l'intelligenza del cuore
Se ci lasceremo sedurre dall’illusione di poter delegare tutto alla macchina, all'IA, rischieremo di perdere il senso del vivere insieme.
La vera intelligenza è quella che sa amare.
La
grande fascinazione che l’intelligenza artificiale (IA) ha sull’opinione
pubblica suscita, come succede sempre con le grandi innovazioni, emozioni
contrastanti. Da un lato, i tecnoentusiasti, che vedono nella nuova frontiera
digitale la promessa di una umanità potenziata, più efficiente, più
intelligente, più libera dagli errori e dai limiti della mente umana.
Dall’altro lato, i tecnofobici che enfatizzano i rischi e alimentano le paure:
la perdita del lavoro, la manipolazione delle menti, la sorveglianza totale, la
riduzione dell’umano a una funzione biologica e algoritmica. Entrambi gli
schieramenti hanno in parte ragione e in parte torto. Il problema è che, come
ogni salto tecnologico, anche quello digitale non cambia solo il modo di fare
le cose: cambia il modo di pensare, di sentire, di relazionarci. L’IA non è un
semplice strumento, ma un nuovo ambiente cognitivo che riorganizza le
condizioni stesse dell’esperienza umana. Invece di schierarsi di qua o di là,
ciò che è necessario fare è cercare di comprendere cosa sta accadendo — senza
cedere né all’euforia né alla paura — per riuscire a limitare gli aspetti
negativi e valorizzare quelli positivi. Per farlo, occorre uno sguardo critico
ma non distruttivo, capace di inserire l’innovazione in una visione più ampia
dell’umano. La direzione che prenderà la nostra civiltà dipende da come
penseremo la tecnica e da come la orienteremo verso fini umani.
Per come e stata realizzata, l’intelligenza artificiale rappresenta l’incarnazione del riduzionismo moderno. Che, nella sua struttura più profonda, porta a compimento quella separazione tra fede e ragione, tra significato e calcolo, che Joseph Ratzinger aveva individuato come una delle grandi questioni delle società avanzate. L’intelligenza artificiale è il trionfo della ragione che sa calcolare ma non sa interrogare i fini; che ottimizza i mezzi ma non sa decidere che cosa sia bene o giusto. Le macchine che oggi ci affascinano tanto non sono “cattive” — come a volte si tende a dire — ma hanno il problema di essere costruite esattamente in base ad un paradigma ben preciso: elaborare le informazioni, massimizzare l’efficienza, ridurre la complessità a dati manipolabili. Ecco allora la grande responsabilità che abbiamo, come comunità dei viventi, di fronte a questa svolta: se l’IA rappresenta la massima espressione della ragione strumentale, il nostro compito non è competere con essa, ma custodire e sviluppare tutto ciò che non è riducibile a questa logica.
C’è una parte del
pensiero umano che nessuna macchina potrà mai sostituire: quella che nasce
dall’esperienza vissuta, dalla relazione, dal dolore, dal desiderio, dalla
ricerca di senso. È il pensiero che si radica nel corpo, che si apre all’altro,
che si interroga sul perché e non solo sul come. Custodire questi aspetti
significa riconoscere e coltivare la dimensione spirituale. Come capacità di
aprirsi a ciò che eccede il calcolo e la rappresentazione. È infatti lo
spirito — componente essenziale del pensiero umano — ciò che ci mette
in relazione con l’alterità, sia nella verticalità del rapporto con ciò che
trascende — Dio, il mistero, l’assoluto, la verità — sia nell’orizzontalità
della relazione con gli altri esseri umani. Che poi si esprime nella capacità
di affezione e di compassione. È nell’esperienza spirituale che nasce la
possibilità di un pensiero generativo, di un’etica che non si limita a reagire,
ma è capace di creare, che non si riduce al codice, ma apre spazio alla
libertà.
Spingendoci a interrogarsi su che cosa significhi essere umani, l’intelligenza artificiale può dunque diventare l’occasione per imprimere una svolta inattesa alla vicenda moderna. Essa, infatti, ci costringe a ripensare il rapporto tra mente e spirito, tra sapere e saggezza, tra efficienza e senso. In un’epoca dominata da algoritmi che apprendono senza comprendere, sentiamo il bisogno di un’intelligenza del cuore, capace di riconoscere che la vita è più grande di ogni sistema logico. Custodire il pensiero non riducibile al calcolo significa custodire la libertà, la poesia, la speranza, la parola che apre mondi. Un compito che va coltivato sul piano personale e sviluppato su quello sociale: insieme dobbiamo capire i luoghi, le forme e le condizioni per curare l’attenzione, l’immaginazione, il desiderio. L’IA, dunque, non è un destino da subire, ma uno specchio che ci può aiutare a capire meglio chi siamo. E cosa possiamo diventare. Se la useremo come alleata per ampliare la nostra umanità, potrà aiutarci a costruire una civiltà più consapevole, più solidale, più giusta. Ma se ci lasceremo sedurre dall’illusione di poter delegare tutto alla macchina, rischieremo di perdere il senso stesso del vivere insieme.
In fondo,
la vera intelligenza — quella umana — non è quella che sa calcolare di più, ma
quella che sa amare meglio. Qualcosa che nessuna macchina sarà mai capace di
fare.
www.avvenire.it
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