della didattica
di Barbiana
Cento anni fa, il 27 maggio 1923, nacque a Firenze Lorenzo Carlo Domenico Milani Comparetti, comunemente chiamato don Milani. E' opportuno ricordarlo perché la sua opera educativa interroga ancor oggi la società, la scuola e tutti gli educatori. Non una semplice ed estemporanea, seppure spettacolare, commemorazione, ma una preziosa occasione per rileggere le sue opere e migliorare la qualità del nostro quotidiano essere educatori e associazione di educatori.
Avevo
letto in gioventù di quel Don Milani, prete ribelle di Barbiana, ma mi ero
interessato soprattutto al coraggio di chi si era opposto ad un sistema
formativo conservatore ed elitario: chi proveniva dalle classi abbienti aveva
l’accesso allo studio ed ai ruoli di comando e chi apparteneva ai ceti meno
abbienti veniva relegato a produrre ed eseguire. Erano gli anni delle prime
rivolte studentesche e vedevo in Lettera ad una professoressa un
forte ed affascinante messaggio politico, un atto di ribellione, qualcosa che
poteva scuotere le fondamenta di quella scuola che aveva scartato tanti miei
compagni, destinati già dalla nascita ai lavori più umili, così come era stato
per i loro genitori e i loro nonni. In quegli stessi anni leggevo Althusser, il
quale spiegava che la Scuola prendeva i bambini di tutte le classi sociali e
inculcava loro dei savoir-faire rivestiti dell’ideologia dominante (la lingua,
il far di conto, la storia naturale, le scienze, la letteratura), riconducendo
ognuno al ruolo attribuitogli nella società di classe(1); e Bordieu, il quale
affermava che la Scuola tradiva la sua missione più vera consolidando le
disuguaglianze che essa sola avrebbe potuto e dovuto ridurre(2). Dicevo, queste
erano le cose che vedevo a vent’anni nella scuola di Don Milani: solo dopo ho
cercato di capirne l’impianto didattico e l’ho trovato straordinario.
L’ho assimilato in modo definitivo quando per anni, con un gruppo di amici,
salivamo a Barbiana la sera prima della marcia annuale e ci fermavamo in quella
piccola canonica a respirare ciò che ancora emanavano quei muri.
Così quando nelle mie lezioni spiego il Costruttivismo sociale, sono solito
esordire con: “Ora vi mostrerò un filmato che racconta la scuola più innovativa
che conosco.” Quindi proietto un documento preso dalla cineteca della Rai La
storia siamo noi (3). Alla fine chiedo di discutere in gruppo ciò che
si è osservato sul far scuola a Barbiana e ne emerge un quadro ricchissimo di
suggestioni che rappresentano meglio di qualsiasi astratta riflessione il senso
di una didattica straordinariamente “innovativa” ed efficace.
Le
prime immagini del filmato mostrano la cappella sperduta tra i boschi in cui
Don Lorenzo Milani era stato confinato, raggiungibile solo da una stradella
sterrata simile ad un sentiero. A fianco della cappella c’è una piccola scuola
elementare che ospita una pluriclasse di alunni provenienti da famiglie povere
e molto numerose, timidi e rassegnati, bambini destinati ad andare a lavorare
in uno stato di semi-analfabetismo. Fuori di Barbiana c’è però un mondo in
rapida trasformazione, l’Italia del boom economico, della Dolce Vita e di
Lascia o raddoppia, di Coppi e Bartali, della Fiat 500 e dell’Autostrada del
Sole. Di Barbiana il progresso però sembra essersi dimenticato, anche se vi
compaiono una serie di strumenti tecnologici inusuali per la scuola di allora,
talora rari e sofisticati, come alcuni calcolatori elettronici donati da
operatori illuminati come Adriano Olivetti. Ecco, questa è una prima annotazione
di cui tener conto: a Barbiana si rompe con la tradizionale diffidenza della
scuola nei confronti delle innovazioni tecnologiche. Don Milani intuiva
l’importanza di esse, le più diverse, di comprenderne il linguaggio, di
padroneggiarlo e di servirsene per i propri scopi. A Barbiana si apprendono le
lingue straniere: il francese, l’inglese e persino l’arabo! Si organizzano
anche viaggi di studio all’estero, in anni in cui l’Erasmus non si sarebbe
neppure potuto immaginare. Edoardo Martinelli, uno degli allievi di Don Milani,
ricorda che si imparavano le lingue in modo vivo ed attivo, pratico ed
esperienziale, ascoltando le canzoni di Brassens e Bob Dylan, in una dimensione
di piacere e di gioco. Poco dopo io avrei studiato lingue e letterature straniere
all’università alimentandomi di una sterile e pedante indigestione di regole ed
assunti teorici.
