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venerdì 1 dicembre 2023

VEGLIAMO, CON GIOIA

 

- Prima domenica di Avvento, 
anno di Marco

- Is 63,16-17.19/ 1Cor 1,3-9/ Mc 13,33-37

 - Commento di Paolo Curtaz

 Di notte

Il mondo non sta precipitando nel baratro, ma nell’abbraccio di un padre/madre di infinita tenerezza.

E non stiamo assistendo alla fine del mondo ma ci stiamo interrogando sul fine del mondo, sul senso che appare travagliato e oscuro dell’agire distruttivo degli uomini.

Uomini persi che non ammettono di essere persi, che vanno dell’arroganza e della violenza il proprio metro di giudizio.

Così, con felice ostinazione, benedetta costanza, inizia questo anno nuovo in compagnia di Marco. Un piccolo cammino di quattro settimane per prepararsi al Natale. All’ennesimo. Che per molti sarà una felice bolla di buoni sentimenti a acquisti per dimenticare l’insostenibile realtà, per addolcire la saturazione di male notizie e di drammi che logora e svilisce.

Ma noi, ma tu, ma io, non siamo della notte.

Vegliamo con le lampade accese, attendiamo lo Sposo e, qui e ora, lo annunciamo costruendo il Regno che è luogo in cui Dio regna, amando.

 Non siamo qui a far finta che poi Gesù nasce.

È venuto nella storia, tornerà nella gloria. Questo ci hanno detto gli apostoli e chi, dopo di loro, hanno costruito speranza. E ora, quest’anno, ancora, qui, viene nel cuore di ciascuno di noi, se lo vogliamo.

Perché la fede non è evento definitivo, acquisito per sempre, ma è costante allenaza, patto da rinnovare, amicizia da coltivare. Troppo forte.

Nella notte

Sarà un avvento diverso, perché io non sono più quello dello scorso anno. E ferite e gioie hanno segnato questo tempo. E guerre e paure ancora mi scuotono.

Sarà, per chi lo vorrà, occasione per prendere ancora in mano il timone della barca della propria vita, prendendo il largo. Sarà l’occasione per attendere. Per far nascere la speranza nei cuori, per innamorarsi della vita che ha avuto l’onore di vedere Dio diventare uno di noi.

Oggi, qui, in questo momento in cui tutto viene rimescolato, messo in discussione, amplificato.

Nel mondo straziato e nella Chiesa che sfida le onde.

Bella storia. Bella Storia. Una Storia che è salvezza.  Sarà un avvento di attesa.

Di senso, di salvezza, di bene, di pace, di abbracci sinceri, di rispetto. Di Dio.

Ma ad una condizione: quella di restare svegli.

Servi e portinai

La parabola di oggi è di immediata comprensione: il padrone di casa, il Signore Gesù, è assente ma tornerà nella gloria. In questo tempo di mezzo, fra la storia e la gloria, affida a noi, suoi servi, il compito di vigilare, di costruire brandelli di Regno, di annunciare la sua venuta.

Una venuta che, come meglio bisognerebbe tradurre, non avviene alla fine della notte, ma continuamente.

Lo aspettiamo nella gloria, il Cristo, ma anche nella vita di ciascuno di noi, qui, ora, oggi.

Ai servi è affidato ogni potere. Sciocco di un Cristo. Ingenuo! Come se davvero fossimo in grado di gestire il potere d’amore che ha inaugurato! Eppure, accade proprio così: a queste fragili e sudicie mani il Signore affida il suo Vangelo. Come un tesoro custodito in vasi creta. A noi, servi inutili.

E ai portinai, a coloro, cioè, che hanno maggiori responsabilità, quella di aprire la casa, la Chiesa, la comunità, a chi cerca il Signore, chiede di vigilare ancora di più, con maggiore convinzione e sforzo. Quanto è terribile vedere portinai ignavi, impigriti, imborghesiti, sedersi al posto del padrone! Quanto è bello, pur con fatica, vedere una Chiesa che si interroga su come rimanere fedele a Cristo! Quanto scandalo suscitiamo quando dimentichiamo chi siamo veramente! Servi inutili.

Nella notte

Viene nella notte, il Signore, lo Sposo.

Noi, come le ragazze coraggiose delle scorse domeniche, sfidiamo ogni notte con una piccola fiammella in mano. Sfidiamo questa notte fatta di incertezza e di paura, di venti di guerra e di autocrazie, di comunità azzoppate e sbandate, proprio come fanno quelle ragazze. Ragazze coraggiose.

Non proprio come facciamo noi.

Che accampiamo mille scuse alla realizzazione della nostra felicità. Se fossi, se avessi, se potessi…

Non abbiamo tempo o opportunità o cultura sufficiente per essere felici. Meglio maledire il buio, meglio rannicchiarsi in un angolo tappandosi le orecchie.

