Un finale col botto
quello del quarto webinar del ciclo “Prendersi cura della comunità che lavora”,
proposto dalla Pastorale sociale e del lavoro, dal titolo “La sfida formativa”:
Patrizio Bianchi, ministro della Pubblica istruzione, professore ordinario di
Economia ed ex rettore dell’Università di Ferrara, in collegamento da Roma,
intervistato dal collega dell’Università di Parma, Guido Cristini.
- Luca Campana
Il quadro economico attuale è
oggettivamente complesso, non solo per la pandemia ma anche per ragioni, e
parlo dell’Italia, strutturali più che congiunturali. Siamo pronti alla
ripartenza ma, naturalmente, questa si basa sulla nostra capacità di
crescere all'interno di un recinto che parla, ovviamente, di economia della
conoscenza. Quando si parla di economia della conoscenza, di crescita e di
sviluppo, mi viene in mente che non possiamo non parlare del grande tema della
produttività, in particolare del nostro sistema economico.
Credo che sia opportuno fare una
riflessione perché la pandemia rischia di obnubilare le visioni di lungo
periodo. Già prima della pandemia l’economia italiana presentava problemi di
notevole rilevanza: avevamo il Paese che cresceva meno della base europea; sono
almeno quindici anni che il tasso di crescita dell’Italia è intorno, o
addirittura sotto, l’1%. Inoltre, spesso, dimentichiamo che, già prima del
Covid, eravamo pienamente dentro quel grande processo di trasformazione
strutturale che chiamiamo industria 4.0, cioè la completa digitalizzazione
della nostra economia. Che non vuol dire semplicemente
digitalizzare i sistemi di produzione ma anche cambiare le
modalità di consumo dei beni. D’altra parte è pur vero che
questo è il corso dell’economia della conoscenza, che finora avevamo
quasi posto come un accessorio di un’economia italiana che
continuava a basarsi su quel forte Made in Italy che aveva
sostenuto le nostre esportazioni negli anni presidenti. In realtà
la pandemia ha congelato, come nelle vecchie fiabe, tutto
il sistema, ma non è che una volta congelato, poi, rimanga
inalterato: il rischio è che quando lo andremo a
scongelare ritroveremo le condizioni preesistenti perché, nel
frattempo i sistemi di produzione sono cambiati. Anche perché la
situazione preesistente per l’Italia voleva dire una
situazione di sottoccupazione e di non crescita. Quindi non
soltanto dobbiamo uscire dalla pandemia ma dobbiamo anche intraprendere un
cammino di modificazioni strutturali del nostro sistema produttivo
e sociale che ci permettano non solo di crescere nel creare più
occupazione ma anche una condizione di maggiore equità
nel Paese. Oggi abbiamo un bisogno sostanziale di più
educazione, ma non solo per i ragazzi. Quando si parla di pubblica
istruzione, infatti, si pensa che sia un problema dei ragazzi – il
che è vero, dal momento che nell’Italia pre-pandemia avevamo già un Paese che
aveva il maggior numero di dispersione scolastica di tutta Europa – mentre
nella realtà occorre investire in più educazione anche per gli adulti.
Questo tema mi riporta a un’altra
sollecitazione: parlando di formazione, parliamo di life long
learning di cui si è cominciato a trattare nella conferenza di Lisbona del
2000 che poi ha portato a un grande dibattito nei diversi paesi europei.
E su questo rapporto fra educazione e
crescita, abbiamo nella letteratura due approcci che vengono spesso
contrapposti: quello di Chicago (più educazione più competenze; più competenze
più prodotti e produttività; più produttività più competitività e, quindi,
più crescita e più risorse ancora una volta per generare un circolo virtuoso) e
quello di Harvard, che sostiene che l’educazione è fondamentale per ampliare il
numero di coloro che possono partecipare al gioco democratico. Questi due
modelli vengono riferiti generalmente, il primo agli Stati Uniti,
essenzialmente alla California; e il secondo all’India. Invece io credo
che vi sia un numero di Paesi, fra cui il nostro, in cui queste due modelli
debbono viaggiare insieme. Noi dobbiamo fare più educazione per ampliare il
numero di coloro che possono creare la crescita del Paese o almeno coloro che
non ne sono esclusi; e dall’altra parte servono più competenze per creare
prodotti a più alto valore aggiunto. Cioè da una parte non possiamo permetterci
che la parte produttiva del Paese sia ristretta come è accaduto in questi anni,
si pensi alla quantità di attività che di fatto sono andate perdute; dall’altra
bisogna però trasformare questa attività. Stiamo scoprendo adesso con molto
ritardo la centralità di tutta la formazione tecnica e professionale; stiamo
scoprendo il bisogno di fare scuole professionali e il caso tedesco diventato
quasi ossessivo. In questa fase scopriamo, soprattutto, la necessità di una
scuola che garantisca la continua acquisizione di nuove competenze e che
risponda alla grandissima richiesta di ri-orientamento agli studi.
Farei un’altra domanda che nasce anche
dalla tua lunga esperienza nell’assessorato in Regione dove, se non ricordo
male, ti sei molto impegnato nel progettare interventi di sistema, legati a
quella che, noi economisti, chiamiamo politiche industriali, mirate allo
sviluppo settoriale di filiera, con investimenti per la formazione di giovani
più che alla riconversione delle persone che operano in quei contesti. Questa
esperienza, che secondo me è stata virtuosa, può essere realizzata a livello
Paese? Cioè questa idea di una politica industriale che mette insieme la
formazione, lo sviluppo e l’accompagnamento di imprese e di persone può
essere generalizzabile?
Deve, non può… Perché altrimenti il
rischio è di avere un Paese a macchie. In realtà abbiamo già una
realtà a macchie che chiamiamo distretti, con aree sistema limitate a livello
sub-regionale, con una forte specializzazione territoriale e che
essenzialmente svolgevano funzioni di innovazione imitativa su percorsi
preesistenti. Questa situazione non voglio dire che sia finita però ha
evidenziato in diversi territori molte difficoltà: e ne cito uno per tutti: la
regione Marche, che è entrata in grande difficoltà perché era collegata
fortissimamente a cicli generazionali che si sono esauriti. Credo che, invece,
si debba andare nel Paese a cogliere questi elementi di forte dinamismo locale,
che ancora esistono, e collegarli fra di loro.
Pensando all’ultima enciclica del
Papa, Fratelli tutti, dove si fa riferimento alla modalità di
selezione delle persone nei processi produttivi e al tema più volte riportato
anche dal dibattito sociale, dell’abbandono della cultura dello scarto, ritroviamo
la necessità di ripensare una società più attenta, più inclusiva, più capace di
riorientarsi alla centralità della persona.
Nella Fratelli tutti Francesco
ha scritto dei pensieri che ha ripetuto anche di recente nel corso di
un’importante riunione indetta da quel “monumento” che si chiama Scholas
occurrentes che lui stesso aveva promosso in Argentina: non siamo in
una fase di semplice transizione tecnologica, ma in una fase di trasformazione
antropologica governata dalla generale, e direi quasi ineludibile, dipendenza
di ognuno di noi dai mezzi di comunicazione di massa e dalla connessione
perpetua. Questa trasformazione antropologica, però, rischia di generare molti
diseguaglianze, molte iniquità e soprattutto di decomporre interi corpi
sociali. È anche per questo che la riflessione che introduce l’enciclica, non a
caso, è stata posta sotto l’egida della fraternità.
Avvenire Vita Nuova
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