sabato 7 ottobre 2017

Domenica 8 ottobre - UNA PARABOLA "DOLENTE"

           
È una parabola cupa, dolente, sanguinante, quella di oggi. Quasi insostenibile. Il cuore del racconto, però, è centrato sul figlio, non sulla punizione dei vignaioli omicidi: Gesù sta dicendo al suo uditorio che se i servi sono la prefigurazione, il figlio è il compimento. E che è lui il figlio inviato da Dio a riscuotere quanto dovuto. Il finale non è un abbandono, ma un nuovo inizio. Quella morte che tutto sembra distruggere non è che il trampolino per una nuova vita, per un inatteso riscatto. È ormai evidente a tutti che il suo destino è segnato: i suoi gesti eccessivi hanno suscitato l’ira dei capi dei sacerdoti. Come tutti gli idealisti, questa testa calda di galileo va fatto tacere ad ogni costo, prima che crei dei disordini e che i romani si riprendano, irritati, la relativa autonomia concessa alla capitale. Lo sa Gesù, non è un idiota. Sa bene che ha firmato la sua condanna a morte. E sta dicendo ai suoi assassini che la sua morte, la morte del figlio, si pone in continuità con la morte dei profeti, spesso uccisi proprio dagli uomini religiosi del loro tempo (Mt 23,29). Gesù non mette fine alle contraddizioni della storia. Si pone in mezzo. Le assume. Ne è travolto. Le redime e le riscatta. 
            Di questo parla la difficile parabola dei vignaioli omicidi. Follie L’idea di godere dei frutti della vigna senza pagare pegno mi sembra una bella costante della nostra inquieta e talvolta incomprensibile umanità. Così è il nostro mondo: vuole l’eredità senza avere a che fare nulla con il Padre. Gode dei frutti della vigna e non riconosce al proprietario ciò che gli è dovuto. Nemmeno il fatto di non essere noi i padroni del Creato. Anzi: vorremmo poter gestire la vigna senza rendere conto a nessuno. È l’impressione che ho quando vedo il nostro mondo occidentale, quello europeo, in specie, che ha fatto accomodare Dio alla porta, ma pretende di mantenere l’ordine sociale che da esso deriva. Immagine dell’umanità che non riconosce il proprio Creatore, il proprio limite, questa tragica parabola è la sintesi della storia fra Dio e Israele, fra Dio e l’umanità. 
          L’uomo non riconosce il suo Creatore, si sostituisce a lui: ecco il peccato di fondo, la tragica fragilità dell’essere umano, credere di essere autosufficiente, non nel senso nobile e vero di essere autonomo, senza dover rendere conto, misconoscendo il proprio limite. Ancora oggi accade così, in questi deliranti tempi in cui, invece di riconoscere la propria origine e la propria dignità, l’umanità pensa a come fregare il proprietario, nega l’evidenza della propria creaturalità, si perde nel delirio di onnipotenza di chi crede di manipolare l’origine della vita, il cosmo, la natura. Insomma: vogliamo un mondo equilibrato, fraterno, significativo e interessante, ma senza coinvolgere chi questo mondo l’ha voluto, ideato e creato. Buffo. Idiota. Il mondo non ci appartiene e nemmeno la vita ci appartiene, ma ci è donata e possiamo farla fiorire. Ancora Vorrei dire ancora qualche parola sulla pazienza di Dio che, ad un certo punto, finisce.......


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