In quel
 tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si 
radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei 
capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si 
gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta 
morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con 
lui. 
 Molta 
folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Dalla casa del capo della 
sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il 
Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga:
 «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo,
 fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo [...].
    La casa di 
Giairo è una nave squassata dalla tempesta: la figlia, solo una bambina,
 dodici anni appena, è morta. E c'era gente che piangeva e gridava. Di 
fronte alla morte Gesù è coinvolto e si commuove, ma poi gioca al 
rialzo, rilancia, e dice a Giairo: tu continua ad aver fede. E alla 
gente: la bambina non è morta, ma dorme.
     E lo 
deridevano. Allora Gesù cacciò tutti fuori di casa. Costoro resteranno 
fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro 
realismo. La morte è evidente, ma l'evidenza della morte è una 
illusione, perché Dio inonda di vita anche le strade della morte. Prese 
con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui. 
Gesù non ordina le cose da fare, prende con sé; crea comunità e 
vicinanza. Prende il padre e la 
madre, i due che amano di più, ricompone il cerchio degli affetti 
attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, è 
l'amore.
     E mentre si
 avvia a un corpo a corpo con la morte, è come se dicesse: entriamo 
insieme nel mistero, in silenzio, cuore a cuore: prende con sé i tre 
discepoli preferiti, li porta a lezione di vita, alla scuola dei drammi 
dell'esistenza, vuole che si addossino, anche per un'ora soltanto, il 
dolore di una famiglia, perché così acquisteranno quella sapienza del 
vivere che viene dalla ferite vere, la sapienza sulla vita e sulla 
morte, sull'amore e sul dolore che non avrebbero mai potuto apprendere 
dai libri: c'è molta più “Presenza”, molto più “cielo” presso un corpo o
 un'anima nel dolore che presso tutte le teorie dei teologi.
      Ed entrò dove era la bambina. Una 
stanzetta interna, un lettino, una sedia, un lume, sette persone in 
tutto, e il dolore che prende alla gola. Il luogo dove Gesù entra non è 
solo la stanza interna della casa di Giairo, è la stanza più intima del 
mondo, la più oscura, quella senza luce: l'esperienza della morte, 
attraverso la quale devono passare tutti i figli di Dio. Gesù entrerà 
nella morte perché là va ogni suo amato. Lo farà per essere con noi e 
come noi, perché noi possiamo essere con lui e come lui. Non spiega il 
male, entra in esso, lo invade con la sua presenza, dice: Io ci sono.
     Talità kum. Bambina alzati. E ci 
alzerà tutti, tenendoci per mano, trascinandoci in alto, ripetendo i due
 verbi con cui i Vangeli raccontano la risurrezione di Gesù: alzarsi e 
svegliarsi. I verbi di ogni nostro mattino, della nostra piccola 
risurrezione quotidiana. E subito la bambina si alzò e camminava, 
restituita all'abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata. 
     Su ogni creatura, su ogni fiore, su 
ogni bambino, ad ogni caduta, scende ancora la benedizione di quelle 
antiche parole: Talità kum, giovane vita, dico a te, alzati, rivivi, 
risorgi, riprendi il cammino, torna a dare e a ricevere amore.
(Letture: Sapienza 1,13-15; 2,23-24; Salmo 29; 2 Corinzi 8,7.9.13-15; Marco 5,21-43).
 Ermes Ronchi 
(tratto da www.avvenire.it)
 

 
 
Nessun commento:
Posta un commento