Tre livelli di lettura
delle ultime vicende
della guerra di Gaza
-di Giuseppe Savagnone
L’uccisione
a Teheran del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh, può essere letta a
diversi livelli. Ce n’è uno militare, dove essa costituisce un clamoroso
successo di Israele, dopo la frustrazione della mancata vittoria nella campagna
di Gaza.
Uno
dei due capi supremi di Hamas, responsabili dell’eccidio del 7 ottobre 2023,
che Netanyahu aveva giurato di eliminare, è stato raggiunto dalla vendetta
dello Stato ebraico, che in questo modo ha restituito credibilità
all’efficienza delle sue forze armate e dato alimento alla speranza di quella
“vittoria totale” che il premier israeliano ha fin dall’inizio indicato come la
sola conclusione possibile di questa guerra.
C’è
poi il piano politico. Anche qui siamo davanti a un successo indiscutibile
dello Stato ebraico, che non solo ha decapitato Hamas, ma ha soprattutto
umiliato e screditato il proprio grande nemico, l’Iran, agli occhi della
comunità internazionale e dei suoi stessi sudditi, dimostrando di poter colpire
chi vuole nel cuore stesso di Teheran.
A
questo livello, però, la valutazione si fa più complessa. Perché, con questo
omicidio mirato, Israele ha colpito proprio il leader più disponibile al
negoziato per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi e con cui
effettivamente in Qatar aveva in corso un dialogo.
Così
facendo, potrebbe aver fatto un favore a Yahya Siwar, il capo di Hamas nella
Striscia, il più intransigente e sanguinario – è soprannominato «il macellaio
di Gaza» – sostenitore, al contrario di Haniyeh, della linea dura.
Soprattutto,
il governo israeliano con questo atto ha evidenziato di non avere alcun
interesse ai negoziati di pace in corso. «Come può avere successo la mediazione
quando una parte assassina il negoziatore dell’altra parte? La pace ha bisogno
di partner seri», ha scritto su X lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman Al-Than,
che, col sostegno degli Stati Uniti, ha guidato in questi mesi gli sforzi di
mediazione del Qatar.
L’uccisione
di Haniyeh è un’evidente dimostrazione che per Netanyahu l’unica pace possibile
è quella che potrà seguire la distruzione dei suoi nemici. Come del resto ha
spesso detto pubblicamente, mettendo in difficoltà il suo grande alleato, il
presidente americano Biden, che invece continua a far finta di non aver sentito
e a chiedere al premier israeliano un
accordo immediato sul cessate il fuoco.
Lo
ha fatto anche nel recente incontro a Washington, ricevendo in cambio vaghe
assicurazioni, che però gli ultimi eventi hanno clamorosamente smentito. Questo
attacco è stato un evidente schiaffo alla diplomazia americana. Si capisce la
freddezza del commento da parte del segretario di Stato Antony Blinken, da mesi
impegnato a mantenere aperto il dialogo: «Si tratta di qualcosa di cui non
eravamo a conoscenza e in cui non eravamo coinvolti».
C’è
però un risvolto amaro anche per Israele: far fallire i negoziati – o, come
minimo, rimandarli a tempo indeterminato – significa rinunziare al ritorno a
casa degli ostaggi e dover affrontare l’ira dei loro parenti, che da mesi
incalzano Netanyahu perché faccia di più in questo senso.
Certo,
se alla fine Hamas sarà davvero distrutta, non ci saranno più i loro carcerieri
a trattenerli. Ma quanti saranno ancora vivi e in grado di gioire di questa liberazione?
C’è
infine un livello di lettura dell’evento di Teheran su cui in questi giorni
nessuno sembra interessato a soffermarsi, e che forse merita una riflessione,
che riguarda la trasformazione radicale di ciò che intendiamo per “guerra”.
Una
trasformazione che non è cominciata con l’uccisione del capo politico di Hamas,
ma che trova in essa, come del resto in tutta la “guerra di Gaza”, la sua
perfetta esemplificazione.
Guerra
e terrorismo
Le
guerre sono sempre state espressione di violenza e di sopraffazione reciproca.
Un tempo, però erano anche legate a una costellazione di valori oggi spesso
dimenticati, o perfino contestati, ma che erano importanti per gli uomini di
altre epoche precedenti la nostra: coraggio, onore, lealtà, fedeltà.
Non
è un caso che nel Medioevo la figura del combattente sia stata identificata con
quella del cavaliere e sia stata tanto nobilitata da rendere possibile il
sorgere, addirittura, di ordini monastici cavallereschi.
Si
collega a questo il fatto che la violenza della guerra fosse regolamentata da
una serie di norme etiche e religiose, che la sottraevano all’arbitrio e alla
gratuita crudeltà, per inserirla in un vero e proprio rituale che prevedeva la “cortesia” perfino verso il nemico e
comunque sempre la protezione, o almeno il rispetto, nei confronti del debole.
Tutto questo non escludeva, evidentemente, gli abusi. Ma erano considerati e
condannati da tutti come tali.
A
partire dall’età moderna, poi, i conflitti bellici hanno avuto come soggetti
gli Stati, che li hanno gestiti attraverso eserciti composti da combattenti
specializzati o comunque nettamente identificati e ben distinti dalla
popolazione civile.