Nel 1963 arriva a Barbiana una giovane professoressa, Adele Corradi, che aveva
sentito parlare di quella strana scuola e la voleva vedere. Si rende subito
conto della straordinarietà del contesto didattico che era stato realizzato tra
i monti del Mugello. Racconta che in quella scuola non esisteva una
ripartizione del curricolo in discipline e non c’era la campana che scandiva il
loro alternarsi. Mancava un programma precostituito, ma c’era uno scopo
estremamente chiaro, la chiarezza di punti di partenza e di arrivo ben definiti
(oggi si parlerebbe di gap analysis): il percorso veniva costruito
strada facendo in un processo di co-progettazione con gli alunni, in relazione
ai loro interessi, ai loro desideri, alle più diverse cose che accadevano. La
scuola era dotata di una piccola falegnameria e di una officina essenziale, di
uno studio fotografico e gli alunni imparavano a costruirsi molti degli
strumenti di cui avevano di volta in volta bisogno, come, racconta lo stesso
Martinelli, un apposito congegno per fotografare l’eclissi di luna. Adele
Corradi parla di un tempo scuola sempre aperto al dialogo, al confronto,
finalizzato a promuovere lo spirito critico, ma in un ambiente tutt’altro che
permissivo, che pretendeva il rispetto delle regole e l’assunzione di
responsabilità. Gli ex allievi raccontano di lezioni allegre e divertenti,
anche se il maestro, e sappiamo che su questo si appuntarono molte delle critiche
che gli vennero rivolte, non rinunciava a qualche calcio nel sedere, pratica
che del resto si impiegava largamente in quegli anni, sia a casa che a scuola.
Per aiutare i ragazzi a vincere le loro timidezze Don Milani teneva anche
lezioni di recitazione e faceva ampio uso di quella oggi chiamiamo animazione
teatrale. Accanto alla chiesa venne costruita anche una piccola piscina per far
in modo che quei timidi montanari vincessero la paura dell’acqua. Gli alunni
costruivano da sé i cavalletti per dipingere all’aperto e strumenti per
suonare. La professoressa Corradi sintetizza il tutto dicendo che era la vita
che entrava in classe in continuazione e che ogni occasione era buona per far
scuola. Visto l’entusiasmo che provava per questa scuola così diversa, la
professoressa accettò l’invito di Don Milani a fermarsi per dare una mano:
“Potrebbe lei insegnar loro un po’ di quelle stupidaggini che chiedete
all’esame di terza media?”. Trovo straordinaria questa domanda…
Ma Barbiana non è solo questo: accanto alle discipline tradizionali, collocate
come abbiamo visto in una prospettiva interdisciplinare, c’erano anche incontri
settimanali con esperti, dal musicista al meccanico, dal veterinario al fabbro,
facendo sì che dove non era possibile fare esperienza diretta, si potesse avere
almeno il racconto di prima mano di chi la pratica la viveva per davvero.
