-di
ANTONELLA PALERMO
Qual
è stato il più grande merito dell’enciclica di Paolo VI nell’epoca in cui fu
scritta?
L’enciclica
fu scritta mentre a Roma si svolgeva il Concilio Vaticano II che, a detta del
grande teologo Karl Rahner, è stato il primo Concilio della Chiesa “sulla
Chiesa”. Mi pare che il principale merito del documento di Paolo VI fu quello
di mettere al centro l’autocoscienza che la Chiesa ha di sé stessa, cioè il
fatto di essere innanzitutto mistero, di appartenere al disegno salvifico di
Dio per l’umanità. Nello stesso tempo il documento ebbe il merito di
evidenziare la strutturale missione della Chiesa nel mondo e il desiderio di
dialogare con il mondo contemporaneo, segnato da una modernità rispetto alla
quale nel passato la Chiesa aveva fatto una certa fatica a dialogare. Questi
due aspetti anticipano già alcuni grandi temi di due grandi costituzioni del
Vaticano II come la Lumen gentium e la Gaudium et spes.
Direi
che fu recepita nella più ampia cornice della recezione dei temi del Concilio
Vaticano II . Certamente nell’enciclica si intravvedevano elementi di grande
novità, per esempio il fatto che la missione della Chiesa debba essere svolta
secondo il canone del dialogo, perché il modo in cui Dio si rivela all’uomo è
proprio quello dialogico. Fu una novità rispetto a certi modi del recente
passato, che potevano non essere sempre contrassegnati da questa simpatia,
potremmo dire, della Chiesa con il mondo.
A
me pare che l’esperienza dell’attuale Sinodo possa dare maggiore consapevolezza
di ciò che la Chiesa è, quando non si va dietro alle facili retoriche del
momento. Come ho detto, Paolo VI nella Ecclesiam suam metteva in evidenza che
la coscienza che la Chiesa ha di sé stessa è di essere mistero, di avere a che
fare con Cristo che invia il suo Spirito. In alcuni passaggi il documento
sottolinea come ci sia un intimo legame tra Cristo e la sua Chiesa senza il
quale non si comprende cosa la Chiesa è. Mi sembra che oggi si tratti di
riscoprire tutto questo e che questo legame fondi anche i legami tra i diversi
soggetti ecclesiali, legami non tanto di simpatia, di forze l’una opposta
all’altra, di visioni delle cose differenti, quanto legami di fraternità in Cristo,
a tutti i livelli. Se non fosse così, penso che sotto il cappello di
“sinodalità” si potrebbero mettere tante cose che non hanno a che fare con la
natura della Chiesa.
Penso
appunto al fatto che oggi tutti parlano di “sinodalità”, però a volte, dietro
alla sinodalità, si proiettano realtà che non hanno davvero a che fare con la
sinodalità della Chiesa. In un contesto come quello attuale della civiltà
occidentale, in cui siamo tutti suggestionati dai diritti individuali, molto
meno da quelli sociali, ci può essere il pericolo, ad esempio, che si faccia
passare per “sinodalità” una mentalità che non ha a che vedere con la
sinodalità della Chiesa.
Mi
verrebbe da dire che i difetti sono quelli di sempre ma, nello stesso tempo,
essi assumono caratteristiche legate al tempo che viviamo oggi. In un commento
a un testo del Vaticano II sulla missione, il teologo Yves Marie-Joseph Congar
disse che c’è sempre qualcosa di non evangelico da convertire in noi. Mi sembra
utile richiamare qui questa considerazione. Forse, alla radice dei difetti dei
membri della Chiesa c’è un processo di conversione che non viene portato a
compimento. Se dovessi dire come questo si manifesti oggi, mi verrebbe da dire,
guardando in particolare all’Occidente, che la mancata conversione si esprime
nel dare per scontata la fede in un tempo in cui la fede non è più scontata,
nel non prendere sufficientemente sul serio la necessità di un approfondimento
e di una elaborazione spirituale da parte dei credenti. Essa si manifesta nella
poca fiducia, a volte, sul fatto che lo Spirito di Cristo continua ad abitare
la Chiesa di oggi: il tempo attuale non è necessariamente un tempo di decadenza.
Ancora: essa si manifesta nell’assumere la mentalità del mondo comunicativo di
oggi anche dentro la Chiesa, un mondo comunicativo che non è tanto dialogico,
non è tanto dialettico, ma basato spesso sulla denigrazione gli uni degli
altri. A questo proposito, la lezione di Paolo VI può essere da riattualizzare
nell’oggi.
