Mc 4, 26-34
Dal Vangelo secondo Marco
26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.
Commento di p. Paolo Curtaz
Marco ci regala una piccola parabola, una similitudine, un
paragone, che solo lui riporta.
Tre piccoli versetti da mandare a memoria e da usare quando ci
lasciamo prendere dall’ansia da prestazione (cristiana). Un potente ansiolitico
interiore.
È il regno che viene, non sono gli uomini a farlo venire.
Quindi: restiamo sereni. Keep calm. Ci voleva. Soprattutto in
questi tempi di caos apocalittico.
La piccola similitudine è divisa in tre parti e ha due
protagonisti: il contadino e il seme.
Il primo compare all’inizio e alla fine e, volutamente, Marco ne
sottolinea il ruolo assolutamente
marginale.
Manda la falce. Due azioni: getta il seme e manda (getta?) la
falce.
Interessante: non semina, ma getta il seme, come ad indicare
un’azione non prevista, un campo non adibito alla semina, una scelta non
pianificata, come a dire: getta il seme
della Parola ovunque ti trovi, ogni luogo è da fecondare!
E la seconda affermazione è ancora più curiosa, una specie di
errore grammaticale: letteralmente Marco scrive, in greco, che il contadino
manda la falce, non va nemmeno a falciare, qualcun altro, la falce!, se ne
occupa.
Sappiamo che non è così semplice. Sappiamo che il terreno va
accudito, irrigato, disinfestato dalle erbacce... ma il racconto vuole
rimarcare la forza intrinseca del seme e l’apparente marginalità del
seminatore.
Il secondo citato, il
seme, è il vero protagonista del brano: mentre l’uomo dorme, lui germoglia,
cresce, porta frutto. Gesù descrive quasi plasticamente la lenta azione del
seme che buca la terra, si fa germoglio, cresce, si gonfia e si dona nel
frutto.
Il contadino è inattivo, il seme no.
Al punto che, alla fine, è il frutto che stabilisce l’ora della
mietitura. Letteralmente Marco scrive appena il frutto lo consente.
L’uomo non fa, ma accoglie. E deve accogliere in fretta, subito.
È il frutto che fa tutto.
Il contadino non sa nemmeno come ciò avvenga, non se ne occupa,
non ha il potere del controllo.
Fuor di metafora, Gesù, totalmente uomo, si interroga su quanto
sta accadendo, sulla sua strategia pastorale.
Determinato nel continuare la sua missione, si interroga sulle
difficoltà che incontra.
E dice a se stesso, ai suoi discepoli, a noi, una cosa molto
semplice: il regno di Dio è, appunto, di Dio. Non nostro. Ha una sua logica,
una sua tempistica, una sua dinamica che, spesso, ignoriamo. Come accade col
seme.
La Parola seminata agisce anche se non ce ne accorgiamo. Ha
tempi lunghi, certo, diversi dai nostri, ma agisce con forza e costanza. A noi
rimane il compito di gettare il seme e di coglierne il frutto, subito, appena
questo matura.
Gesù chiede di passare
dalla logica dell’efficienza a quella dell’accoglienza.
Ahia.
Quante inutili ansie portiamo nel cuore! Proprio noi cristiani,
noi discepoli che dovremmo, almeno un po’, fidarci di Dio e della sua Parola!
Il ragionamento di
Gesù è semplice ed efficace: il regno è di Dio, tu, assecondalo.
O, in altre parole, come ripeto spesso, fra il serio e il faceto:
il mondo è già salvo, non lo devi salvare tu. Il mondo è già salvo, è che non
lo sa.
Vuoi fare qualcosa?
Vivi da salvato.
Per noi, oggi Questa logica evangelica dell’attesa, della
fiducia, caratterizza (o dovrebbe) la nostra vita comunitaria, ma anche la
nostra vita interiore. La stessa pazienza che il Signore chiede nel lasciar
agire il regno, la stessa fiducia che chiede di avere nella potenza della
Parola, la dobbiamo aver e verso noi stessi e i nostri percorsi di vita.
Come il terreno, cioè il nostro intimo, accoglie e fa crescere
il seme è un mistero: inutile cercare di accelerarlo, inutile cercare di
manipolarlo, è una questione fra Dio e l’anima, un evento intangibile ne lla
coscienza del discepolo (cfr. Ap 3,20).
Il granello di senape
Ancora riflette, il Maestro, ed introduce l’ultimo enigma con
una doppia domanda, come era in uso nei dialoghi dei rabbini per coinvolgere
l’uditorio.
La parabola parla di una mutazione, di un cambiamento, di una
evoluzione.
Perché quando si parla di Dio tutto si trasforma. È dinamico
Dio, sempre più avanti di quanto di lui riusciamo a cogliere.
Usa questa splendida immagine servendosi con forza di un
contrasto, che è il cuore della parabola .
Il protagonista della parabola è ancora il seme: a lui sono
riferiti i verbi. È seminato, sale su, diventa un ortaggio, ramifica.
Ma al Signore piace giocare con gli opposti: il più piccolo dei
semi diventa il più grande degli ortaggi, un vero albero, con grandi rami.
Ha ragione: il seme della senape, anche se non è il più piccolo
in natura, come affermato, è comunque minuscolo: misura appena un millimetro di
grandezza. Ma, sulle sponde del lago, può crescere fino a raggiungere i tre
metri di altezza.
Spettacolare.
La logica del regno
La Parola di Dio ha una sua efficacia, il seme germoglia e porta
frutto, così l’annuncio del regno che avanza anche se non sappiamo bene come.
Ma è una logica diversa da quella che ci immaginiamo.
Parte dal poco, all’inizio è insignificante, piccolo come un
granello di senape.
Ha un suo inizio e una sua progressione.
Ma Gesù non parla di trionfalismi, non immagina grandi successi
delle chiese, come a volte è stato interpretato goffamente questo testo, non
sogna improbabili finali trionfanti da film.
Indica l’atteggiamento con cui annunciare il regno e la logica
che lo accompagna: nelle piccole cose, nell’umiltà (che non è la depressione
dei credenti ma la consapevolezza feconda del limite), dell’insignificanza dei
gesti si cela la grandezza del regno.
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