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di Giuseppe Savagnone*
L’arresto
di Matteo Messina Denaro costituisce sicuramente un successo importante nella
lunga lotta dello Stato italiano contro “Cosa nostra”. Comprensibile, perciò
l’esultanza dei rappresentanti delle istituzioni – Giorgia Meloni ha voluto
volare a Palermo, per congratularsi personalmente con la Procura del capoluogo
e i carabinieri –, ma anche della gente in strada.
Nel
tripudio generale che ha salutato l’evento, c’è però il rischio di perdere di
vista qualche aspetto che forse merita di essere rilevato. Perciò, senza
sminuire i meriti di chi ha condotto le indagini e le ha portate a compimento,
vale la pena di fermarsi a porsi qualche interrogativo, anche a costo di essere
qualificati, per usare una espressione della stampa governativa, dei
“rosiconi”, mai soddisfatti di quello che di buono si realizza nel paese.
Un
primo interrogativo – il più ovvio – nasce dal fatto che ci sono voluti
trentanni per arrivare a questo arresto. Dando per scontato che la magistratura
e le forze dell’ordine ce l’abbiano messa tutta, in questo arco di tempo, per
individuare e neutralizzare il più famoso e pericoloso boss mafioso rimasto a
piede libero, è quanto meno inquietante che solo ora i loro sforzi siano stati
coronati da successo. Trentanni sono tanti. Di quali protezioni, di quale rete
di omertà, di quali connivenze ha goduto Messina Denaro per potere sfuggire
così a lungo alla cattura? Qui non si tratta di qualche occasionale prestanome,
come quelli che adesso è facile inchiodare. Qui c’è un ambiente in cui il boss
ha potuto nuotare come un pesce nell’acqua.
Ciò
è tanto più evidente – e questo fa nascere un secondo interrogativo – quanto
più appare chiaro che, in tutti questi anni, egli non si è mai allontanato dal
territorio dove era cresciuto e dove aveva svolto la sua carriera criminale.
Per scovare i criminali nazisti sfuggiti a Norimberga è stato necessario
andarli a cercare in Sud America. Per trovare Messina Denaro bastava indagare
nella provincia di Trapani, a Castelvetrano, del cui mandamento era sempre
stato il capo indiscusso. Certamente lo si sarà fatto, ma allora bisogna
chiedersi come il boss è riuscito a rendersi invisibile. Se non altro per
smascherare la fitta trama di collusioni che una così incredibile latitanza
suppone.
«La
lettera rubata»
A
meno che non abbia funzionato, per tutto questo tempo, il meccanismo illustrato
da Edgar Allan Poe nel suo famoso racconto «La lettera rubata», dove si narra
di una missiva disperatamente cercata con accurate perquisizioni, e che alla
fine si scopre essere stata “nascosta” dal suo detentore lasciandola in bella
evidenza, sulla scrivania, resa invisibile proprio dalla sua totale visibilità.
Così
sembra essere andata, almeno negli ultimi mesi, con Matteo Messina Denaro. Il
latitante più ricercato della storia italiana recente non ha fatto nulla – e
questo suscita un terzo interrogativo – per nascondersi. Ha condotto una vita
normale, intrattenendo rapporti cordiali con i vicini, facendo shopping,
frequentando il bar, circondandosi di donne. E quando si è ammalato, si è fatto
ricoverare e curare in una notissima clinica privata, dove si è perfino
concesso un selfie con un medico della struttura.
Una
sfida così plateale alle forze dell’ordine sguinzagliate da trent’anni sulle
sue tracce si può spiegare solo in due modi. O, come sostengono alcuni, ormai
il boss, colpito da un male incurabile e con prognosi infausta, intendeva farsi
prendere, oppure aveva delle protezioni che gli garantivano, malgrado questa
ostentata visibilità, di rimanere fuori della portata dei riflettori degli
inquirenti.
Non
sono in grado di sciogliere il dilemma. Osservo soltanto che la prima ipotesi
funziona solo se questo stile di vita di Messina Denaro si è inaugurato solo a
partire dalla scoperta della sua malattia, circostanza, questa, che non
risulta. In caso contrario vale la seconda. Che sarebbe in linea con la
lunghezza della latitanza e con la rinunzia alla fuga in terre lontane.
