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sabato 15 luglio 2023

IL SEMINATORE

*La parola di Dio

 è un seme*

 - Vangelo della domenica:  Mt 13,1-23

 - Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. 2Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia. 3Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. 4Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. 5Un'altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c'era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, 6ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. 7Un'altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. 8Un'altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. 9Chi ha orecchi, ascolti».  10Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché a loro parli con parabole?». 11Egli rispose loro: «Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. 12Infatti a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha. 13Per questo a loro parlo con parabole: perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono. 14Così si compie per loro la profezia di Isaia che dice:

Udrete, sì, ma non comprenderete,

guarderete, sì, ma non vedrete.

Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile,

sono diventati duri di orecchi

e hanno chiuso gli occhi,

perché non vedano con gli occhi,

non ascoltino con gli orecchi

e non comprendano con il cuore

e non si convertano e io li guarisca!

 Beati invece i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. 17In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti hanno desiderato vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono! 18Voi dunque ascoltate la parabola del seminatore. 19Ogni volta che uno ascolta la parola del Regno e non la comprende, viene il Maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore: questo è il seme seminato lungo la strada. 20Quello che è stato seminato sul terreno sassoso è colui che ascolta la Parola e l'accoglie subito con gioia, 21ma non ha in sé radici ed è incostante, sicché, appena giunge una tribolazione o una persecuzione a causa della Parola, egli subito viene meno. 22Quello seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto. 23Quello seminato sul terreno buono è colui che ascolta la Parola e la comprende; questi dà frutto e produce il cento, il sessanta, il trenta per uno».

  Commento di Enzo Bianchi

L’ordo liturgico ci fa ascoltare per tre domeniche alcune parabole raccolte in Matteo 13, il terzo lungo discorso di Gesù in questo vangelo, detto appunto “discorso parabolico”. Il tempo dell’ascolto entusiasta di Gesù da parte delle folle sembra esaurito e ormai si è palesata l’ostilità dei capi religiosi giudaici, che sono giunti alla decisione di “farlo fuori” (cf. Mt 12,14).

Sì, è accaduto così e accade così anche oggi nei confronti di chi predica e annuncia veramente il Vangelo. E noi possiamo essere non solo perplessi, ma a volte sgomenti: ogni domenica nella nostra terra d’Italia più di dieci milioni di uomini e donne che credono, o dicono di credere, in Gesù Cristo si radunano nelle chiese per ascoltare la parola di Dio e diventare eucaristicamente un solo corpo in Cristo. Eppure constatiamo che a questa partecipazione alla liturgia non consegue un mutamento: non accade qualcosa che manifesti il regno di Dio veniente. Perché succede questo? La parola di Dio è inefficace? Chi la predica, predica in realtà parole sue? E chi ascolta, ascolta veramente e accoglie la parola di Dio? E chi l’accoglie, è poi conseguente, fino a realizzarla nella propria vita?

Quando Matteo scrive questa pagina che presenta Gesù sulla barca intento ad annunciare le parabole, interrogativi simili risuonano anche nella sua comunità cristiana. I cristiani, infatti, sanno che la parola di Dio è dabar, è evento che si realizza; sanno che, uscita da Dio, produce sempre il suo effetto (cf. Is 55,10-11): e allora perché tanta Parola predicata, a fronte di un risultato così scarso? Ma le parabole di Gesù, racconti che vogliono rivelare un senso nascosto, ci possono illuminare. Gesù fa ricorso alla realtà, al mondo contadino di Galilea, a ciò che ha visto, contemplato e pensato, perché si dava del tempo per osservare e trovare ispirazione per le sue parole, che raggiungevano non gli intellettuali, ma gente semplice, disposta ad ascoltare. Avendo visto più volte il lavoro dei contadini, così Gesù inizia a raccontare, con parole molto note, che per questo vanno ascoltate con ancor più attenzione:

Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole, fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti!