Da
qui la regola fondamentale del diritto internazionale, secondo cui quest’ultima
non doveva essere mai coinvolta. Anche qui, ai princìpi non corrispondeva
sempre la pratica. Ma essi erano avvertiti come vincolanti e la loro violazione
non annullava, anzi evidenziava l’importanza della stessa regola.
Molto
diverso dalla guerra è il terrorismo. Per sua natura, esso è sottratto ad ogni
legge morale giuridica Il terrorista può compiere qualunque eccesso per
raggiungere il suo scopo. I valori tradizionali a cui la guerra deve fare
riferimento e che sono legati al
rispetto del nemico per lui non sono vincolanti. L’importante è il successo
dell’azione.
E
la prima regola che il terrorismo non riconosce è la distinzione tra militari e
civili. Esso colpisce indifferentemente
gli uni e gli altri, anzi, più spesso i secondi, che sono maggiormente
vulnerabili.
Il
motivo è che, mentre la guerra mira a sconfiggere l’avversario sul piano
propriamente militare, distruggendo il suo apparato bellico, il terrorismo non
punta su questo bensì a terrorizzare il nemico.
Anche
il modo di operare è molto diverso da quello della guerra, almeno nella sua
forma più antica, in cui gli avversari si affrontavano guardandosi in faccia in
faccia. E anche nei suoi sviluppi successivi, il nemico era comunque un essere
umano in carne ed ossa, la cui uccisione veniva percepita in tutta la sua
violenza.
Il
terrorista, invece, colpisce solitamente senza avere presente il volto della
sua vittima. Non distingue uomini, donne e bambini. La bomba – il mezzo
classico dell’attentato terroristico – viene piazzata in un luogo affollato, e
il terrorista si allontana evitando di chiedersi che cosa ne sarà delle persone
innocenti che ha appena intravisto e che fra poco moriranno.
Dalla
guerra al terrorismo di Stato
Il
punto è che, a partire dal secolo scorso, è diventato sempre più arduo
distinguere nettamente guerra e terrorismo. Già le due grandi guerre mondiali,
soprattutto la seconda, hanno reso difficile parlare di uno scontro fra
eserciti che risparmia la popolazione civile. Dopo è diventato impossibile.
Durante
la prima i militari furono ancora il 90% dei morti; nella seconda il 50%. Nella
guerra del Vietnam solo il 10% (il 90% dei morti furono civili). Ma già nel
corso della seconda guerra mondiale la fine del conflitto fu raggiunta con il
massacro di 140.000 persone inermi – uomini, donne e bambini – nelle città di
Hiroshima e di altre 74.000 in quella di Nagasaki.
La
motivazione ufficiale portata dal governo degli Stati Uniti è stata la
necessità di spingere il Giappone alla resa, evitando altre vittime nella
guerra. Ma l’intento di terrorizzare il nemico colpendo indiscriminatamente i
civili è tipico del terrorismo…
Anche
la logica del confronto diretto tra esseri umani, costretti a percepire la
gravità del loro atto distruttivo dagli effetti che esso provoca sotto i loro
occhi, è venuta meno nelle guerre odierne.
Il
progredire della tecnologia, che ha permesso di colpire a distanze sempre
maggiori i propri bersagli, risparmia a chi uccide la vista dei corpi straziati
delle vittime. I piloti che hanno sganciato le due bombe atomiche sul Giappone,
i militari russi che lanciano i loro
micidiali missili sulle case degli innocenti abitanti delle città ucraine,
possono tornare a casa e pranzare tranquillamente con le loro famiglie
Questa
deriva della guerra verso il terrorismo ha purtroppo oggi una conferma evidente
nella guerra di Gaza. Hamas, il 7 ottobre, ha compiuto un massacro spaventoso
di persone innocenti. E i razzi lanciati dagli Hezbollah sui kibbutz israeliani
non hanno avuto come destinatari dei soldati nemici, ma povera gente di cui chi azionava questi ordigni non sapeva
neppure chi fosse. Questa non è guerra.
Ma
anche la risposta dello Stato ebraico ha avuto la connotazione del terrorismo,
più che quella della guerra. L’embargo sui rifornimenti alimentari, i bombardamenti a tappeto di ospedali,
moschee, scuole, abitazioni, hanno avuto lo scopo di sconfiggere Hamas, ma
nella consapevolezza che a essere colpita innanzi tutto era la popolazione civile.
E
lo stesso principio a cui si è ispirato Israele uccidendo il capo politico (non militare, anzi impegnato nei
colloqui di pace) del gruppo terroristico –
colpire il nemico anche non combattente,
ovunque si trovi, ottenendo il massimo effetto psicologico – ricorda più
un terrorismo di Stato che non un’azione di guerra. E su questa logica si
baserà anche la probabile risposta iraniana.
Nasce
allora spontanea la domanda se sia veramente fondata la frequente
contrapposizione tra le azioni belliche dei nostri Stati – a cominciare da
Israele – e quelle di gruppi come Hamas, in base al fatto che questi sono
terroristi.
E
se la pretesa che quella dei primi possa
essere una “guerra giusta”- come proprio nel caso di Israele spesso viene
ripetuto – non nasconda la triste verità che la guerra giusta non è più
possibile perché la guerra ormai somiglia troppo al terrorismo.
*Scrittore ed Editorialista. Pastorale Cultura Arcidiocesi di Palermo
www.tuttavia.eu
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