accettiamo di vederlo,
incontrarlo, ascoltarlo.
Occorre riconoscere l’essere umano dietro a etichette come «povero» e «mendicante». Occorre dare voce a chi non ce l’ha e dare visibilità a chi è invisibile.
«Speranza invoco... per i
miliardi di poveri che mancano del necessario per vivere. Di fronte al
susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di
abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo
sguardo da situazioni tanto drammatiche, che si riscontrano ormai ovunque…
Incontriamo persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere
nostre vicine di casa» (Spes non confundit 15).
Le parole di papa Francesco operano un primo passaggio importante:
da una categoria a una persona, dai «poveri» al «povero della porta accanto». Che
le condizioni di indigenza materiale, relazionale, culturale, spirituale,
possano segnare pesantemente l’esistenza di una persona, è innegabile, ma
sforzo di chi si avvicina al povero è di ribellarsi a questa espropriazione
dell’identità per relazionarsi con una persona, un volto, un nome, una storia
precisa. I «miliardi di poveri», proprio per la smisuratezza a cui fanno
riferimento, restano una cifra che ci ammutolisce, che ci lascia con un senso
di impotenza e di ineluttabile. L’incontro con la concreta persona che ha perso
il lavoro, che non riesce a mantenere la famiglia, che è stata sfrattata, che
si trova nell’isolamento dopo una rottura coniugale, con il senza casa, con
l’immigrato…, ci tocca e interpella e può operare una trasformazione del nostro
cuore. Perché Cristo stesso ci visita nella carne del povero (cf. Mt 25,31-46).
Così vediamo un secondo
passaggio che papa Francesco indica: dal «povero» a «noi». Invece di
fare dei «poveri» un oggetto di discorso, occorre accettare di farci giudicare
da essi: la loro autorità escatologica (ancora Mt
25,31-46), pone in crisi il nostro comportamento nei loro confronti. E di
fronte a chi vive situazioni di deprivazione che attentano alla sua piena
umanità possiamo cadere nell’abitudine, nella rassegnazione e distogliere lo
sguardo. Altrove ha detto papa Francesco: «Non si tratta di buttare una moneta sulle
mani di quello che ha bisogno. A chi dà l’elemosina io domando: ‘Tocchi le mani
della gente o butti la moneta senza toccarle? Guardi negli occhi la persona che
aiuti o guardi da un’altra parte?”» (Messa per la VIII Giornata Mondiale dei
Poveri, 2024). Spesso abita in noi, inconfessata e inconfessabile,
l’idea del povero come segnato da una inferiorità, da una condizione di minore
umanità rispetto a noi. Per guarire da questa patologia occorre riconoscere
l’uomo dietro alle etichette: «povero», «rifugiato», «immigrato»,
«mendicante», «richiedente asilo»… Il che significa che non si tratta solamente
di dare aiuti economici o alimentari o logistici, ma anche tempo, ascolto,
presenza, parola. Cioè entrare in relazione. Perché il povero non è anzitutto
un povero ma una persona.
Resta la domanda per noi:
vediamo la persona che il povero è? Un episodio della
vita del poeta Rainer Maria Rilke dice che, quando abitava a Parigi,
ogni giorno usciva di casa e si imbatteva in una mendicante cui dava
regolarmente un’elemosina. Un giorno le diede non denaro, ma una rosa e la
povera donna si illuminò ed esclamò, piena di gioia: «Mi ha vista! Mi ha
vista!». Il rischio di un’azione in favore dei poveri che fa molto per l’altro
senza vederlo, è sempre in agguato. Il cardinal Martini, nella Farsi prossimo (n. 86), scrive che occorre
«dare una voce a chi non ha voce, scoprendo le forme sempre nuove di povertà
che stentano a farsi notare e a farsi soccorrere». Occorre dunque anche dare
visibilità a chi è invisibile. L’altro esiste quando accetto di vederlo,
incontrarlo, ascoltarlo. Ma spesso esso resta invisibile, come Lazzaro che giaceva alle porte della casa del ricco
che viveva nel lusso e non muoveva un dito per lui (Lc 16,19-31).
Il romanzo afroamericano
di Ralph Ellison Uomo invisibile si apre con queste parole scioccanti:
«Io sono un uomo invisibile… Sono invisibile perché la gente si rifiuta di
vedermi… Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quel che mi sta intorno, o
se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa,
insomma, tranne me… L’invisibilità di cui parlo...
dipende dalla struttura dei loro occhi interni, quelli cioè coi quali,
attraverso gli occhi corporei, guardano la realtà». Come dimenticare che fu
anche a partire dalla meditazione della parabola evangelica del «ricco e
Lazzaro» e dall’impressione profonda che produsse in lui, che Albert Schweitzer andò in Africa dove costruì
l’ospedale di Lambaréné (Gabon)? Egli, infatti, vedeva l’Africa come un povero
Lazzaro alle porte della ricca Europa. Il Vangelo ha aperto i suoi occhi e
portato Schweitzer a vedere e a toccare Cristo e a prendersene cura nei poveri.
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