Il problema è creare quella nuova che servirebbe ai nostri giovani. Intanto perderemo tempo
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di Giuseppe Bertagna
Personalmente
aggiungerei però anche qualcosa di più radicale. Si sa da tempo che la
degenerazione degli -ismi, e non solo dei tre menzionati, che ci assediano
tuttora da ogni parte con la loro inerzia ideologica, dovrebbe essere ormai,
nel merito, già morta e tumulata. Magari perfino con esequie in pompa magna
(dei morti, infatti, di solito, si parla sempre bene, e qualche ragione storica
per farlo la si trova).
È
da riconoscere, tuttavia, che anche i concetti particolari da cui provengono i
tre -ismi prima richiamati e dei quali costituiscono un’assolutizzazione
indebita non stanno proprio bene, non godono nemmeno loro di buona salute.
Soprattutto oggi, dopo il digitale, le neuroscienze, l’AI e gli onnipresenti
social network, non si sa più, prima di tutto, che siano, analiticamente,
“nozione” (perfino “conoscenza”), “disciplina” ed “enciclopedia”, e poi, e non
da meno, che senso pedagogico possano rivestire, se si interpreta l’aggettivo
“pedagogico” come l’etimologico “prendere per mano uno studente per
accompagnarlo verso una maggiore compiutezza formativa di sé, nel mondo e nella
storia che ci sono e che sono quelli che sono”.
Infatti,
il significato con cui questi termini sono stati intesi e presentati negli
ultimi due secoli e mezzo non è più spendibile. Una verità non nuova se ad
accorgersi della irredimibile pericolosità pedagogica non solo dei tre -ismi,
ma perfino delle tre concettualizzazioni da cui provengono fu Rousseau. Proprio
di fronte all’uso che fecero di questi arnesi i suoi contemporanei
“illuministi-enciclopedisti”, intuì subito a quali derive antipedagogiche avrebbero
portato. E anche per questo scrisse il suo ponderoso “romanzone”: Emilio o
dell’educazione, da allora uno dei testi di pedagogia tra i più fraintesi,
strumentalizzati, poco letti (semmai solo in bigini) e soprattutto mai attuati.
Il
secondo punto messo a fuoco nell’intervento di Rondoni è antropologico.
L’ambito senza la cui definizione non si può costruire nessuna pedagogia. Anche
l’antropologia pedagogica a cui Rondoni si riferisce è antica. Non a caso
assunta anche da Rousseau fin dalla prima riga del suo Emilio. E comunque ben
più vecchia degli -ismi prima menzionati e delle stesse concettualizzazioni da
cui essi provengono. Infatti, è l’antropologia cristiana, avviata dal Vangelo,
e basata su tre principi.
Primo,
gli uomini, tutti figli dello stesso Padre, sono “fratelli”: fortunati o
sfortunati, ricchi o poveri, colti o ignoranti, normali o disabili, re o
schiavi hanno tutti la stessa, intangibile dignità filiale.
Secondo:
se gli uomini hanno tutti uguale dignità, ognuno è però diverso da tutti gli
altri che sono nati, ci sono e ci saranno. Ciascuno è unicamente sé stesso, e a
modo suo. L’uniformità seriale, nella vita personale e sociale, per questa
antropologia, è l’inferno. Il paradiso non è tanto la diversità, ma riuscire a
manutenere relazioni interpersonali e sociali che riconoscano, rispettino,
sviluppino e valorizzino il positivo contenuto in ogni diversità. Escludere
dalla relazione anche un solo uomo perché diverso da noi significa confessare
il fallimento, la pochezza e l’incompetenza non di chi è escluso, ma di chi lo
esclude.
Terzo:
il secondo principio regge e non è contraddittorio perché, diversamente da
altre antropologie, proprio nella loro irriducibile diversità, non esiste
nessun uomo che non abbia almeno un talento (una capacità, una potenzialità,
una possibilità) di essere migliore, se lo vuole. Come spiega Mt 25,14-30,
infatti, nessuno ha tutti i talenti. Ma anche nessuno non ne ha almeno uno.
Nessuno cioè vale zero. Merito di ciascuno è allora scoprire e trafficare i
propri talenti, usarli bene, essere aiutato a non sotterrarli, consapevoli che,
minori o maggiori che siano per ciascuno, non sono mai né minimi né massimi, né
tra loro alternativi (esclusivi), ma sempre tra loro compositivi (inclusivi) e
moltiplicativi. Per questo chiedono la reciproca ottimizzazione, non la pretesa
dell’eventuale massimizzazione di qualcuno tra essi. Se si resta in
quest’ottica, avremo sempre strategie win win, vantaggiose per tutti, nessuno
escluso, mai lose-lose. Questo è il vero liberalismo.
Il
terzo punto messo a fuoco da Rondoni è costituito dalle conseguenze dei primi
due. Nell’apprendimento, se vuol essere pedagogico, è indispensabile la
personalizzazione. Non solo nel senso che niente potrà mai essere nozione,
disciplina ed enciclopedia se non feconda e non compie maggiormente la vita di
ciascuno (la verità non è mai soltanto un concetto, ma è sempre la qualità di
un vivere in un certo modo che si fa testimonianza), ma anche che docenti e
scuola come istituzione fanno un altro mestiere se non si mettono al servizio
della personalizzazione degli studenti, per renderli sempre più e meglio le
differenti persone che sono. Soltanto a partire dai loro talenti, e dalla
quantità e qualità delle relazioni che intrattengono con altri talenti, si possono
poi riconoscere i meriti sia dello studente sia del docente sia
dell’istituzione scuola nel valorizzarne la funzione formativa.
Rondoni
non è un pedagogista della scuola. Ma siccome è convinto esistenzialmente dei
tre punti prima messi a fuoco conclude il suo intervento con una proposta
addirittura ordinamentale: abbassare (finalmente) da 13 a 12 anni la durata
dell’istruzione pre-terziaria (come avviene in tutto il mondo, da sempre);
distribuire nei 4 anni di secondaria l’approfondimento delle competenze di base
e della valorizzazione dei talenti con il supporto di “mastri” e “maestri” che
siano degni di questo nome e che perciò siano in grado di aiutare a connettere
le esperienze nelle quali lo studente traffica al meglio i suoi propri talenti
con la formalizzazione culturale che ne moltiplica il rendimento formativo.
Non
voglio discutere queste proposte. Mi limito a dire che anch’io ne ho coltivato
di analoghe nella mia carriera di insegnante di filosofia e storia, di preside,
di dirigente superiore dei servizi ispettivi per filosofia e storia, poi di
docente universitario, e dal 1985 di membro di tante commissioni ministeriali per
la “riforma” delle scuole. Posso dire di avere in qualche modo elaborato i
punti messi a tema anche da Rondoni in un libro di inizio carriera (Cultura e
pedagogia per la scuola di tutti) e in uno, ultimo, di fine carriera (il
recentissimo Per una scuola dell’inclusione. La pedagogia generale come
pedagogia speciale, Studium, Roma).
Purtroppo,
per quanto mi riguarda, forse perché non ho trafficato a sufficienza, e bene, i
miei pochi talenti, la scuola resta il pachiderma
sindacal-burocratico-corporativo autoreferenziale che ha spinto Rondoni al suo
bell’intervento. Speriamo che la sensibilità della poesia riesca meglio della
(mia) non talentuosa pedagogia a convincere colleghi, giornalisti, mass
mediologi, influencer, partiti politici, amministrativi, sindacati dei docenti,
famiglie e giudici che la scuola che abbiamo non è proprio quella che sarebbe
bene ci fosse. E non nei dettagli, ma nella sostanza.
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