Sì, certo, è buio fitto. Basta guardarsi intorno per capirlo. Per vedere il tasso di violenza, nelle parole, nei pensieri, che attanaglia le persone, tutte rabbiose con tutti, tutti convinti di essere vittime di qualcuno. Non è così, smettiamola di nasconderci dietro ad un dito.

C’è chi maledice la notte. C’è chi accende una luce. Chi attende un aiuto. Come i deportati in Babilonia.

Se tu squarciassi il cielo e scendessi!

Il lamento straziante sale dalla bocca di uno degli autori del libro del profeta Isaia, in esilio dopo la durissima sconfitta contro Nabucodonosor. Nessuna speranza all’orizzonte, nessuna possibilità di riscatto, solo l’amarezza dell’esilio e della schiavitù.

Per la prima volta nella Bibbia, il Dio dei patriarchi viene invocato col titolo padre.

Titolo che non veniva usato perché comune nell’invocazione pagana alle proprie divinità.

Ma ora non c’è più remora, né timore di essere ambigui. Non c’è più il tempio, né la città santa, né il re. Tutto è perduto. Solo sale quell’invocazione fatta quasi sottovoce, una immensa ricerca di salvezza, un grido silente. Se tu squarciassi il cielo e scendessi!

Un grido che ancora sale da questa terra d’esilio in cui siamo. Un grido di avvento mentre ci prepariamo a celebrare la nascita di Cristo in ciascuno di noi, nell’attesa del suo ritorno definitivo.

Pregare

Come restare desti? Come nutrire la nostra anima? Come riempire d’olio le lampade che si consumano?

Nell’orto degli ulivi, ai discepoli oppressi dal sonno e dalla tristezza, Gesù chiede di pregare.

Una preghiera che è intimo dialogo col Padre, che è relazione fiduciosa ed appassionata con lui, che è nutrimento dell’anima nel silenzio della lettura orante della Parola di Dio.

Ciò che cercheremo di fare in questo ennesimo avvento, in questo breve tempo in cui cercheremo di sostenerci a vicenda, incoraggiandoci, restando svegli.

Perché, purtroppo, anche lo stravolgimento di senso che abbiamo operato nei confronti del Natale rischia di essere un anestetico. Mortale.

E nella preghiera, come un mantra, ripetiamo quanto abbiamo udito dalla Parola:

 Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.

Vegliamo allora, noi, che aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 

Ci siamo scoperti amati, e l’amato attende l’amante. Ogni giorno.

Vegliamo! Con gioia.

 Immagine

Cercoiltuovolto

 

 

martedì 3 ottobre 2023

QUANDO ARRIVA L'INSONNIA

 


Mi sono improvvisamente svegliato dal sonno che è l'allenamento all'eternità e alla fratellanza. Infatti, tutti insieme, nell'emisfero in ombra, sprofondiamo nel silenzio orizzontale, e la coscienza, finalmente sottratta ai travagli diurni, riposa in pace, non per morire, ma per avere più vita.

 -        di Alessandro D’Avenia

 Da questo silenzio che rende tutti semplici mi ha svegliato l'ansia dell'indomani che voleva impormi in anticipo le sue parole, obblighi e maschere. Tutto era immobile, e potevo sentire un solo rumore: quello del cuore della notte (del giorno, infatti, non diciamo che abbia un cuore). Persino la città lo ascolta, spegnendo rumori di corpi e macchine, di desideri e necessità. Nelle case accadevano poche cose essenziali: amori, solitudini e incontinenze, ma non riuscivo a distinguere le gioie dei primi, le richieste d'aiuto delle seconde, gli sciacquoni delle terze. Stavo a occhi aperti nel buio screziato dai fanali che filtravano dalle persiane, come le paure e i pensieri nella mente, e supplicavo che il sonno tornasse. Il problema di un'insonnia è la disfatta del giorno dopo: la stanchezza duplicata con cui dovremo affrontare proprio ciò che ci sta imponendo l'allerta e per cui dovremmo invece prepararci con un sonno ristoratore. Eravamo allora in tre: la notte, l'ansia e io. Chi avrebbe avuto la meglio?

 C'è stato un tempo in cui, bambino, ero all'altezza del sonno: senza incombenza altra che assecondare i ritmi del corpo, naturali come il giorno e la notte. Non c'erano schermi retroilluminati, lavoro diverso dal vivere, carriere da costruire, maschere da mostrare, burocrazie da sconfiggere, ma solo la pace dell'essere chi si è nel grande gioco del mondo, con l'unico desiderio di partecipare e trovare gioia nelle cose. Rimpiango quel sonno tutte le volte che vedo un neonato precipitare in pochi istanti in un sonno inscalfibile.