 In questa parabola stupisce la quantità di seme gettato dal seminatore, e chi non sa che in Palestina prima si seminava e poi si arava per seppellire il seme, potrebbe pensare a un contadino sbadato… Invece il seme è abbondante perché abbondante è la parola di Dio, che deve essere seminata, gettata come un seme, senza parsimonia. Ma il predicatore che la annuncia sa che ci sono innanzitutto ascoltatori i quali la sentono risuonare ma in verità non l’ascoltano. Superficiali, senza grande interesse né passione per la Parola, la sentono ma non le fanno spazio nel loro cuore, e così essa è subito sottratta, portata via. Ci sono poi ascoltatori che hanno un cuore capace di accogliere la Parola, possono addirittura entusiasmarsi per essa, ma non hanno vita interiore, il loro cuore non è profondo, non offre condizioni per farla crescere, e allora quella predicazione appare sterile: qualcosa germoglia per un po’ ma, non nutrito, subito si secca e muore. Altri ascoltatori avrebbero tutte le possibilità di essere fecondi; accolgono la Parola, la custodiscono, sentono che ferisce il loro cuore, ma hanno nel cuore altre presenze potenti, dominanti: la ricchezza, il successo e il potere. Questi sono gli idoli che sempre si affacciano, con volti nuovi e diversi, nel cuore del credente. Queste presenze non lasciano posto alla presenza della Parola, che viene contrastata e dunque muore per mancanza di spazio. Ma c’è anche qualcuno che accoglie la Parola, la pensa, la interpreta, la medita, la prega e la realizza nella propria vita. Certo, il risultato di una semina così abbondante può sembrare deludente: tanto seme, tanto lavoro, piccolo il risultato… Ma la piccolezza non va temuta: ciò che conta è che il frutto venga generato!

 Questi racconti in parabole non erano comuni tra i rabbini del tempo di Gesù, e anche per questo i discepoli gli chiedono conto del suo stile particolare nell’annunciare il Regno che viene. Gesù risponde loro con parole che ci stupiscono, ci intrigano e ci chiedono grande responsabilità: “A voi è stata consegnata la conoscenza dei misteri del regno dei cieli”. Nel passo parallelo di Marco, a cui Matteo si ispira, queste parole di Gesù sono ancora più forti: “A voi è stato consegnato il mistero del regno di Dio” (Mc 4,11). Sì, proprio ai poveri discepoli è stato affidato e consegnato, da Dio (passivo divino), ciò che riguarda il suo regno. Per dono di Dio essi hanno accesso a una conoscenza che li rende capaci di vedere il velo alzato sul mistero, su ciò che era stato nascosto per essere svelato. Non è un privilegio per i discepoli, ma una grande responsabilità: a loro è stata data la conoscenza di come Dio agisce nella storia di salvezza!

 

Ecco però, subito dopo, l’annuncio di una contrapposizione: vi sono invece altri che vedendo non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono, restando chiusi nella loro autosufficienza, nella loro autoreferenzialità religiosa. E si badi bene ai semitismi di queste parole di Gesù, ispirate al profeta Isaia (cf. Is 6,9-10): esse non vogliono indicare arbitrio da parte di Dio, il quale consegnerebbe il Regno ad alcuni e lo negherebbe ad altri. Si deve invece comprendere che chi è destinatario della parola predicata da Dio e non l’ascolta, ma la lascia cadere, non resta nella situazione di partenza. La “parola di Dio”, sempre “viva ed efficace” (Eb 4,12), quando è accolta, salva, guarisce e vivifica; al contrario, quando è rifiutata, causa la malattia della sclerocardia, della durezza del cuore, che diventa sempre più insensibile alla Parola, sempre più incapace di sentirsi toccato e ferita da essa. È così, ma non per volontà di Dio, bensì per il rifiuto da parte dell’essere umano: gli viene offerta la vita, ma non la accoglie, e di conseguenza va verso la morte…

