solo sulla passione politica (Inferno X, 22-93) esalta la fedeltà di Pier delle Vigne al suo signore “ che fu d’onor sì degno”, l’imperatore Federico II, ma non giustifica l’orgoglio che ha portato il suo ministro, ingiustamente accusato, al suicidio (Inferno XIII, 22-78) ricorda la capacità educativa e la cara immagine paterna di Brunetto Latini, ma non condivide la sua cultura esclusivamente laica (Inferno XV,22-96), apprezza la sete di conoscenza e di ricerca di Ulisse, ma comprende che senza la grazia divina questi valori sono insufficienti per la propria salvezza (Inferno XXVI 85-142), riflette e tace davanti al dolore disperato del conte Ugolino che narra come ha visto morire di fame i suoi figli innocenti nell’indifferenza del cielo e della terra: ” Ahi, dura terra perché non t’apristi!” (Inferno XXXIII, 66); al poeta non resta che esplodere in una terribile invettiva contro gli autori pisani di tale misfatto (Inferno XXXIII, 1-90). Nell’Inferno Dante è veramente il poeta del mondo terreno, con sua miseria e la sua grandezza, giudicato definitivamente da Dio. 

Dante pellegrino e poeta di speranza nel Purgatorio 

 Il Purgatorio è il regno della penitenza e della speranza: le anime devono espiare i loro peccati e risalire la montagna del Purgatorio; la loro è una pena temporale, nello stesso tempo una reale, mistica e gioiosa sofferenza, perché allietata dalla certezza dell’incontro definitivo con Dio. Anche per percorrere la salita del secondo regno, sempre guidato da Virgilio, che lo incoraggia ricordandogli la meta dell’incontro con Beatrice, Dante ha bisogno di un lasciapassare davanti a Catone, custode del Purgatorio: è la dichiarazione che Maria ha voluto per lui questo viaggio (Purgatorio I, 91-93). E così Dante riprende il suo cammino verso la piena libertà: riscopre la bellezza degli spazi aperti e del paesaggio marino, incontra numerosi personaggi che suscitano in lui uno stimolo di elevazione morale. L’amico Casella lo fa riflettere sulla musica, che deve avere una finalità non solo estetica ma anche morale (Purgatorio II, 76-133), Manfredi (Purgatorio III, 103-145) e Bonconte (Purgatorio V, 85-129) lo illuminano sulla misericordia infinita di Dio, Oderisi da Gubbio sulla vanità della gloria terrena (Purgatorio XI,73-117), Forese Donati sulla purificazione dell’amicizia (Purgatorio, XXIII, 37 -133), Bonagiunta da Lucca sulla poesia dello stilnovo (Purgatorio XXIV, 34-63), Guido Guinizzelli sulla letteratura del suo periodo (Purgatorio, XXVI, 91-132). In sintesi Dante recupera e purifica tante esperienze, non sempre del tutto positive, del suo passato di uomo e di poeta. Dopo aver superato faticosamente l’antipurgatorio che ospita coloro che si sono convertiti al termine della loro vita, il pellegrino Dante affronta la salita delle sette cornici ove sono espiati i sette vizi capitali: i sette P (peccati) gli sono incisi dall’angelo sulla fronte (Purgatorio, IX, 112 114) e si libera progressivamente, cornice dopo cornice, da ognuno di loro. Ma lo stimolo penitenziale comincia sempre per le anime e per Dante meditando un esempio di virtù vissuto dalla Vergine Maria e narrato nei Vangeli e si conclude con il canto o la proclamazione di una beatitudine, per significare che non si può raggiungere Dio se non si è imitata Maria ed assimilato lo spirito delle Beatitudini evangeliche. Dopo aver guidato il suo discepolo dalla schiavitù della selva oscura alla libertà, al pieno dominio di sé, Virgilio, fattagli superare l’ultima cornice dei lussuriosi, dichiara di aver terminato la sua missione (Purgatorio XXVII, 124-142). Per Dante subentra l’incontro dapprima con Matelda nella “selva spessa e viva” del Paradiso terrestre (Purgatorio XXVIII) e poi in una mistica processione l’incontro con Beatrice. Davanti alla donna amata il poeta in lacrime riconosce ancora i suoi errori (Purgatorio, XXX), poi immerso nelle acque purificatrici dei fiumi del Paradiso terrestre può finalmente contemplare gli occhi rilucenti di Beatrice e il suo sorriso (Purgatorio XXXI, 133-145), ormai “puro e disposto a salire le stelle” (Purgatorio XXXIII,145) Sono verità di fede, ben conosciute da Dante, la purificazione ultraterrena e l’utilità dei suffragi per i defunti. Ma le modalità di questa purificazione non le conosciamo. Pertanto tutta la rappresentazione della salita della montagna del Purgatorio e della sua struttura, il pellegrinaggio fino alla vetta del Purgatorio per raggiungere il Paradiso è creazione del genio poetico e cristiano di Dante. 

