NEL QUOTIDIANO
Il testo che segue è l’intervento che il direttore di 'Avvenire', Marco Tarquinio, ha tenuto al convegno di studio 'La santità oggi', in corso fino al 6 ottobre all’Istituto Patristico Augustinianum di Roma, e organizzato dal Dicastero delle cause dei Santi
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di Marco Tarquinio
Da
cristiano so che 'ci si fa santi' nella nostra concreta vita, con l’aiuto e
sotto gli occhi di Dio. In quella condizione che papa Paolo VI nell’Udienza
generale del 16 marzo 1966, rivolgendosi soprattutto ai fedeli laici, diceva
essere frutto di 'due cose': la 'grazia di Dio' e la nostra 'buona volontà'. Da
uomo di comunicazione mi rendo conto, continuo a constatare, che si è
riconosciuti santi e sante, cioè modelli di vita buona, quando questo accade
anche dentro agli occhi degli altri e questa scoperta riesce a toccare con la
sua evidenza almeno un po’, la vita di tanti persino di tutti, scuote, sveglia e
rafforza la fede (quando c’è e quando s’incomincia), smuove il cuore, provoca
l’intelligenza, accende e a volte incendia l’anima. Sì, si può definire la
santità anche dal punto di vista di ciò che comunica ai singoli e alle
comunità. E la parola che viene alle labbra a chi, come me, ha esperienza di
mass media è scoperta. Ma forse si potrebbe dire meglio definendola una
incarnazione della verità che tutti cerchiamo, un’incarnazione – noi che
abbiamo incontrato Cristo dovremmo averlo chiaro – che è eco piccola; eppure,
potente dell’Incarnazione che ha cambiato la storia.
Da
uomo di comunicazione so anche che questo è un fatto, la santità è un fatto che
accade, come detto, in un rapporto speciale con Dio eppure anche dentro agli
occhi degli altri. E accade persino a prescindere dalla consapevolezza generata
dalla fede nel Dio rivelato pienamente in Gesù Cristo. I santi e le sante sono
persone spirituali e contemporaneamente parole di carne che scrivono con la
loro esistenza, anche con le contraddizioni della loro esistenza e infine con
la chiarezza della loro esistenza, la Parola che si è fatta carne. È così che
testimoniano con forza nella complessa realtà umana l’adesione a Cristo e
attraggono a Lui anche coloro che vengono da più lontano o comunque anche per costoro
possono diventare amici e maestri, sono uomini e donne che sanno essere parole
vive e comprensibili da tutti, credenti, diversamente credenti e non credenti.
Da frate Francesco d’Assisi a madre Teresa di Calcutta è stato, ed è, così. E
questo è tanto più importante in tempi increduli e spesso sconsolati come i
nostri.
Provando, da semplice giornalista quale sono, a mettermi nei panni degli altri – e, per così dire, appunto nei loro occhi – mi rendo conto che pur in tempi di scetticismo verso tutto ciò che sa di 'istituzione' e di tendenze ad 'autocertificare' ciò che è buono e interessante per la propria vita, a proposito di santità ha un ruolo cruciale l’indagine e la parola prudente della Chiesa che riconosce e assicura – magari non per prima ma in modo certo e definitivo. Garantisce autorevolmente che ciò che hanno visto gli occhi delle singole persone e persino di quella folla che chiamiamo 'opinione pubblica' (ecclesiale e no) o anche solo 'gente' non è un abbaglio. Il cuore delle persone è affamato di bontà e di altezza non altezzosa, anche quando è stretto dalla paura e dallo scetticismo e dall’egoismo, e quando le vede all’opera ne è felice.