 Sovente il popolo di Israele, ma anche il popolo dei discepoli di Gesù, ha un cuore indurito, ha orecchi chiusi, ha occhi accecati, e così non solo non comprende ma neppure discerne la parola del Signore e non fa nessun tentativo di conversione, di ritorno a Dio, il quale sempre ci attende per guarire i nostri orecchi e i nostri occhi. Basterebbe riconoscere e affermare: “Siamo ciechi, siamo sordi, parlaci Signore!”. Eppure, quella dei giorni terreni di Gesù era “un’ora favorevole” (2Cor 6,2), l’ora della visita di Dio (cf. Lc 19,44), l’ora della misericordia del Signore (cf. Lc 4,19). Perciò Gesù dice ai discepoli che lo circondano: “Beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché ascoltano. In verità io vi dico: molti profeti e molti giusti dell’antica alleanza hanno desiderato di essere presenti nei giorni del Messia, hanno sognato di vederlo in azione e di ascoltare le sue parole, ma a loro non è stato possibile. Voi invece, voi che ho chiamato e che mi avete seguito, avete potuto vedere con i vostri occhi e ascoltare con i vostri orecchi”. Addirittura, il discepolo amato potrà aggiungere, con audacia: “Avete potuto palpare con le vostre mani la Parola della vita” (cf. 1Gv 1,1). Non un’idea, non un’ideologia, non una dottrina, non un’etica, ma un uomo, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio, venuto da Dio! “Voi lo avete incontrato e ne avete fatto esperienza con i vostri sensi. Sì, beati voi!”.

 Dunque, a noi che ogni domenica ascoltiamo la Parola e accogliamo la sua semina nel nostro cuore, non resta che vigilare e stare attenti: la Parola viene a noi e noi dobbiamo anzitutto interiorizzarla, custodirla, meditarla e lasciarci da lei ispirare; dobbiamo perseverare in questo ascolto e in questa custodia nel nostro cuore; dobbiamo infine predisporci alla lotta spirituale per custodirla, farle spazio, difenderla da quelle presenze che ce la vorrebbero rubare. In breve, basta avere fede in essa: la Parola, “il Vangelo è potenza di Dio” (Rm 1,16).

 

Alzogliocchiversoilcielo

 

 


sabato 12 giugno 2021

ALL'OMBRA DI UN GRANELLO


Dal Vangelo secondo Marco  - Mc 4,26-34

In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga, e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura». Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra». Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

 Com’è pacificante il nostro Dio!

La parabola del granello di senape racconta la sua costante preferenza per i mezzi poveri; sottolinea un miracolo di cui non ci stupiamo più: che tu dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce.

Dice che il Regno cresce per la misteriosa forza del buono; che le cose di Dio fioriscono per la straordinaria energia segreta che hanno le azioni buone, vere e belle.

E nessuno può sapere di quanta esposizione al sole della vita, abbia bisogno il buon grano di Dio per maturare: nelle persone, nei figli, in coloro che mi appaiono distratti, che a volte giudico vuoti o senza germogli.

La seconda parabola mostra la sproporzione tra il granello di senape, il più piccolo tra tutti i semi, e il grande albero che ne nascerà.

Senza voli retorici: il granello non salverà il mondo, proprio come noi.

Un altro è il nostro compito: gli uccelli verranno come in un sogno e vi faranno il nido.

Ma prima, l’albero è solo un piccolo seme accolto nel cavo della mano, che diresti un grumo di materia inerte. Invece, quel granello è un piccolo vulcano di vita, pronto a esplodere nonostante le nostre resistenze e distrazioni. E alla tua ombra le persone troveranno riposo e conforto; nel mondo e nel cuore il seme di Dio germoglia e si arrampicherà verso la luce.

Un seme deposto dal vento nelle fenditure di una muraglia è capace di viverci e aprirsi una strada nel duro dell’asfalto.

Gesù sa di aver immesso nel mondo un germe di bontà divina che, con il suo assedio dolce e implacabile, spezzerà la crosta arida di tutte le epoche, per donarsi quando sarà pronto.

Consegnarsi, verbo stesso con cui Gesù si consegna alla sua passione, e anche l’uomo, per star bene, deve dare un po’ di sè.