 Nella vita poi arrivò la necessità di illuminare la notte per interrogazioni e prove per le quali non mi sentivo mai abbastanza pronto. Fu allora che capii che diventare adulti è solo cominciare a perdere il sonno. E poiché il sonno perso è perso per sempre (forse la morte sopravviene per il troppo sonno perduto), ne deve valer la pena. Infatti, persi il sonno per il dolore di chi mi era vicino, un dolore che mi costringeva a rimanere sul chi vive.

 Poi non ho dormito quando mi sono innamorato, dicevo il nome di lei come una litania, quasi che la ripetizione potesse accorciare la distanza o l'attesa. Non c'erano ancora i cellulari ma solo i citofoni, e così il desiderio e l'azione erano ben allenati dall'assenza, mentre i messaggi li riempiono di pigrizia, ambiguità e malintesi. Non ho dormito anche perché ho letto (ho sempre pensato alla camera da letto come la stanza in cui si è molto a letto, ma anche in cui si è letto molto). Non ci sono libri più belli di quelli che strappano il sonno, e credo che dovremmo provare a ricordare quali ci sono riusciti perché, quando le parole sono più forti dell'istinto di sopravvivenza che ci chiede riposo, allora quelle parole rispondono a un istinto più radicale di quello di non volere morire, che è quello di voler nascere. Quando ero ragazzino fino a tarda notte leggevo i fumetti: storie di paperi in cerca di avventure, di Galli che difendevano il villaggio dall'invasore, di supereroi che salvavano qualcuno dal male, perché in fondo nel cuore di un uomo questi sono tre i verbi dell'essere vivi: avventurarsi, lottare, salvare. Crescendo sono diventati altri i libri notturni, di età in età, ma coniugavano sempre quei tre verbi strappa-sonno.

 Mi sono rammaricato quando le immagini del cellulare hanno cominciato a contendersi le pagine, ad accendere la notte con uno schermo retroilluminato, che ci eccita, al contrario della luce riflessa sulla pagina che prima o poi ci consegna alla pace. E poi non ho dormito per conoscere le lacrime, le carezze, le paure, gli abbracci, gli abbandoni e i ritrovamenti di corpo e spirito, mie e altrui. Ma l'insonnia di quella notte era solo l'ansia del futuro che si mostra nel frustrante rigirarsi al ritmo dell'inquietudine.

 E allora ho cercato di accogliere il presente: se il cuore della notte era lì, allora c'era qualcosa da ricevere. La notte più lunga della letteratura è quella che Ulisse e Penelope passano insieme dopo essersi ritrovati, hanno così tante cose da dirsi e darsi che la dea Atena interviene per allungare il corso delle tenebre. Questo è il cuore della notte: un momento di verità. E la verità è che di giorno respiriamo male e la vita che viviamo ci sta stretta. Nel cuore della notte non si può fare o dimostrare nulla, si è chi si è e si è costretti al faccia a faccia, non si può fuggire, a meno di accendere il cellulare (che ucciderà quel cuore). È il momento di riconoscere ciò che ci soffoca nella vita diurna, per accoglierlo o lasciarlo andare.

 La prima cosa che Ulisse confida a sua moglie in quella notte è ciò che gli pesa di più: sa come morirà. Deve dirlo a qualcuno, altrimenti come potrà dormire? E così le racconta tutta l'Odissea e dopo si concedono l'amore che li fa scivolare poi nel sonno. Per questo è fatto il cuore della notte, per trovare il proprio cuore e quello di chi ci ama, a cui confidare che cosa ci fa morire, l'odissea che stiamo attraversando, per poter ricevere e dare l'amore che vince la morte. E allora quelle ore di veglia non sono state sottratte al sonno, ma guadagnate alla semplicità della vita.

 Così ho scoperto il cuore della notte e non una notte senza cuore. Ero stanco, ma ero salvo.

 Alzogliocchiversoilcielo

sabato 6 agosto 2022

ESTOTE PARATI

Il Vangelo della XIX domenica C commentato da Paolo Curtaz.-

 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. Perché, dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro! Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo». Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. Ma se quel servo dicesse in cuor suo: “Il mio padrone tarda a venire”, e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli. Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà riceverà molte percosse; quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più».

 Non temere piccolo gregge!

La Parola forte e rassicurante di Gesù, in questa domenica, ci raggiunge nella nostra estate infuocata e rissosa, lamentosa e banale, rassegnata e spensierata, e ci aiuta ad orientare la vita, a ridarle senso, vigore, speranza.

Non temere piccolo gregge! Sì, siamo un piccolo gregge, siamo pochi, ma scegliamo di avere un pastore solo, il pastore bello che sa dove condurci, che, diversamente dai mercenari, è interessato a noi per ciò che siamo, non per ciò che produciamo.

Non temere piccolo gregge! Non abbiamo paura, anche se facciamo fatica (quanta!) nel non perdere la speranza. Ma ci fidiamo, abbiamo fede, come padre Abramo, come Sara, perché ci siamo scoperti agapetoi, amati, e abbiamo scelto di amare. La fiducia nasce dall’esperienza: abbiamo conosciuto quanto il Signore Gesù ci ama.

