Fra i libri e l'uomo la storia non muore
"Non sono state
le guerre o i complotti ma le pagine scritte, nelle loro molteplici forme, ad
aver dato vita alla nostra civiltà". La riflessione di Tolentino Mendonça
sul nuovo "Vita e Pensiero"
Dal Covid con in
suoi strascichi sociali, politici e antropologici, alle nuove rivalità
nazionali per la conquista dello spazio; dalle nuove frontiere del rinnovamento
economico al ruolo della cultura, della comunicazione e dei libri per costruire
il futuro. Come sempre ricco di dibattiti e approfondimenti il nuovo numero
della rivista "Vita e Pensiero", il bimestrale della Cattolica in
uscita giovedì. Qui anticipiamo l’intervento nella sezione "Polemiche
culturali" del cardinale José Tolentino Mendonça sul ruolo passato e
futuro dei libri nella costruzione dell’Occidente. Fra le firme di spicco
Amartya Sen con un articolo su "Libri, libertà, dissenso e tirannia";
Gianfranco Ravasi e Mariapia Veladiano sull’editoria religiosa; l’economista
Gaël Giraud sulle disuguaglianze nel mondo; Emidio Diodato sulle controversie e
timori politico-strategici nella corsa allo spazio; Fabrice Hadjadj su Stato e
trascendenza; Pier Angelo Sequeri su virus e ruolo della comunità.
Siamo ormai alle
soglie, si dice da più parti, della fine dell’era del libro. E non perché i
libri, nell’arco storico della nostra vita, abbiano cessato di esistere da un
momento all’altro, o perché siano sul punto di farlo: noi speriamo e
ardentemente desideriamo che continuino a essere scritti e letti, a essere
pubblicati, diffusi e conservati ancora per lungo tempo. Quello che però sta
avvenendo è che, tanto come manufatti quanto come trasmettitori di una
determinata concettualizzazione morale della vita, i libri hanno smesso di
rappresentare, come sosteneva George Steiner già negli anni Sessanta del secolo
scorso, il principale punto focale di energia della nostra civiltà. In questa
funzione, il libro è stato sostituito dallo schermo.
Ognuno di noi, in
effetti, oggi trascorre più tempo davanti a un display che a un libro. E sono di
tanti tipi gli schermi che popolano massicciamente il nostro quotidiano e lo
plasmano venendo così a occupare il luogo che, per secoli, era stato riservato
alla pagina e al testo, manoscritto o a stampa. Ciò a cui assistiamo nel
consumarsi di questa svolta è che il testo alfabetico stesso sta diventando
niente più che una modalità fra le tante di elaborazione dei miliardi di
messaggi che vengono visualizzati sugli schermi. Il libro, e ciò che esso
rappresenta, si trova relegato in un ruolo sempre più minoritario.
Nell’autorappresentazione che il mondo contemporaneo fa di sé, il libro non è
più, per esempio, “la grande me-tafora”, come lo era nel XII secolo quando il
teologo e mistico Ugo di San Vittore sosteneva che omnis mundi creatura
quasi liber, per dire che ogni creatura di questo mondo è come un
libro e può essere spiegata per analogia a partire da esso; o come lo era
ancora alla fine del XIX secolo, quando Mallarmé immaginava il libro come una
struttura onnicomprensiva, una sorta di coagulo totale delle scritture
decifrabili e indecifrabili dell’uomo e dell’universo.
È pur vero che, come
qualcuno dice, dovremmo parlare di trasformazione, più che di crepuscolo, del
libro, dal momento che quella in corso è semplicemente una modificazione del
supporto del libro e non del libro propriamente detto. L’attuale forma cartacea
è una tappa di una storia più lunga, iniziata con i testi incisi su pietra, su
tavolette di argilla, e continuata poi con i rotoli. Una storia che continuerà
a fare il suo cammino. In questo senso Umberto Eco affermava fiducioso che il
libro rientra in quella tecnologia eterna a cui appartengono la ruota, il
coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola o la bicicletta. Per quanto i
designer investano nella trasformazione di questo o quel dettaglio, sarà sempre
possibile riconoscere che quello è un coltello o quello è un cucchiaio. Una
bicicletta avrà sempre due ruote e un telaio. Analogamente, con tutte le
variazioni che potranno essere introdotte, quello che terremo tra le mani sarà
sempre un libro.