Il filmato si chiude con Don Milani che dice che la sua scuola non è
esportabile altrove ed è vero, non con quelle caratteristiche, con le lezioni
che durano tutto l’anno, giorni festivi compresi, ma gli ingredienti che noi
troviamo in essa sono quelli che possono e dovrebbero essere utilizzati oggi
nel difficile ma necessario passaggio dalla centratura sulle conoscenze a
quella sulle competenze, dall’esclusione all’inclusione, dall’omologazione alla
personalizzazione, da livelli intollerabili di dispersione al successo
formativo per tutti.
Rivediamoli
allora gli ingredienti:
- protagonismo degli alunni, che
partecipano attivamente al percorso educativo;
- centralità dell’esperienza in un
contesto laboratoriale;
- lavoro di gruppo e sostegno
reciproco;
- clima giocoso;
- sollecitazione del confronto e di uno
spirito critico;
- apertura ai più diversi canali di
comunicazione e informazione;
- uso delle più disparate tecnologie, anche
quelle più innovative;
- promozione dell’autonomia;
- assunzione di responsabilità e
rispetto del sistema normativo;
- animazione e role play;
- la vita reale che entra a scuola;
- una scuola che si apre all’esterno e
che vuole confrontarsi con il mondo;
- uso delle testimonianze dirette;
- sfida e messa in gioco continua;
- superamento della rigidità del
programma e programmazione flessibile partecipata;
- centralità dell’apprendimento delle
lingue, anche con viaggi all’estero;
- pratica di attività sportive, dallo
sci al nuoto (costruzione piscina);
- impegno politico e civico, con un
confronto anche duro per il riscatto sociale dei più deboli;
- il docente si fa scaffolder.
Quest’ultimo
aspetto sta ad indicare il delicato e prudente, quanto straordinario, ruolo
assunto dall’educatore. Scaffolding significa impalcatura e
trovo particolarmente efficace l’immagine del cantiere, un luogo attivo che
vede gli alunni come artigiani che costruiscono la propria formazione e
l’impalcatura che consente loro di lavorare in sicurezza, di salire, di
sporgersi, di sentirsi liberi di sperimentare in un contesto ben delimitato e
adeguatamente protetto. Si parla anche di apprendistato cognitivo e, ancora una
volta l’immagine è altamente evocativa. L’apprendista è per natura un soggetto
che impara facendo esperienza sotto la guida di un esperto che non gli si
sostituisce, ma che crea le condizioni perché egli possa mettersi alla prova
diventando progressivamente autonomo e competente.
Ho
lasciato alla fine l’aspetto più noto ed affascinante dell’impianto pedagogico
di Don Milani: l’I CARE, io mi interesso, mi prendo cura di te.
In tanti anni di formazione ho provato a chiedere a centinaia di persone se
nella loro vita avessero avuto almeno una o un insegnante significativi, ossia
che ricordavano come una persona che aveva in qualche modo cambiato la loro
vita. Purtroppo ne ho trovati molti che mi rispondevano negativamente. Agli
altri chiedevo di raccontarmi come fosse quella persona e venivano fuori dei
profili molto diversi, ma tutti riconducibili ad un elemento comune: ha saputo
farmi capire che io, anche con i miei limiti e le mie difficoltà, ero
importante. Eccolo, in estrema sintesi, l’I care.
Io vorrei tanto che quelle due parole, scritte a mano su un foglio incollato ad
una vecchia porta della canonica di Barbiana, fossero scolpite all’ingresso di
tutte le nostre scuole e le nostre università.
*****
(1)
Althusser L., (1972), Ideologia e apparati ideologici dello stato,
in Barbagli M. (a cura di) Scuola potere e ideologia, Il Mulino,
Bologna.
(2) Bourdieu P., (1972), La trasmissione dell’eredità culturale, in
Barbagli M. (a cura di) Scuola potere e ideologia, Il Mulino,
Bologna.
(3) Vedi www.lastoriasiamonoi.rai.it La
Scuola di Barbiana. Don Milani un ribelle ubbidiente.
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