“I MAESTRI SONO BRAVI,
I PROF FACCIANO DI PIÙ”
La Fondazione Agnelli dà i voti alla
didattica in aula pre-Covid delle scuole elementari e medie. Coinvolti oltre
1.600 docenti. “Il 60% può insegnare meglio, urgente investire in formazione”
Ma già di per sé questa è un’analisi
destinata a fare discutere, anche in virtù del fatto che nel Recovery Fund non
c’è un euro per la formazione. «Non sono pochi gli insegnanti italiani che nel
lavoro quotidiano in aula dimostrano ottime capacità didattiche — ragiona
Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli — ma ancora non basta perché
a dispetto di una retorica spesso di segno contrario, gli insegnanti non sono
tutti uguali. Se vogliamo davvero un salto di qualità negli apprendimenti degli
studenti è necessario uno sforzo energico per migliorare le capacità didattiche
del maggior numero di docenti, investire in innovazione didattica e formazione
degli insegnanti deve essere un obiettivo del piano italiano in vista di Next
generation».
La ricerca ha coinvolto 1.626 insegnanti
di italiano e matematica della primaria e delle medie di 207 istituti
comprensivi e 188 osservatori che sono entrati nelle loro classi seguendo 8.677
lezioni. I risultati riguardano per ora solo le strategie didattiche: il modo
in cui si spiega, si propongono attività, si interroga, si coinvolgono gli
alunni e li si aiuta a migliorare. Ad ogni voce è stato dato un punteggio su
una scala da 1 a 7. Emerge che un insegnante su otto non propone attività
strutturate in classe o lo fa a livello troppo elementare, mentre il 30% lo fa in
modo eccellente. Il 14% non illustra metodi e strategie da seguire per svolgere
un compito o lo fa in modo poco chiaro, ma al lato opposto c’è un 30% più che
bravo.
I maestri e le maestre vanno meglio dei
prof: il 34% dà agli allievi ottime indicazioni sulle strategie
nell’apprendimento, contro il 25% dei colleghi delle medie. E quelli di
matematica superano i colleghi di italiano. Il motivo? «Percorsi differenti
nella formazione che porta alla cattedra» ipotizza la Fondazione Agnelli. «Le
insegnanti di scuola primaria hanno un percorso magistrale di 5 anni in cui
hanno corsi, laboratori didattici e tirocinio volti a costruire competenze di
progettazione didattica, di conduzione delle attività interattive coi ragazzi e
di valutazione dei processi e non delle prestazioni» ricorda Elisabetta Nigris,
docente di Progettazione didattica alla Bicocca e coordinatrice dei corsi in
Scienze della formazione primaria.
Quelli delle medie dal 2017, riforma del
ministro Bussetti, non hanno più un percorso di formazione dopo la laurea nella
specifica disciplina, se non 24 crediti, ovvero corsi, non laboratori o
tirocini. «Inoltre nella secondaria di primo e secondo grado — conclude la
pedagogista — è più forte il modello gentiliano di scuola che suddivide in modo
netto le discipline e ha una idea più appiattita sui contenuti».
PERCHÉ LE MAESTRE SONO PIÙ BRAVE DEI PROF
La ricerca sul campo
di Fondazione Agnelli e Invalsi: alle medie un insegnante su sei è inadeguato,
alle elementari uno su dieci. Gavosto: «Usare il Recovery Fund per investire
sulla formazione dei prof»
Da questa ricerca sul
campo è uscito un quadro dettagliato di quello che succede a scuola. In ogni
istituto i 188 osservatori sono stati in due classi quinte elementari e due
prime medie per partecipare a due ore di lezione: il lavoro di ogni insegnante
è stato osservato e valutato da tre coppie di esperti. Complessivamente la
ricerca ha riguardato 1628 tra maestre e prof di italiano e matematica, quasi 9
mila ore di lezione. Gli aspetti valutati hanno riguardato le strategie didattiche, la gestione del tempo, il
clima in classe e infine il sostegno agli alunni, ma i risultati relativi a
questi ultimi tre fattori verranno resi noti solo in un secondo momento.