 Sappiamo che ha dato la vita per noi. Perché Dio ama di un amore libero e liberante, vitale e vivificante, concreto e quotidiano. Non dobbiamo temere perché al Padre è piaciuto donarci il Regno.  i è stato regalato, donato, senza condizioni, gratuitamente.

Perché Dio è così: dona. E dona sé. Il Regno è là dove Dio regna, là dove dimora la sua presenza di luce e di pace.

Ma per accorgerci della sua presenza, per non lasciarci travolgere dalla paura, per scoprire davvero che il Regno è in mezzo a noi, è già qui, dobbiamo vivere da persone libere e dobbiamo vegliare.

 Buoni amministratori

Facciamoci due conti in tasca, serenamente e seriamente. Guardiamo per cosa vale la pena di vivere, dove stiamo investendo tempo ed energia, risorse e qualità, nella nostra vita. Se il Vangelo è solo un’appendice (sana e santa) all’interno della nostra quotidianità o se, invece, ha cambiato il nostro modo di vedere.  Il tempo che stiamo vivendo è un tempo di mezzo, nell’attesa che il Signore della gloria torni.

A noi, qui e ora, Dio affida la gestione del Regno, per renderlo presente, per vivere come figli di Dio. Le nostre comunità, allora, diventano succursali del Regno, pagine pubblicitarie dell’umanità nuova perché riconciliata, profezia di un mondo nuovo.

Anche se non siamo capaci, anche se non siamo degni, anche se zoppichiamo. Perciò facciamo Sinodo: per chiederci con franchezza evangelica se il modo che abbiamo di annunciare sia il miglior modo, oggi, per dire di Dio.

Estote parati

State pronti, ammonisce Gesù.   Pronti a viaggiare, pronti a mettere in discussione ogni risultato, ogni certezza, tanto più se derivante dalla fede e dalla religiosità. Se abbiamo capito che il nostro cuore è fatto per l’infinito e l’infinito cerchiamo, stiamo pronti a cercare all’infinito. È il salubre atteggiamento del discepolo, la consapevolezza del “già e non ancora”. Già conosco Dio, eppure non lo possiedo ancora.

Già ho vissuto una splendida esperienza affettiva, eppure so che nessun amore colma il mio cuore definitivamente. Già ho scoperto, alla luce del Vangelo, quanta grazia e luce interiore ricolmano il cuore, ma ancora vivi momenti di sconforto e di buio. Già ho capito chi sono, ma ancora non so chi sarò.

Una tensione sana, bella, che ci conduce all’essenziale, che ci stacca dalla pesantezza della quotidianità, che ci restituisce al realismo.

State pronti, ci chiede il Maestro. E noi vegliamo nella notte. Questa notte della Storia. Ogni notte. Scrutando l’Oriente, aspettando l’aurora. Quanta fede ci chiedi, Signore!

Nomadi

Come Israele, le cui gesta, enfatizzate e mitizzate, abbiamo letto nella prima lettura, anche noi siamo chiamati ad uscire dalla schiavitù, da ogni schiavitù, per imparare, nel deserto, a fidarci di Dio. Schiavi dell’idea che abbiamo di noi stessi, schiavi e preoccupati dell’immagine che dobbiamo restituire agli altri, schiavi dei finti bisogni che la pubblicità ci suscita, possiamo riscoprire, alla luce della parola, che o l’uomo è cercatore o non è, o l’uomo è mendicante o non è. O l’uomo è in cammino interiore o non è. Che la vita, che ogni vita, è progressiva liberazione interiore. Quanta fede ci chiedi, Signore!

Abramo ascolta la sua voce interiore.

Non è un giovane preso da deliri mistici: è un uomo realizzato, non travolto da impetuose passioni. Egli è l’uomo provato dalla vita, disilluso e che – pure – sente un appello irrefrenabile all’interiorità. Vai, sente nel cuore, Vai a te stesso.

Folle Abramo che lascerà ogni certezza e ruolo sociale per seguire un istinto interiore, per ritrovare se stesso! E questo suo gesto sarà immensamente fecondo: egli è il padre di tutti i cercatori di Dio.

Vai a te stesso, amico lettore, scopriti viandante, sul serio. Anche se pensi di avere vissuto a sufficienza, o troppo sofferto, o fatto le tue scelte. Siamo tutti straordinariamente liberi, resi capaci di iniziare percorsi nuovi anche quando tutto sembra deciso, sbagliato, irremovibile. Vai a te stesso.

L’Attesa

La vita, allora, diventa inquieta (e felice) attesa, l’attesa del ritorno, l’attesa dell’incontro del padrone che torna dalle nozze.  Attesa: la mia vita, la tua vita è attesa.