Mi
sembra che significhi non adattarsi a una certa mentalità contemporanea,
secondo cui le identità sono necessariamente opposte l’una all’altra. È
certamente vero che la sottolineatura delle identità può portare a situazioni
di conflitto e all’estraniamento degli uni verso gli altri, però, quando questo
accade, dobbiamo chiederci se il tema delle identità sia stato bene impostato e
non ci si trovi piuttosto di fronte alla parodia delle identità vere. La vera
identità è dialogica, per natura sua. Nello stesso tempo, perché ci sia un
dialogo, è necessario che ci sia una identità. Mi sembra che nella Chiesa
dobbiamo recuperare questa consapevolezza: abbiamo una identità che non ci
deriva da noi stessi, ma dal Vangelo di Cristo che siamo chiamati a testimoniare
nel mondo. Questo non ci oppone al mondo, anzi, ci fa sentire a servizio
dell’umanità e strutturalmente in relazione con tutte le donne e gli uomini con
cui viviamo.
Siamo
arrivati con un certo ritardo a dialogare con il tempo moderno, come dicevo. In
questo senso l’enciclica di Paolo VI fu davvero pioneristica, fece un gran bene
alla Chiesa del suo tempo perché la rimise nella carreggiata del dialogo con la
modernità dentro cui annunciare il Vangelo. Ora, mi sembra che questo ritardo
possa risolversi oggi in un sottile, inconsapevole senso di colpa che ci lascia
acritici rispetto ad alcune dimensioni della modernità, che possono restare
antievangeliche. Ci sono tanti aspetti molto belli della modernità, che hanno
il sapore e il gusto del Vangelo. Per esempio, la cultura dei diritti, il
rispetto delle persone, un senso della giustizia più alto, la pari dignità di
tutte le persone, il senso del soggetto, della libertà... Credo che questi
siano valori che la modernità ci ha riconsegnato, ma non sono così estranei
alla bellezza del Vangelo. Però ci possono essere anche distorsioni della
modernità che la Chiesa deve guardare sempre con discernimento evangelico.
Penso, ad esempio, che oggi si dà per scontato che la razionalità sia solo
quella tecnoscientifica, la quale riduce il mondo a un funzionalismo
soffocante.
Da
un lato bisogna interrogarsi sempre sul contenuto che si dà alla ricerca di
trascendenza e di spiritualità. Nel cristianesimo la trascendenza è essere
aperti a Cristo, che è Figlio di Dio ma insieme nostro fratello; quindi
l’incontro con Dio passa necessariamente attraverso l’incontro con il fratello.
L’incontro con Dio, dunque, e l’esperienza di Chiesa non possono essere due
cose antitetiche. Quando pensiamo di poter bypassare la Chiesa per un incontro
più immediato con Dio, la grande domanda che ci si dovrebbe fare è: quale è il
volto di Dio che ci sembra di dover incontrare? Dall’altra parte, e qui sta
tutta l’attualità del Vaticano II , è vero che la Chiesa deve percepirsi come
mistero, che è il luogo della presenza di Dio, strumento dell’incontro di
Cristo con le donne e con gli uomini. Qui c’è davvero da fare un esame di
coscienza continuo: quanto le nostre strutture e i nostri modi di realizzare la
comunità cristiana, le diocesi, le parrocchie portano a sperimentare l’incontro
con Cristo come centro di tutto? Quanto sono invece luoghi in cui si fanno
cose, ci si aggrega per un bisogno, ma non attorno a quel fulcro che è Cristo?
Deve far riflettere che tante persone oggi cerchino risposta al proprio
desiderio di spiritualità fuori dalla Chiesa: non sono spesso messi in
condizione di percepire che la Chiesa possiede una immensa ricchezza
spirituale.
Direi
di sì. Ci dice che con le aggressioni e con la violenza non abbiamo mai finito
di fare i conti. Ci dice che la ricerca della pace non può non essere anche la
ricerca della giustizia. Così come ci dice che la ricerca della pace deve
trovare anche dei sentieri di riconciliazione e di misericordia, visto che le
guerre lasciano l’eredità di ferite atroci. Mi pare che questo messaggio non
investa solo il macro-mondo, ma anche i nostri piccoli mondi. Alla fine, è un
invito: la guerra parte sempre dal cuore degli uomini, ci sono rabbie,
ostilità, odi che si possono coltivare anche non appartenendo a paesi di
guerra. Sono colpito da come le nostre società, pur formalmente in pace, siano
albergate da tante forme di sottile o non sottile violenza. La ricerca della
pace non può essere uno slogan ma un impegno di tutti coloro che la desiderano
davvero.
È
un nodo particolarmente attuale, perché la divisione delle Chiese non aiuta a
cogliere che l’umanità è chiamata a camminare nel segno dell’unità e della
fraternità. Se le Chiese sono divise già tra di loro, sbiadiscono il segno di
comunione che sono chiamate ad essere. Il cammino ecumenico è oggi più che mai
da sentire come vitale e impellente, se vogliamo che la Chiesa porti il suo
contributo evangelico necessario all’unità dell’umanità e alla pace.
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