33 Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento.
34 È
come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato
il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al
portiere di vegliare.
35 Vegliate
dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla
sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino;
36 fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
37 Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate! Marco 13, 33-37
A
nno dopo anno la chiesa ci invita a vivere l’occasione di grazia che è l’Avvento.
Ma
l’Avvento è dell’Altro. A noi appartiene l’attesa. E l’attesa è
costitutiva della nostra umanità. Ci ricorda che non ci diamo da noi,
che non ci basta quello che abbiamo e quello che siamo. L’aspettare
qualcosa e aspettare qualcuno ci strappa alla nostra finitudine e ci
proietta nella relazione e nella sua cura. Lì perseguendo insieme l’
umanizzazione personale e comunitaria costruiamo lentamente il regno.
Questi
quattro versetti di Marco hanno una collocazione particolare: precedono
di fatto il racconto della passione e chiudono il discorso escatologico
di Gesù, destinato ad accompagnare i suoi oltre la sua prossima morte
sino all’orizzonte finale della storia terrena. Due piani, l’esplicito e
l’implicito sullo sfondo, vi si intrecciano: Gesù parla della rovina
del Tempio e il pensiero corre alla sua personale rovina. Parla di
persecuzioni future ai suoi, e dà per scontata la grande persecuzione
che a momenti lo investirà. Si riferisce ai turni di guardia romani
nella notte (v. 35) e vi legge le tappe del prossimo abbandono dei suoi.
Ecco
allora l’invito pressante a un’attesa che coniughi l’assenza con una
nuova forma di presenza. Un dono, non una minaccia, un tornerò, non un
addio, ma seriamente impegnativi.
Ha appena parlato, infatti, sempre nel linguaggio apocalittico, della beatitudine promessa: 26Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. 27Egli … radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo … 32Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre.
È risposta ai discepoli, che all’inizio del discorso gli hanno chiesto quasi privatamente: quando? (v. 13,4).
Oltre
il legittimo interesse a conoscere la data di un evento così decisivo
si legge il desiderio di tenere sotto controllo i fatti e, se possibile,
di governarli. Ci si arma a fronte di un pericolo. Invece la
paradossale logica evangelica ci chiede il disarmo totale e l’abbandono
fiducioso. Anzi, poiché ignoriamo il quando, tutte le forze devono essere concentrate nell’attesa vigilante, perché il kairòs, il momento di grazia della parousia, non ci sfugga.
E
qui la breve allegoria riprende il tema, caro ai sinottici, di un Gesù
che si allontana lasciando agli uomini il governo della sua casa, a
ciascuno un compito, nell’attesa del suo ritorno; in continuità con il
racconto del Genesi in cui il Signore affida ad Adamo il giardino da
coltivare (Gn 2,15), non da proprietario ma da custode.
Se
tutto il discorso escatologico era centrato sulla dissoluzione finale
delle strutture di potere, il tempio, i regni, le nazioni, ora la
prospettiva è la casa, il luogo comunitario inappropriabile,
perché appartiene al Signore. E ancora luogo della responsabilità,
dell’operatività sinfonica che risponde a una delega dell’autorità, più che del potere (v.34), termini con cui traduciamo il greco exousia. Il potere, infatti, si accompagna spesso nella storia all’arbitrio, mentre l’autorità, quella che è riconosciuta, fa crescere. È quella personale di Gesù, che dà sostanza a un messaggio di liberazione totale (v.1,27).
Anzi,
la partecipazione all’exousia di Cristo, fuor di metafora, allude alla
partecipazione allo Spirito, che pur unico, distribuisce i suoi doni, i
suoi carismi, a ciascuno in forma personale, per il bene comune,
sovranamente libero dentro e fuori la comunità.
Questo
è allora il cuore del messaggio: vivere l’attesa convinti che nella
ferialità dimessa o nell’eccezionalità della vita, aldilà delle
sofferenze e dentro le sofferenze, un’offerta di amore sempre ci
raggiunge con possibilità inedite e sorprendenti di realizzazione. Al
nostro lavoro resta ancora affidata la creazione perché giunga a
compimento, mentre la cosmogenesi continua tuttora attraverso
l’irradiazione di sempre nuove energie. Se la casa comune è lo spazio
dell’attesa, il tempo sarà il personale ritmo di appropriazione di
queste energie (C. Molari). Ma a patto di aprire gli occhi, di vivere la
profondità e non la superficie degli avvenimenti e delle relazioni, in
una parola di vegliare, disponibili ad accettare e lasciare fiorire le sorprese di Dio.
Altrove
ha promesso che lui è con noi, in noi, in mezzo a noi. Ma qui ci chiede
come viviamo noi l’attesa del suo ritorno, vivendo già la sua
compagnia. La riunione dei santi comincia qui, nella casa comune; la
comunione col Padre è anticipata nella comunione tra i fratelli; ogni
giorno ordinario contiene già il giorno del Signore.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!
Essere trovati desti nell’amore, tanto nel desiderio quanto nel
servizio operoso, è la scommessa finale che tutti ci investe, senza
preclusioni e confini. In questo periodo il giorno si fa breve e le
tenebre dilatano il loro tempo. Anche la natura anela alla luce e la
desidera. I riti pagani e neopagani del solstizio d’inverno ce lo ricordano. Ecco, per tutti, il desiderio è la chiave dell’attesa.
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