Di un senso, del superamento del tuo dolore, della chiave per capire la tua vita, di una persona da amare, di un figlio da stringere e baciare, di un mondo migliore, della luce infinita che illumini le tue paure, di Dio.

Attesa.  L’uomo è l’unico essere vivente capace di attendere, di vegliare, di insistere, di credere.  Nella notte, spesso, nel lungo e corposo silenzio della notte, sentiamo crescere la nostra fede, abbandonarsi il nostro cuore, capiamo cosa ci è essenziale. Nella notte, come le sentinelle che aspettano l’aurora, diventiamo dei credenti, dei discepoli.  Quando le ginocchia vacillano, quando la fatica è tanta, quando ci sembra di non farcela ad attendere, quando la disperazione fa pressione alla porta del cuore, possiamo guardare ai testimoni, guardare ai padri della fede, ai tanti, tantissimi che hanno, come noi creduto nella notte, e visto la luce, infine.

La fede è questo misterioso già e non ancora, questo silenzio assordante, questa notte luminosa.

Vegliamo, dunque.

Amati. amando.


Paolo Curtaz

 

sabato 28 novembre 2020

VEGLIATE !

 

Il commento al Vangelo di domenica 29 Novembre 2020 –

- Dal Vangelo secondo Marco – Mc 13,33-37

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 COMMENTO DI P. PAOLO CURTAZ

“Il Cenone di Natale? Un suicidio”. “Si lavora per salvare il Natale che sarà comunque a distanza”. “Con questi morti il Covid è lunare”.

Non c’è da stare allegri, nel leggere i titoloni dei giornali che ogni giorno devono in qualche modo farsi strada nelle nostre menti assuefatte per innalzare la soglia dell’attenzione (e della paura). Quindi il problema sarà che, con ogni probabilità, salterà il Cenone di Natale.  Rileggo e non so se mettermi a ridere: il Cenone di Natale. 

Penso ai tantissimi che in questi anni mi hanno comunicato il loro disagio all’idea di vivere da soli quel momento, o in compagnia di persone sopportate con fatica. Penso al tanto dolore oscuro che quel magnifico evento, il Natale, non il Cenone, suscita in coloro che vengono travolti dal clima forzatamente festoso che li attornia. Penso a quante volte ho invitato a guardare ai troppi che vivono il giorno di Natale come al peggior giorno dell’anno…

E, birichino, ho anche vagheggiato di una moratoria sul Natale, proponendo di sospenderlo per qualche anno. Sospendere quel Natale, fatto di apparenza e di illusione.

Per riappropriarci del Natale. Buffo: forse accadrà, allora.  Forse, sul serio, quell’antipatico del signor Covid, dopo averci costretto a celebrare la Pasqua in casa, come sapevano fare le comunità primitive, dopo averci resi tutti cattolici non praticanti per qualche mese, riscoprendoci, infine, cercatori di Dio, ci obbligherà anche a lasciar stare pacchi e pacchetti, luci e lustrini, per andare di notte a Betlemme. Troppo forte.

Nella notte

Sarà un avvento diverso, come diversa è stata la quaresima e il tempo di Pasqua. Sarà, per chi lo vorrà, occasione per prendere ancora in mano il timone della barca della nostra vita, prendendo il largo. Sarà l’occasione per attendere. Non per far finta che poi Gesù nasce, perché il Signore è nato nella Storia e tornerà nella gloria, ma per farlo nascere in noi. Oggi, qui, quest’anno di pandemia, questo momento in cui tutto viene rimescolato, messo in discussione, amplificato.

Bella storia. Bella Storia. Una Storia che è salvezza.  Sarà un avvento di attesa.  Di attesa di normalità, di attesa di abbracci e baci, di lunghe serate e ridere e scherzare, di amici che se la raccontano, di fratelli e sorelle nella fede che cantano nella notte davanti ad una icona. Sarà un avvento di attesa. Di senso, di salvezza, di bene, di Dio. Ma ad una condizione: quella di restare svegli.

Servi e portinai

La parabola di oggi è di immediata comprensione: il padrone di casa, il Signore Gesù, è assente ma tornerà nella gloria. In questo tempo di mezzo, fra la storia e la gloria, affida a noi, suoi servi, il compito di vigilare, di costruire brandelli di Regno, di annunciare la sua venuta.  Una venuta che, come meglio bisognerebbe tradurre, non avviene alla fine della notte, ma continuamente.  Lo aspettiamo nella gloria, il Cristo, ma anche nella vita di ciascuno di noi, qui, ora, oggi. Ai servi è affidato ogni potere. Sciocco di un Cristo. Ingenuo! Come se davvero fossimo in grado di gestire il potere d’amore che ha inaugurato! Eppure accade proprio così: a queste fragili e sudicie mani il Signore affida il suo Vangelo. Come un tesoro custodito in vasi creta. A noi, servi inutili.