Una
festa di trentanni fa finita male
Sono
tutte osservazioni che dovrebbero indurre, al di là delle dichiarazioni
trionfalistiche, a farsi delle domande. Anche per evitare che in questa euforia
generale si ripeta ciò che accadde trent’anni fa, nel gennaio 1993, dopo
l’arresto di Riina. Anche allora si disse che la mafia era stata sconfitta
definitivamente. Anche allora ci furono grandi festeggiamenti. Ma – come è
emerso in una polemica riaccesa proprio nei giorni scorsi – , in questo clima
di euforia qualcuno bloccò la perquisizione dell’abitazione del boss
corleonese, che avrebbe sicuramente consentito di accedere a documenti di
fondamentale importanza.
Pare
che a decidere in questo senso sia stato lo stesso ROS (Raggruppamento
Operativo Speciale) dei carabinieri che aveva condotto l’operazione
dell’arresto, e che l’obiettivo fosse di non pregiudicare le indagini su altri
complici. Peccato, però, che, incomprensibilmente, la perquisizione non sia mai
stata effettuata. Anzi, non fu neppure attivata la sorveglianza del residence
dove Riina abitava, consentendo a chiunque lo volesse di entrarvi indisturbato
e trafugare il materiale compromettente.
Difficile
dire, a distanza di tanti anni, se si sia trattato di errori o di forme di
complicità. Ma è un monito per tutti coloro che anche oggi celebrano la
vittoria dello Stato sulla mafia.
La
mafia non è solo “Cosa nostra”
Tanto
più che quest’ultima non si può ridurre alle sue forme platealmente criminali –
“Cosa nostra” – , ma ha radici molto profonde nel tessuto culturale della
Sicilia. Ora più che mai è importante rendersi conto che la mafia non coincide
con la sua espressione “militare” – quella della lupara e, in tempi più
recenti, degli attentati al tritolo – , ma è innanzi tutto un modo di pensare e
di sentire, uno stile di vita, un costume, la cui manifestazione non consiste
innanzi tutto nell’uso della violenza fisica, ma nel disprezzo del bene comune
e nella strumentalizzazione delle istituzioni che hanno il compito di perseguirlo.
Perciò la mafia – nel senso che si è appena detto – continua a tenere in ostaggio la Sicilia anche nel tempo del declino della criminalità organizzata di “Cosa nostra”. In realtà il suo potere è tale che non ha neppure bisogno di violare le leggi, perché è in grado di condizionare chi le fa.
In
un bel documento della CEI, pubblicato 1991 e intitolato Educare alla legalità,
si identificava quest’ultima non solo con l’osservanza delle regole, ma con la
conformità di queste ultime alle reali esigenze del bene comune. Riferendosi
all’Italia intera, i vescovi denunziavano il pericolo di un «neo-feudalesimo,
in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il
contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un
sempre maggiore spazio di privilegio» (n.7).
Questo
pericolo in Sicilia è reso particolarmente drammatico dal fatto che il regime
dell’Autonomia regionale a statuto speciale favorisce quel neo-feudalesimo e
consente operazioni spregiudicate ad
esso funzionali. Con la copertura di una classe politica che resiste ad ogni
tentativo di rinnovamento e che, come alcune sentenze della magistratura hanno
confermato – si pensi al caso dell’ex governatore Totò Cuffaro, o a quello
dell’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri – , non è estranea neppure a una diretta
compromissione con la mafia criminale.
Il
risultato è un crescente degrado dell’Isola, che impoverisce progressivamente
la sua economia e costringe i giovani più promettenti ad emigrare in altre
regioni d’Italia o a addirittura in altre nazioni per trovare un lavoro
adeguato.
Se
si guardano le cose da questo punto di vista più comprensivo, l’arresto di
Messina Denaro non costituisce certo il punto d’arrivo della lunga storia che
ha visto intrecciarsi, in una complessa alternanza di conflittualità e di
complicità, le istituzioni pubbliche e il fenomeno mafioso.
In
questa prospettiva, l’accento va sicuramente posto sulla necessità di
un’educazione alla cittadinanza che è il solo efficace antidoto contro tutte le
forme della mafia, anche di quella che cammina in giacca e cravatta. Un popolo
ha i governanti che si merita. Se i siciliani liberi e onesti vogliono uscire
da questa difficile situazione, devono impegnarsi a diffondere, soprattutto
nelle nuove generazioni, una visione della convivenza che, invece di ridurla
alla lotta per la difesa dei privati interessi, promuova la ricerca del bene
comune. Solo se cambieranno i rappresentati c’è la speranza d un radicale
rinnovamento dei rappresentanti. Ma forse questo è il compito più urgente che
ci attende, più in generale, come italiani.
*Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista.
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