Dalla cattedra al banco
Ecco i dati più
significativi per quanto riguarda la didattica in senso stretto: circa un insegnante su quattro «ha ottime capacità di spiegare in modo
strutturato», ma il 17 per cento del totale svolge «in modo inadeguato la
tradizionale lezione trasmissiva», un docente su 8 non propone attività strutturate
individuali o dii gruppo, ma uno su tre lo fa in modo eccellente; uno su 7 non
sa spiegare come si svolge un compito. Un dato sorprendente riguarda
la differenza tra gli insegnanti di italiano e quelli di matematica che
risultano mediamente più capaci non tanto dalla cattedra quanto nelle
esercitazioni in classe e soprattutto nella capacità di esplicitare metodi e
procedure in modo da rendere gli alunni autonomi o, come diceva benissimo Maria
Montessori, in modo da «aiutarli a fare da soli».
Più che dare il voto a maestre e prof, la ricerca della Fondazione Agnelli punta il dito sull’«anomalia italiana» di
un sistema di formazione degli insegnanti a dir poco strabico e cioè molto ben
strutturato per la scuola primaria, praticamente assente per le medie e le
superiori. Mentre infatti per insegnare alle elementari ormai da dieci anni è
richiesta una laurea specifica, cinque anni di corso in Scienze della
formazione primaria in cui le future maestre e i futuri maestri imparano
soprattutto i metodi migliori per trasmettere il sapere ai più piccoli, per
diventare professore di scuola secondaria non è previsto nemmeno un corso di
specializzazione: basta la laurea in lettere, lingue, matematica o biologia e una
manciata di crediti universitari in discipline psicopedagogiche e didattiche
presi anche online al prezzo di saldo di 500 euro. Come se essere un buon
matematico o un ottimo italianista potesse bastare da solo ad affrontare
l’enorme sfida educativa che gli insegnanti hanno di fronte. Spiega Andrea
Gavosto: «I risultati più confortanti che vengono dagli insegnanti di scuola
primaria possono avere diverse spiegazioni. Ma è ragionevole pensare che
dipendano anche da un diverso percorso di formazione, che dà maggiore rilievo
alle conoscenze e competenze didattiche. Come sappiamo, invece, in Italia ai
professori delle scuole medie e anche a quelli delle superiori è stata sempre e
soltanto richiesta una buona conoscenza della disciplina, mentre poca
attenzione è stata data alla formazione didattica, oggi ridotta veramente ai
minimi termini. Un errore ripetuto, che anche nei mesi di lezione a distanza
durante la pandemia ha avuto effetti negativi».
L’occasione del Recovery Fund
Finché non verrà fatto
un investimento specifico sulla formazione dei docenti, ogni tentativo di
colmare il ritardo degli studenti italiani rispetto ai loro coetanei risulterà
inutile. «Se vogliamo davvero un salto di qualità negli apprendimenti degli
studenti del nostro Paese - conclude Gavosto - è necessario uno sforzo energico
per migliorare le capacità didattiche del maggior numero possibile di docenti,
portando a livelli elevati sia quanti oggi non vanno oltre una decorosa
sufficienza sia i futuri neoassunti. Investire in innovazione didattica e
formazione degli insegnanti deve essere un obiettivo del piano italiano in
vista di Next Generation EU». Peccato che, nelle bozze del Recovery Fund messe
a punto dal governo, al capitolo istruzione e ricerca - quasi 30 miliardi sui
208 totali messi a disposizione dalla Commissione europea - non compaia alcun riferimento specifico
alla necessità di un sistema di formazione iniziale degli insegnanti
all’altezza della sfida titanica che hanno di fronte e si punti semmai a
introdurre una qualche forma di carriera che giustifichi un diverso trattamento
economico dei docenti premiando quelli più «dinamici».
www.repubblica.it
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