E ai portinai, a coloro, cioè, che hanno maggiori responsabilità, quella di aprire la casa, la Chiesa, la comunità, a chi cerca il Signore, chiede di vigilare ancora di più, con maggiore convinzione e sforzo. Quanto è terribile vedere portinai ignavi, impigriti, imborghesiti, sedersi al posto del padrone! Quanto scandalo suscitiamo quando dimentichiamo chi siamo veramente! Servi inutili.

Nella notte

Viene nella notte, il Signore, lo Sposo. Noi, come le ragazze coraggiose delle scorse domeniche, sfidiamo ogni notte con una piccola fiammella in mano. Sfidiamo questa notte fatta di incertezza e di paura, di lugubri ombre e di amici e famigliari morti in solitudine, di comunità azzoppate e distante, proprio come fanno quelle ragazze. Ragazze coraggiose.  Non proprio come facciamo noi. Che accampiamo mille scuse alla realizzazione della nostra felicità. Se fossi, se avessi, se potessi…

Non abbiamo tempo o opportunità o cultura sufficiente per essere felici. Meglio maledire il buio, meglio rannicchiarsi in un angolo tappandosi le orecchie. Sì, certo, è buio fitto. Basta guardarsi intorno per capirlo. Per vedere il tasso di violenza, nelle parole, nei pensieri, che attanaglia le persone, tutte rabbiose con tutti, tutti convinti di essere vittime di qualcuno. Non è così, smettiamola di nasconderci dietro ad un dito.

C’è chi maledice la notte. Chi accende una luce. Chi attende un aiuto. Come i deportati in Babilonia. Se tu squarciassi il cielo e scendessi! Il lamento straziante sale dalla bocca di uno degli autori del libro del profeta Isaia, in esilio dopo la durissima sconfitta contro Nabucodonosor. Nessuna speranza all’orizzonte, nessuna possibilità di riscatto, solo l’amarezza dell’esilio e della schiavitù.

Per la prima volta nella Bibbia, il Dio dei patriarchi viene invocato col titolo padre.  Titolo che non veniva usato perché comune nell’invocazione pagana alle proprie divinità. Ma ora non c’è più remora, né timore di essere ambigui. Non c’è più il tempio, né la città santa, né il re. Tutto è perduto. Solo sale quell’invocazione fatta quasi sottovoce, una immensa ricerca di salvezza, un grido silente. Se tu squarciassi il cielo e scendessi! Un grido che ancora sale da questa terra d’esilio in cui siamo. Un grido di avvento mentre ci prepariamo a celebrare la nascita di Cristo in ciascuno di noi, nell’attesa del suo ritorno definitivo.

Pregare

Come restare desti? Come nutrire la nostra anima? Come riempire d’olio le lampade che si consumano? Nell’orto degli ulivi, ai discepoli oppressi dal sonno e dalla tristezza, Gesù chiede di pregare. Una preghiera che è intimo dialogo col Padre, che è relazione fiduciosa ed appassionata con lui, che è nutrimento dell’anima nel silenzio della lettura orante della Parola di Dio.

Ciò che cercheremo di fare in questo ennesimo avvento, in questo breve tempo in cui cercheremo di sostenerci a vicenda, incoraggiandoci, restando svegli. Perché, purtroppo, anche lo stravolgimento di senso che abbiamo operato nei confronti del Natale rischia di essere un anestetico. Mortale. E nella preghiera, come un mantra, ripetiamo quanto abbiamo udito dalla Parola: Mai si udì parlare da tempi lontani, orecchio non ha sentito, occhio non ha visto che un Dio, fuori di te, abbia fatto tanto per chi confida in lui.

Vegliamo allora, noi, che aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. 

 

Cerco il tuo volto

 

sabato 1 dicembre 2018

STATE ATTENTI A VOI STESSI, VEGLIATE E PREGATE

Prima domenica di Avvento, anno di Luca Ger 33,14-16/salmo 24/1Ts 3,12-4,2/ Lc 21,25-28.34-36

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 21,25-28.34-36
 «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