Sembra
banale dirlo, o potrà stupire che lo dica un cronista, ma questa fame di bontà
e di altezza non possiamo mai dimenticarla. Ricordando a tutti che non c’è un
solo modo di essere buoni e santi, ma come insegnava il Papa che guidò a
compimento il Concilio Vaticano II nella già citata Udienza generale del 16
marzo 1966, ma 'tante forme diverse' e, pure, 'tante misure diverse'. Perché la
diversità e l’irripetibile originalità di ognuno di noi è la cifra dell’unica
famiglia umana. Da Agostino di Ippona a Carlo Acutis, da Oscar Arnulfo Romero a
Gianna Beretta Molla i santi rispondono a Dio e, al tempo stesso, proprio per
questo, parlano agli uomini e alle donne del proprio tempo. Non solo: nel senso
appena detto, i santi e le sante parlano con efficacia agli uomini e alle donne
di ogni tempo.
Insisto
su un punto. L’uso in questa riflessione del termine 'uomini e donne' invece
della parola 'fedeli' non è casuale e non è generico, è generale e inclusivo. I
santi e le sante sono testimoni di Dio e del suo progetto per l’umanità non
soltanto per i credenti e per le persone religiose, cristiane e no, ma riescono
a farsi capire anche da chi frequenta altri alfabeti. La santità, infatti, non
marca un confine, non serve in alcun modo a questo, ma a fa capire che si può
vivere – per così dire – tra la terra e il cielo e abitare entrambi. Anche qui,
anche adesso. Ci dimostra che nell’umana condizione ci è dato di superare la
frontiera che sembra separare la nostra imperfetta umanità dal bene possibile e
necessario. Il bene che ognuno, in cuor suo, nei tanti casi della propria esistenza,
teme di non realizzare: ancora Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI,
vescovo di Roma e santo, quando serviva la Santa Sede come sostituto della
Segreteria di Stato, annotò in un appunto autografo e senza data, probabilmente
del 1948, queste poche e umili parole: 'Temo che non diventerò mai santo'. Il
bene che ognuno sa esistere e che ognuno sa riconoscere, quando accade.
Quel
bene che non è appena un non-male, ma che dà senso – cioè direzione – a tutto,
e sa germogliare anche là dove trionfa il male. Penso, volgendo lo sguardo al
cuore nero del Novecento, a padre Massimiliano Kolbe e a suor Teresa Benedetta
della Croce, EI dith Stein. Penso ai missionari martiri in tante 'terre di
lavoro' dei cinque continenti e a quelli che non consideriamo tali,
missionari del Vangelo, ma che lo sono in terre di antica e purtroppo svuotata
tradizione cristiana.
Ma
se vogliamo stare all’attualità più stringente, quella della guerra – che sul
serio e di nuovo ci stringe il cuore in Europa e in altri 168 luoghi del mondo
in questo anno 2022 dell’era cristiana –, vediamo e, certamente, poco a poco,
scopriremo di più quanto esistente e resistente possa essere il bene. Il bene
sa manifestarsi anche dentro al male assoluto della guerra, che è sempre
l’organizzazione sistematica dell’assassinio e che è sempre tragico, totale e
diabolico – per usare l’espressione cara a papa Francesco – cedimento al 'cainismo'.
Lungo
i secoli e persino nella cronaca dell’oggi, quella fatta da chi non intende
fermarsi alla pelle dei fatti e alla loro corazza bellica, abbiamo imparato che
il bene germoglia in apparentemente inattuali gesti di pace, nella diserzione
dalla strage, nella preghiera, nella testimonianza e nella carità segrete che
cambiano tutto, fosse anche per una sola persona. Ci sono santi e sante –
possiamo esserne certi – che stanno parlando anche adesso, dicendo agli uomini
e alle donne di questo tempo che c’è una salvezza che ci riguarda e che non è
una fuga all’indietro, ma una corsa in avanti verso un orizzonte cristiano che
coincide, anche se non si esaurisce, con l’umanesimo che fa fare pace al mondo.