Non possiamo
tuttavia dimenticare che la civiltà che inventò il libro ha inventato anche le
condizioni necessarie per la sua lettura, e che queste ci hanno plasmato
antropologicamente, venendo a costituire un patrimonio culturale che dobbiamo
preservare. Perché chi inventò il libro inventò il silenzio della lettura;
inventò quella forma intima di temporalità che rende l’incontro col libro
indissociabile dall’incontro con noi stessi; inventò l’attenzione, l’avventura
della conoscenza e la curiosità; inventò un habitat sociale in cui l’attività
intellettuale era ammessa e, non dimentichiamolo, questo habitat ha liberato
l’uomo, rivelandogli la propria dignità; inventò il diritto universale
all’alfabetizzazione e moltiplicò le comunità di lettori; inventò l’individuo e
la vita privata; inventò la fiducia nella consistenza del linguaggio e le
biblioteche; inventò i salotti letterari, i caffè e le piazze come luoghi di
dibattito; inventò i sistemi critici ed ermeneutici che garantiscono non solo
la leggibilità dei libri, ma la comprensione dei mondi possibili; inventò le
scuole monastiche e l’idea moderna di università; inventò l’umanesimo e la
libertà d’espressione, che è sempre inseparabile dalla libertà di essere. Il
libro accompagnò la nascita e l’espansione delle lingue moderne dell’Occidente,
e assistette allo sviluppo delle sue possibilità espressive, cognitive e di
immaginazione. Chi inventò il libro inventò una certa forma di produrre storia
e inventò anche la figura del lettore quale ancora noi siamo. Per questo è
incalcolabile il patrimonio umano, culturale e spirituale rappresentato dal
libro. Quello che il libro mette in gioco è molto più del libro.
Non possiamo
disfarcene come fosse un arcaico residuo destinato a essere disattivato. Ha scritto
Mario Vargas Llosa: «Quando penso al piacere immenso che mi hanno offerto le
biblioteche e come è stato bello lavorarvi, stimolato da quelle migliaia di
libri nei quali sono depositate la conoscenza e la fantasia letteraria di tanti
secoli, penso con tristezza che forse la mia sarà l’ultima generazione a fare
un’esperienza simile se, come non è impossibile pensare fin da ora, le nuove
generazioni di scrittori lavoreranno circondate da display invece che da
scaffali e la materia del libro non sarà la carta, ma i cristalli liquidi dei
monitor». In questo frangente di passaggio di civiltà, dobbiamo interrogarci su
quello che, come società, possiamo fare per valorizzare questo patrimonio e
assicurare che il libro continui a ispirarci nella costruzione della nostra
umanità. I libri non ci rendono solo lettori, ci rendono anche cittadini.
La storia
dell’Europa è inseparabile dai libri che hanno costituito il suo stile di
creare cultura, scienza, spiritualità e pensiero. Non possiamo considerare
l’identità europea e i suoi valori fondanti senza una connessione al mondo dei
libri che l’hanno aiutata a superare il monolitismo ideologico, le ristrettezze
di orizzonti o l’inconsistenza e i limiti di visione. La dimensione più
straordinaria del progetto europeo non nacque come una conquista bellica, come
una concezione economica o meramente politica. Sono i libri ad aver fatto
l’Europa. Da Omero a Virgilio, a Catone, a Petrarca. Dai trattati di Aristotele
alle lettere di Paolo. Dalle commedie di Terenzio alle Confessioni di
Agostino. Dalle fantasie di Lucrezio alla Summa di Tommaso.
Dai trovatori medievali a Dante o a Camões. Dai pamphlet di Voltaire a Marx. Da
Hegel a Freud. Da Dostoevskij a Joyce. Da Simone Weil a María Zambrano. In
momenti particolarmente duri della storia europea apparvero alcune delle più
belle dichiarazioni d’amore per i libri. Ricordo Thomas Mann, partendo in
esilio per gli Stati Uniti volle leggere e commentare, durante la lunga
traversata oceanica, il Don Chisciotte di Cervantes. Etty
Hillesum nello zaino essenziale con cui entrò nel campo di concentramento, non
scelse di mettere oggetti ma due libri: la Bibbia e il volume
di poesie di Rainer Maria Rilke.
Ricordo la storia
dello scrittore Józef Czapski, internato tra il 1940 e il 1941 in un gulag: al
termine di ogni giornata di lavori forzati, tra i rigori delle temperature
siberiane, un gruppetto di prigionieri sedeva in circolo per ascoltare il loro
compagno Józef Czapski tenere una serie di conferenze su Proust. Egli aveva
avuto per l’ultima volta l’opera di Proust tra le mani nel 1939 e temeva di non
tornare più a vedere un libro. Per questo le sue lezioni si basavano su un
lavoro di recupero della memoria di quel colossale universo romanzesco. Scrive
Czapski: «In quei momenti pensavo con emozione a Proust, che, nella sua camera
surriscaldata e tappezzata di sughero, si sarebbe meravigliato e forse commosso
se qualcuno gli avesse detto che, a vent’anni dalla sua morte, un manipolo di
prigionieri polacchi, dopo un’intera giornata trascorsa sulla neve, in un
freddo che arrivava spesso a 40 gradi sotto lo zero, avrebbe ascoltato col
massimo interesse la storia della duchessa di Guermantes». Il teologo Romano
Guardini racconta che, «in una delle grandi battaglie dell’ultima guerra, un
reparto si trovava in una situazione disperata. Il cappellano militare era
presente e, sentendo che non aveva da dire nulla di accettabile in quell’ora,
tolse di tasca la propria copia del Nuovo Testamento, ne
strappò le pagine e ne diede una a ogni uomo». Proteggiamo il patrimonio
culturale che i libri rappresentano. Essi sono mappe per decifrare da dove
veniamo. Ma sono anche telescopi e sonde puntati sul futuro.
(Traduzione di Pier Maria Mazzola)
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