È una Creazione al contrario quella che Luca descrive all’inizio di questo nuovo anno liturgico, in questa prima domenica di avvento. La Genesi, in un linguaggio poetico e parabolico, aveva raccontato il passaggio dal caos all’armonia, qui, Luca, in un linguaggio denso di immagini e di visioni, chiamato apocalittico, descrive il passaggio dall’armonia al caos. Quello che sta vivendo la sua comunità, fragile vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro, apparentemente travolta dai grandi eventi dell’Impero, dalle guerre, le lotte di potere, le migrazioni, le carestie. Quello che stiamo vivendo noi, in una infinita litania di lamentele, di degrado, di violenza e incomprensione crescente, di problemi mondiali irrisolti, dal clima al lavoro, in un tempo in cui le guerre sono riapparse e mietono vittime in vari angoli della terra. Dalla Creazione al caos.
Questo sta accadendo, certo. O questo è ciò che pensiamo. E che l’uomo pensa da sempre. In ogni epoca. In ogni istante. In ogni vita. Non è una novità, lamentarsi. Aspettarsi il peggio. Non sta in questo la novità del Vangelo. Non ci uniamo, anche noi cristiani, all’infinita schiera dei lamentosi di professione. Anzi. Alzate il capo Luca, simpatico, entra in scena all’inizio di questo avvento sparigliando le carte, ribaltando al tavolo, prendendoci amabilmente per il naso, irridendo il nostro atteggiamento tutto compito serioso, preoccupato, che tanto amiamo indossare. Niente scene di panico, niente sparuti gruppi di fedeli chiuse nelle sacrestie in attesa della fine del mondo, macché. Niente siti apocalittici di devoti ultimi difensori della fede, di criticoni ammantati di invii divini. È normale che il mondo sia sempre in bilico. Che lo siamo anche noi. In bilico su un abisso, in bilico sul caos. In fondo non era esattamente quello che Dio ha voluto creando l’Universo? Dare un ordina al caos, senza distruggerlo? Orientarlo? E non era il compito che ha affidato a quell’umano fatto a sua immagine? Continuare a creare?
Quindi, poche storie, quando si costruisce una casa è normale che manchino le finiture, che ci siano tanti mattoni in giro, che certe cose ancora non si vedano pulite e linde. I lavori sono in corso, altro che storie. E davanti a tutti questi eventi, dice Gesù, non lasciamoci prendere dal panico. Alziamo il capo. Perché il tempo gioca a nostro favore. La storia è quella che è. Un insieme di eventi foschi e di meraviglie. L’uomo è quello che è, un miscuglio di fango e Spirito divino. Di cosa ci stupiamo? Andiamo oltre l’apparenza. Dio viene. Lavori in corso Dobbiamo agire, però. Mica stare con le mani in mano. Lavorare e sodo. Gesù ci dice anche cosa fare: tenere i cuori leggeri, non lasciare che si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e preoccupazioni. Evitiamo di caricare la vita, voliamo alto, teniamo il pensiero e l’anima al di sopra del caos. Non sprechiamo il tempo, le emozioni, i pensieri.
Quel poco che abbiamo, che portiamo nel cuore, non dissipiamolo. Custodiamo i nostri pensieri, teniamo in mano saldamente il volante della nostra vita sapendo dove orientare la nostra auto interiore. Non stordiamoci con ubriachezze, con illusioni, con eccessivi rumori, con illusioni. Non cediamo alle tante sirene che in ogni modo tentano di venderci la felicità. Restiamo lucidi. La vita porta con sé affanni, preoccupazioni, cose da fare, problemi da risolvere, ovvio. Ma non possono occupare tutto il nostro spazio interiore, non posso avvelenare tutto quello che siamo. E questo lo possiamo fare solo alzando lo sguardo. Un mese Per prepararci al Natale, per fare spazio a Dio, senza giocare con le emozioni sdolcinate ma consapevoli che Cristo continuamente chiede di entrare nella nostra vita, di nascere nelle nostre scelte quotidiane. Ci sta, bene, e oggi partiamo col turbo. Non nascondiamoci dietro la preoccupazione di un mondo che si sfascia. Non accampiamo scuse alla nostra evidente brontolaggine, non poniamo condizioni alla felicità. Consapevolezza, questo ci vuole.

Gerusalemme sarà ribattezzata Signore nostra giustizia, cioè il Signore è riuscito a infondere in noi la giustizia. Così Geremia incoraggia quanti sono tornati dall’esilio e hanno trovato solo macerie e si scoraggiano, sapendo che non riusciranno a vedere la ricostruzione della città e del tempio. Ci vorrà del tempo, e tanto, per vedere ricostruita Gerusalemme. Ci vorranno secoli e la venuta del Messia. Ma Geremia ci indica una chiave di lettura, un orizzonte, un altrove. No, il mondo non sta precipitando nel caos, come dicevano domenica scorsa, ma fra le braccia di Dio. Lo credo, lo vivo con fatica, combatto per costruire spazi di Regno nel caos, occasioni di luce nelle tenebre, ordine in me e dove vivo.

p. Paolo Curtaz in CERCO IL TUO VOLTO

venerdì 1 dicembre 2017

LA VEGLIA, IL DESIDERIO, LA RESPONSABILITA'

33 Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. 
34 È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 
35 Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; 
36 fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. 
37 Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!    Marco 13, 33-37

