- di DANILO
PAOLINI
Più che un
intervento di circostanza per salutare l’avvio della nuova legislatura, Liliana
Segre ha tenuto a Palazzo Madama una lezione di storia patria e di amor
patrio.
Dove Patria si
può scrivere, senza dubbio, con la maiuscola. Ha volato alto, ma non troppo da
risultare irraggiungibile, la senatrice a vita, splendida novantaduenne con un
passato all’inferno di Auschwitz e ritorno. Ha volato infatti all’altezza dei
cuori dei senatori di ogni gruppo politico e di tutti gli italiani, forse ormai
stanchi di un Paese eternamente diviso da una sorta di guerra civile ideologica
(solo a parole, per fortuna) e sicuramente preoccupati, tanto, per le bollette
sempre più care, per il Covid che tarda a scomparire, per le disuguaglianze
sociali ed economiche che crescono, per una guerra (questa invece con bombe e
morti, purtroppo) nel cuore d’Europa, per i troppi diritti ancora negati.
È riuscita a
tenere insieme tutto questo e altro ancora, la senatrice Segre, parlando
all’anima profonda di questo Paese. Non a caso ha esordito con un saluto al
presidente della Repubblica Sergio Mattarella, colui che ha tenuto sempre saldo
il timone delle istituzioni in questi anni di burrasca, e un pensiero a papa
Francesco, guida spirituale e morale non solo per i cattolici. È stata una
boccata d’aria fresca, mentre nello stesso Senato e alla Camera riprendeva il
consueto tira-e-molla della politica nostrana, sentir ripercorrere da lei il
romanzo – a tratti tragico, a tratti eroico – della Nazione.
Chi altri, per
autorevolezza e storia personale, poteva ricordare con rigore e semplicità,
nella più alta sede della nostra democrazia parlamentare, che tra pochi giorni
ricorrerà il centenario della marcia su Roma, se non la donna che da bambina di
appena 11 anni fu trascinata via dal suo banco di scuola, «sconsolata e
smarrita », a causa delle sciagurate, disumane leggi razziali volute dal regime
fascista nato proprio da quella marcia?
È il passato
che si fa memoria, che non deve tornare ma non deve nemmeno essere usato come
un’arma nei confronti dell’avversario politico. Perché l’Italia di oggi è una
democrazia, il 25 settembre «il popolo ha deciso» e «la maggioranza uscita
dalle urne ha il diritto-dovere di governare», mentre «le minoranze hanno il
compito altrettanto fondamentale di fare opposizione». Una “norma-lità”
preziosa, che spesso tuttavia si è data per scontata o è stata nascosta da
cortine di fumo partitico, da giochi di palazzo. Questa “normalità” – ha
ricordato Segre – per la quale c’è chi è stato ucciso, come Giacomo Matteotti,
ci è garantita dalla Costituzione della Repubblica che «come dice Piero
Calamandrei è non un pezzo di carta, ma il testamento di 100.000 morti caduti
nella lunga lotta per la libertà». Applausi convinti e numerosi sono risuonati
nell’Aula per questo e per molti altri passaggi del discorso. Una lezione, si
diceva. Ma anche un raro esempio di quel patriottismo repubblicano che la
nostra democrazia ha respirato troppo poco. Un patriottismo che considera
naturale e mai “divisivo” festeggiare, tutti, la Liberazione il 25 Aprile, il
Lavoro il Primo Maggio, la Repubblica il 2 Giugno. Occorreva dirlo e forse mai
è stato detto così chiaramente, serenamente e in un’occasione tanto solenne.
Subito dopo la
dialettica parlamentare, non senza scossoni all’interno della maggioranza e
delle opposizioni, ha emesso il suo primo verdetto: Ignazio La Russa è il nuovo
presidente del Senato. Tra quegli applausi convinti e numerosi a Liliana Segre
c’era anche il suo, quello di un uomo che ha sempre militato a destra – nel
Msi, poi in An, brevemente nel Pdl e infine in Fdi – e che oggi si trova a
ricoprire la seconda carica dello Stato. Agli applausi ha poi aggiunto il suo
personale omaggio a Segre, un mazzo di rose bianche. Ma soprattutto, La Russa
ha dato probabilmente la migliore definizione della collega: «Non Presidente
provvisoria, ma Presidente morale» del Senato. Nel suo discorso non ha lasciato
cadere il testimone che gli era stato appena passato. Ha omaggiato tra gli
altri Sandro Pertini, il Presidente partigiano, ha ricordato i giovani di ogni
colore morti a causa della violenza politica sul finire degli anni 70. E non ha
evitato il riferimento alle feste nazionali da celebrare «da tutti». Anzi – ha
proseguito, rispolverando un “classico” della sua parte politica – si potrebbe
festeggiare anche «la nascita del Regno d’Italia», il 17 marzo del 1861. Non
sarebbe uno scandalo: nel 2011, in occasione dei 150 anni, fu festa nazionale.
Certo, è una data che parla di unità. Ma, più delle feste, a questo Paese è
mancata troppo spesso proprio l’unità. L’occasione intravista al Senato,
perciò, non va sprecata.
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