 Dante pellegrino e poeta della speranza nel Paradiso

 La virtù teologale della speranza, che ha informato e plasmato tutta la sua opera, è testimoniata indirettamente nel Paradiso, perché i beati hanno raggiunto il loro obiettivo: la salvezza e la comunione con Dio. Tuttavia Dante viene esaminato nel Paradiso sulle virtù teologali della fede, della speranza e della carità. San Pietro lo incorona dapprima poeta della fede (Paradiso XXIV, 34-154), poi San Giacomo dichiara che Dio per grazia gli ha concesso prima della morte di compiere il viaggio nel Paradiso per rafforzare in lui e negli altri la speranza, che sulla terra “bene innamora”, che riempie di amore per il bene e gli chiede di precisarne tre aspetti: che cosa essa è, come infiora la sua mente, ossia come fa fiorire la sua vita in una perenne primavera, e da quali fonti gli deriva (Paradiso XXV, 1-47). Beatrice lo previene e risponde alla seconda domanda con una dichiarazione sbalorditiva: la Chiesa militante (in pratica la Chiesa di tutti i tempi) non ha alcun figliolo con più speranza, come è scritto in Dio, sole che illumina tutti i beati del Paradiso: per questo a Dante è concesso di venire dalla terra alla Gerusalemme del cielo prima che sia conclusa la sua vita attiva in questo mondo. Dante viene praticamente dichiarato da Beatrice come il cristiano che supera nella virtù teologica della speranza tutti gli altri credenti, perché vuole orientare con la sua opera tutta la Chiesa, i cristiani e la società di ogni tempo verso un rinnovamento profondo, verso la prospettiva della comunione con Dio prima nell’impegno terreno e poi nella vita eterna (Paradiso XXV, 49-57). Il poeta risponde invece alle altre due domande e dà la definizione della speranza: essa è l’attesa certa della gloria del Paradiso, che è prodotta dalla grazia divina e dai meriti accumulati in vita: in pratica la virtù della speranza proietta e collega ogni giorno della vita terrena, tutto l’impegno della vita quotidiana animato dalla grazia nella gloria della vita futura, nella felicità eterna in Dio (Paradiso XXV, 64-69). Dante dichiara poi che la speranza viene a lui da molte stelle, ossia da molte fonti della Sacra Scrittura: è scesa nel suo cuore stilla dopo stilla, goccia dopo goccia, ed ora egli ne è talmente pieno che la riversa come una pioggia sugli altri. San Giacomo conferma questa affermazione, perché anche se racchiuso nella luce intensa di un fuoco ardente fa tremolare dentro di sé un raggio improvviso ed intenso come un fulmine. Infine il poeta, che si diletta e prova gioia nella speranza, dichiara qual è il suo oggetto specifico: la vita eterna, risorti con il nostro corpo, nella dolce vita della città del Paradiso (Paradiso XXV, 70-99). Esaminato poi sulla carità da San Giovanni dichiara ancora che la speranza, “quel che spera ogni fedel com’io” è uno degli stimoli, dei “morsi” con cui l’amore di Dio lo tiene vincolato a sé. (Paradiso XXVI, 55-66) Ecco dove porta la speranza: all’unione definitiva con Dio. II Paradiso di Dante è perciò traboccante di luce, di amore, di letizia che trascende ogni gioia terrena, cresce in ogni incontro ed esplode nel canto, nella danza, nel sorriso: gli eletti sono felici di donare tutto il loro essere alla volontà di Dio: “In la sua voluntade è nostra pace. Ell’è quel mar al qual tutto si move” (Paradiso III, 85-86) Il Paradiso è per Dante l’eterno sorriso di Dio: l’unico Dio sorride nella Trinità delle divine persone, in tre relazioni diverse con l’unica natura divina, è la Luce eterna che sola sussiste in se stessa (Unità di Dio), sola si comprende (Il Padre), ed è compresa e comprendendosi (il Verbo) si ama e si sorride (lo Spirito) (Paradiso XXXIII, 124-126); la Vergine Maria, che concederà a Dante di contemplare Dio, è la bellezza che ride nel cuore della candida rosa attorniata dagli angeli e dai santi (Paradiso XXXI,133-135), le anime sorridono ed ardono d’amore (Paradiso III, 67-69), nel sorriso e negli occhi di Beatrice c’è tutto il Paradiso (Paradiso XVIII, 19-21), anche tutto l’universo sorride perché trasformato in un mondo di pace, di amore, di ineffabile allegrezza (Paradiso XXVII, 4-9). L’ultimo canto del Paradiso precisa ulteriormente l’obiettivo della speranza: Dio, pur avendo un unico aspetto, “un semplice sembiante”, è contemplato dagli occhi del sommo poeta gradatamente dapprima nel mistero della sua unità, ove tutte le vicende della nostra vita terrena sono riunite con amore e trovano il loro senso definitivo, poi nella realtà della Trinità divina, infine nella visione della nostra natura umana assunta dal Verbo, ossia da Cristo, Verbo fatto uomo. Il mistero dell’incarnazione dice a Dante e a tutti noi che Dio e l’uomo sono indissolubilmente legati. E’ per il mistero dell’incarnazione, iniziato nel ventre di Maria che è fiorita la rosa del Paradiso (Paradiso XXXIII, 7-9); per questo stesso mistero Dante ha potuto compiere il suo viaggio e farsi pellegrino di speranza. Solo guardando a Cristo nella fede che potenzia la nostra intelligenza e folgorati dalla grazia, “l’Amor che muove il cielo e l’altre stelle” riempie di armonia il nostro desiderio di conoscenza e la nostra volontà nella speranza certa del definitivo incontro con Lui (Paradiso XXXIII, 85-145). 

 P. Giuseppe Oddone - Assistente Ecclesiastico Nazionale AIMC e UCIIM

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