“Sospetto che il bambino colga il suo primo
fiore con una percezione della sua bellezza e del suo significato che il futuro
botanico non conserverà mai più”. (Henry D. Thoreau)
Così annotava nel suo diario, il 5 febbraio 1852, lo scrittore americano Henry
David Thoreau. Devo confessare di essere sempre conquistato dal modo di giocare
di un bambino: prima che sia pervertito dalla playstation e dai giochi
elettronici, egli si accosta a un oggetto con una sorprendente girandola di
gesti, di movimenti, di sguardi. Egli compie veramente l'atto primordiale
dell'affacciarsi sul mondo con meraviglia per scoprirne le meraviglie («Il
mondo perirà per mancanza di meraviglia, non di meraviglie» osservava
acutamente lo scrittore inglese Chesterton). È ciò che noi, frettolosi
consumatori di tecnologia, non proviamo più. Siamo forse capaci di «vedere un
mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvaggio, l'infinito in
un palmo di mano e l'eternità in un'ora?», come cantava il poeta inglese
William Blake?
Il botanico non ha più nulla dello stupore del bambino davanti al fiore, alla
sua corolla, ai suoi colori. Egli classifica, cataloga, noto-mizza, disseziona,
verifica, esamina, ma non riesce più a godere il fascino della bellezza. Il
poeta irlandese contemporaneo - sono i veri poeti i grandi maestri della
contemplazione - Seamus Heaney, Nobel 1995, ha intitolato una sua raccolta
Seeing Things. Sì, abbiamo bisogno di ritornare a «vedere le cose», anzi - come
sottintende l'espressione inglese - ad «avere la visione» profonda della
realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita. E per far
questo bisogna sapersi fermare, sostare, stare in silenzio, contemplare.
(G. Ravasi, Breviario laico)
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