Se
l’umana caduta è nell’orgogliosa pretesa di sapere 'come Dio' ciò che è bene e
ciò che è male, da cronista di questo tempo penso che la Chiesa abbia la
possibilità e il dovere di dire e di far comprendere alle persone del XXI
secolo che la santità riconosciuta dai cristiani è il cammino di chi risale la
china per ritrovare il limite, e sa attraversarlo non per orgoglio ma per
amore. E che questo è l’unico modo per essere per davvero 'come Dio', cioè per
essere 'a sua immagine e somiglianza'. La Chiesa può non perché i suoi occhi
sono gli occhi del mondo, ma perché ha occhi sul mondo. E, seguendo il suo
Signore, ha a cuore tutto ciò che è profondamente umano.
Mi
accorgo di aver osato aggiungere alla 'grazia di Dio' e alla 'buona volontà',
secondo la lezione di san Paolo VI, una terza 'cosa' necessaria per 'fare la
santità': il senso del limite. E forse l’attesa che sento più urgente nella
stagione dell’umanità che stiamo vivendo. Penso che attestando la qualità e la
verità di vite sante, cioè buone, giuste e salvate – ciò che a nostro modo
facciamo anche noi che lavoriamo in un’informazione non rassegnata al gossip e
attenta alla sostanza più umana e fraterna di ciò che ogni giorno avviene – la
Chiesa svolga un grande servizio.
Aiuta
a riconoscere l’umano limite, ad aver chiaro nella conoscenza a volte confusa e
smemorata del bene e del male che ci caratterizza che noi non siamo perfetti,
che solo Dio lo è. E che noi possiamo vivere con bontà, realizzare la bellezza,
cercare e incontrare la verità, ma non possiamo metterci al posto di Dio. Lui è
perfetto – noi cristiani lo crediamo e lo contempliamo, contemplando e facendo
la storia che Lui ha toccato una volta per tutte – e per questo ha voluto e
saputo mettersi al posto nostro, si è fatto carne mortale, martoriata e uccisa,
è entrato nella nostra finitezza e l’ha sconvolta fino a rivelarci l’eternità
che esplode con la Risurrezione: la sua e quella che ci è promessa nella nostra
stessa carne. Cristo continua a entrare nella storia e a rivelaci la nostra
condizione e la nostra vocazione.
Canta
Giuseppe Ungaretti in 'Mio fiume anche tu', poesia scritta nella guerra che
insanguinò il cuore del Novecento e pubblicata nel 1947:
Cristo,
pensoso palpito,
Astro
incarnato nell’umane tenebre,
Fratello
che t’immoli Perennemente per riedificare
Umanamente
l’uomo,
Santo,
Santo che soffri,
Maestro
e fratello e Dio che ci sai deboli, Santo, Santo che soffri
Per
liberare dalla morte i morti
E
sorreggere noi infelici vivi,
D’un
pianto solo mio non piango più,
Ecco,
Ti chiamo,
Santo,
Santo, Santo che soffri.
Il posto degli uomini e delle donne 'santi' non è al posto di Dio, del Dio-Amore così innamorato dell’umana libertà, dell’umana possibilità di liberamente corrispondergli e di corrispondere alla Sua grazia che ci si è fatto Fratello. Sino a esserne crocifisso. Lui, sì, Santo. Tre volte Santo, come ripete il poeta, Santo che s’immola 'perennemente per riedificare umanamente l’uomo'.
Non
al posto di Dio, dunque, nella vertigine di conquistare pezzi del Suo potere
infinito, ma accanto al Suo cuore e perciò accanto agli altri uomini e alle
altre donne, cioè dentro la città dell’uomo e in tutte le sue possibili
periferie, affollate o solitarie. I santi e le sante tengono aperta la strada,
che passa sotto casa nostra. E su cui si può camminare. Questo rincuora e di
questo si può essere felici. Non tutti lo considerano un evento da prima
pagina. Eppure, se nel mondo c’è speranza, è perché continua ad accadere sotto
gli occhi di Dio e dentro gli occhi degli altri.
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