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lunedì 7 giugno 2021

INVESTIRE DI PIU' IN EDUCAZIONE

Un finale col botto quello del quarto webinar del ciclo “Prendersi cura della comunità che lavora”, proposto dalla Pastorale sociale e del lavoro, dal titolo “La sfida formativa”: Patrizio Bianchi, ministro della Pubblica istruzione, professore ordinario di Economia ed ex rettore dell’Università di Ferrara, in collegamento da Roma, intervistato dal collega dell’Università di Parma, Guido Cristini.

Luca Campana

Il quadro economico attuale è oggettivamente complesso, non solo per la pandemia ma anche per ragioni, e parlo dell’Italia, strutturali più che congiunturali. Siamo pronti alla ripartenza ma, naturalmente, questa si basa sulla nostra capacità di crescere all'interno di un recinto che parla, ovviamente, di economia della conoscenza. Quando si parla di economia della conoscenza, di crescita e di sviluppo, mi viene in mente che non possiamo non parlare del grande tema della produttività, in particolare del nostro sistema economico.

Credo che sia opportuno fare una riflessione perché la pandemia rischia di obnubilare le visioni di lungo periodo. Già prima della pandemia l’economia italiana presentava problemi di notevole rilevanza: avevamo il Paese che cresceva meno della base europea; sono almeno quindici anni che il tasso di crescita dell’Italia è intorno, o addirittura sotto, l’1%. Inoltre, spesso, dimentichiamo che, già prima del Covid, eravamo pienamente dentro quel grande processo di trasformazione strutturale che chiamiamo industria 4.0, cioè la completa digitalizzazione della nostra economia. Che non vuol dire semplicemente digitalizzare i sistemi di produzione ma anche cambiare le modalità di consumo dei beni. D’altra parte è pur vero che questo è il corso dell’economia della conoscenza, che finora avevamo quasi posto come un accessorio di un’economia italiana che continuava a basarsi su quel forte Made in Italy che aveva sostenuto le nostre esportazioni negli anni presidenti. In realtà la pandemia ha congelato, come nelle vecchie fiabe, tutto il sistema, ma non è che una volta congelato, poi, rimanga inalterato: il rischio è che quando lo andremo a scongelare ritroveremo le condizioni preesistenti perché, nel frattempo i sistemi di produzione sono cambiati. Anche perché la situazione preesistente per l’Italia voleva dire una situazione di sottoccupazione e di non crescita. Quindi non soltanto dobbiamo uscire dalla pandemia ma dobbiamo anche intraprendere un cammino di modificazioni strutturali del nostro sistema produttivo e sociale che ci permettano non solo di crescere nel creare più occupazione ma anche una condizione di maggiore equità nel Paese. Oggi abbiamo un bisogno sostanziale di più educazione, ma non solo per i ragazzi. Quando si parla di pubblica istruzione, infatti, si pensa che sia un problema dei ragazzi – il che è vero, dal momento che nell’Italia pre-pandemia avevamo già un Paese che aveva il maggior numero di dispersione scolastica di tutta Europa – mentre nella realtà occorre investire in più educazione anche per gli adulti.

Questo tema mi riporta a un’altra sollecitazione: parlando di formazione, parliamo di life long learning di cui si è cominciato a trattare nella conferenza di Lisbona del 2000 che poi ha portato a un grande dibattito nei diversi paesi europei.

E su questo rapporto fra educazione e crescita, abbiamo nella letteratura due approcci che vengono spesso contrapposti: quello di Chicago (più educazione più competenze; più competenze più prodotti e produttività; più produttività più competitività e, quindi, più crescita e più risorse ancora una volta per generare un circolo virtuoso) e quello di Harvard, che sostiene che l’educazione è fondamentale per ampliare il numero di coloro che possono partecipare al gioco democratico. Questi due modelli vengono riferiti generalmente, il primo agli Stati Uniti, essenzialmente alla California; e il secondo all’India. Invece io credo che vi sia un numero di Paesi, fra cui il nostro, in cui queste due modelli debbono viaggiare insieme. Noi dobbiamo fare più educazione per ampliare il numero di coloro che possono creare la crescita del Paese o almeno coloro che non ne sono esclusi; e dall’altra parte servono più competenze per creare prodotti a più alto valore aggiunto. Cioè da una parte non possiamo permetterci che la parte produttiva del Paese sia ristretta come è accaduto in questi anni, si pensi alla quantità di attività che di fatto sono andate perdute; dall’altra bisogna però trasformare questa attività. Stiamo scoprendo adesso con molto ritardo la centralità di tutta la formazione tecnica e professionale; stiamo scoprendo il bisogno di fare scuole professionali e il caso tedesco diventato quasi ossessivo. In questa fase scopriamo, soprattutto, la necessità di una scuola che garantisca la continua acquisizione di nuove competenze e che risponda alla grandissima richiesta di ri-orientamento agli studi.

Farei un’altra domanda che nasce anche dalla tua lunga esperienza nell’assessorato in Regione dove, se non ricordo male, ti sei molto impegnato nel progettare interventi di sistema, legati a quella che, noi economisti, chiamiamo politiche industriali, mirate allo sviluppo settoriale di filiera, con investimenti per la formazione di giovani più che alla riconversione delle persone che operano in quei contesti. Questa esperienza, che secondo me è stata virtuosa, può essere realizzata a livello Paese? Cioè questa idea di una politica industriale che mette insieme la formazione, lo sviluppo e l’accompagnamento di imprese e di persone può essere generalizzabile?

Deve, non può… Perché altrimenti il rischio è di avere un Paese a macchie. In realtà abbiamo già una realtà a macchie che chiamiamo distretti, con aree sistema limitate a livello sub-regionale, con una forte specializzazione territoriale e che essenzialmente svolgevano funzioni di innovazione imitativa su percorsi preesistenti. Questa situazione non voglio dire che sia finita però ha evidenziato in diversi territori molte difficoltà: e ne cito uno per tutti: la regione Marche, che è entrata in grande difficoltà perché era collegata fortissimamente a cicli generazionali che si sono esauriti. Credo che, invece, si debba andare nel Paese a cogliere questi elementi di forte dinamismo locale, che ancora esistono, e collegarli fra di loro.

Pensando all’ultima enciclica del Papa, Fratelli tutti, dove si fa riferimento alla modalità di selezione delle persone nei processi produttivi e al tema più volte riportato anche dal dibattito sociale, dell’abbandono della cultura dello scarto, ritroviamo la necessità di ripensare una società più attenta, più inclusiva, più capace di riorientarsi alla centralità della persona.

Nella Fratelli tutti Francesco ha scritto dei pensieri che ha ripetuto anche di recente nel corso di un’importante riunione indetta da quel “monumento” che si chiama Scholas occurrentes che lui stesso aveva promosso in Argentina: non siamo in una fase di semplice transizione tecnologica, ma in una fase di trasformazione antropologica governata dalla generale, e direi quasi ineludibile, dipendenza di ognuno di noi dai mezzi di comunicazione di massa e dalla connessione perpetua. Questa trasformazione antropologica, però, rischia di generare molti diseguaglianze, molte iniquità e soprattutto di decomporre interi corpi sociali. È anche per questo che la riflessione che introduce l’enciclica, non a caso, è stata posta sotto l’egida della fraternità.

Avvenire Vita Nuova

 

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