A
nno dopo anno la chiesa ci invita a vivere l’occasione di grazia che è l’Avvento.
      Ma l’Avvento è dell’Altro. A noi appartiene l’attesa. E l’attesa è costitutiva della nostra umanità. Ci ricorda che non ci diamo da noi, che non ci basta quello che abbiamo e quello che siamo. L’aspettare qualcosa e aspettare qualcuno ci strappa alla nostra finitudine e ci proietta nella relazione e nella sua cura. Lì perseguendo insieme l’ umanizzazione personale e comunitaria costruiamo lentamente il regno.
    Questi quattro versetti di Marco hanno una collocazione particolare: precedono di fatto il racconto della passione e chiudono il discorso escatologico di Gesù, destinato ad accompagnare i suoi oltre la sua prossima morte sino all’orizzonte finale della storia terrena. Due piani, l’esplicito e l’implicito sullo sfondo, vi si intrecciano: Gesù parla della rovina del Tempio e il pensiero corre alla sua personale rovina. Parla di persecuzioni future ai suoi, e dà per scontata la grande persecuzione che a momenti lo investirà. Si riferisce ai turni di guardia romani nella notte (v. 35) e vi legge le tappe del prossimo abbandono dei suoi.
     Ecco allora l’invito pressante a un’attesa che coniughi l’assenza con una nuova forma di presenza. Un dono, non una minaccia, un tornerò, non un addio, ma seriamente impegnativi.
    Ha appena parlato, infatti, sempre nel linguaggio apocalittico, della beatitudine promessa: 26Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Egli … radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo … 32Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.
     È risposta ai discepoli, che all’inizio del discorso gli hanno chiesto quasi privatamente: quando? (v. 13,4).
    Oltre il legittimo interesse a conoscere la data di un evento così decisivo si legge il desiderio di tenere sotto controllo i fatti e, se possibile, di governarli. Ci si arma a fronte di un pericolo. Invece la paradossale logica evangelica ci chiede il disarmo totale e l’abbandono fiducioso. Anzi, poiché ignoriamo il quando, tutte le forze devono essere concentrate nell’attesa vigilante, perché il kairòs, il momento di grazia della parousia, non ci sfugga.
    E qui la breve allegoria riprende il tema, caro ai sinottici, di un Gesù che si allontana lasciando agli uomini il governo della sua casa, a ciascuno un compito, nell’attesa del suo ritorno; in continuità con il racconto del Genesi in cui il Signore affida ad Adamo il giardino da coltivare (Gn 2,15), non da proprietario ma da custode.
    Se tutto il discorso escatologico era centrato sulla dissoluzione finale delle strutture di potere, il tempio, i regni, le nazioni, ora la prospettiva è la casa, il luogo comunitario inappropriabile, perché appartiene al Signore. E ancora luogo della responsabilità, dell’operatività sinfonica che risponde a una delega dell’autorità, più che del potere (v.34), termini con cui traduciamo il greco exousia. Il potere, infatti, si accompagna spesso nella storia all’arbitrio, mentre l’autorità, quella che è riconosciuta, fa crescere. È quella personale di Gesù, che dà sostanza a un messaggio di liberazione totale (v.1,27).
    Anzi, la partecipazione all’exousia di Cristo, fuor di metafora, allude alla partecipazione allo Spirito, che pur unico, distribuisce i suoi doni, i suoi carismi, a ciascuno in forma personale, per il bene comune, sovranamente libero dentro e fuori la comunità.
    Questo è allora il cuore del messaggio: vivere l’attesa convinti che nella ferialità dimessa o nell’eccezionalità della vita, aldilà delle sofferenze e dentro le sofferenze, un’offerta di amore sempre ci raggiunge con possibilità inedite e sorprendenti di realizzazione. Al nostro lavoro resta ancora affidata la creazione perché giunga a compimento, mentre la cosmogenesi continua tuttora attraverso l’irradiazione di sempre nuove energie. Se la casa comune è lo spazio dell’attesa, il tempo sarà il personale ritmo di appropriazione di queste energie (C. Molari). Ma a patto di aprire gli occhi, di vivere la profondità e non la superficie degli avvenimenti e delle relazioni, in una parola di vegliare, disponibili ad accettare e lasciare fiorire le sorprese di Dio.
Altrove ha promesso che lui è con noi, in noi, in mezzo a noi. Ma qui ci chiede come viviamo noi l’attesa del suo ritorno, vivendo già la sua compagnia. La riunione dei santi comincia qui, nella casa comune; la comunione col Padre è anticipata nella comunione tra i fratelli; ogni giorno ordinario contiene già il giorno del Signore.
     Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate! Essere trovati desti nell’amore, tanto nel desiderio quanto nel servizio operoso, è la scommessa finale che tutti ci investe, senza preclusioni e confini. In questo periodo il giorno si fa breve e le tenebre dilatano il loro tempo. Anche la natura anela alla luce e la desidera. I riti pagani e neopagani del solstizio d’inverno ce lo ricordano. Ecco, per tutti, il desiderio è la chiave dell’attesa.

Raffaela Bignola, in www.tuttavia.eu