È la legge della vita, a ricordare all’uomo che è maturo solo quando è pronto a donarsi, a diventare anche lui pezzo di pane buono per la fame di qualcuno.

Nelle parabole, il Regno di Dio è presentato come un contrasto, energia che viene come lotta vitale, come dinamica che si insedia al centro; un salire, un evolvere verso sempre più vita.

Quando Dio entra in gioco, tutto entra in una dinamica di crescita, anche se parte da semi microscopici.

Accade nel Regno ciò che accade nell‘intimo di ogni essere. Una sconosciuta e divina potenza che è all’opera, instancabile, che non dipende da noi e che non si deve forzare, ma attendere con la fiducia in Gesù, che ha una bellissima visione del mondo: tutto è in cammino, tutto un fiume di vita che scorre, in movimento perenne. E’ il paradigma della pienezza, a reggere la nostra fede. Mietiture fiduciose, abbondanti. Gioia del raccolto. Sogni di pane e di pace. Positività. Tutta la nostra fiducia è in questo: occhi profondi per vedere Dio all’opera, in seno alla storia e in me, in alto silenzio e con piccole cose.

 

AUTORE: p. Ermes Ronchi FONTE: Avvenire PAGINA FACEBOOK


 

 

domenica 12 luglio 2020

UN TERRENO FECONDO


Dal Vangelo secondo Matteo

Quel giorno Gesù uscì di casa e sedette in riva al mare. Si radunò attorno a lui tanta folla che egli salì su una barca e si mise a sedere, mentre tutta la folla stava sulla spiaggia.
Egli parlò loro di molte cose con parabole. E disse: «Ecco, il seminatore uscì a seminare. Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada; vennero gli uccelli e la mangiarono. Un’altra parte cadde sul terreno sassoso, dove non c’era molta terra; germogliò subito, perché il terreno non era profondo, ma quando spuntò il sole fu bruciata e, non avendo radici, seccò. Un’altra parte cadde sui rovi, e i rovi crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sul terreno buono e diede frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno. Chi ha orecchi, ascolti».

Commento di P. Paolo Curtaz

Ripartiamo dall’essenziale, allora. Con il Vangelo in mano, con il cuore aperto, con la voglia di prendere saldamente il timone della barca della nostra vita e di prendere il largo.
Le risposte sono tutte lì, davanti ai nostri occhi. Si tratta di coglierle, di vederle. Di viverle.
Se Gesù ha salvato il mondo, perché assistiamo ancora e ancora alla follia del dolore e della guerra?
Se egli era davvero la presenza stessa di Dio, se la sua morte ha cambiato il cuore dell’uomo, dov’è questa salvezza? Erano le domande che si poneva la comunità di Matteo, travolta dalla repressione dell’Impero Romano che era giunta a distruggere il tempio. Una catastrofe, la fine di un mondo, anche di un mondo di fede. Dio era stato apparentemente sconfitto dall’aquila romana.
Perché, come l’epidemia ha messo in evidenza, la nostra fede spesso è superficiale e non incide nella vita reale? Perché nonostante tutto l’impegno che mettiamo nel raccontare il volto luminoso di Dio stentiamo ad essere ascoltati ed accolti? Perché la primavera del Concilio non ha portato i frutti che ci si aspettava?
Matteo, come risposta, propone alla sua comunità scoraggiata, e alla nostra, la parabola del seminatore. Propone di vedere le cose dal punto di vista di Dio.
Ecco: il seminatore uscì a seminare.
Il seme
Al centro della parabola Gesù pone il seme: è lui il protagonista, tutti i verbi usati nel breve racconto hanno come oggetto proprio il nostro seme. Seme che è la Parola rivelata dal Padre per bocca di Gesù e poi accolta e ritrasmessa da Matteo alla sua comunità e da questa al mondo.
Il messaggio è chiaro: il seme agisce da sé, a prescindere, è efficace al di là della bravura del seminatore o della qualità del terreno.
Se è sotto gli occhi di tutti che per tre quarti delle volte la semina è destinata a fallire, è altrettanto vero che una volta su quattro il risultato è stupefacente, ben al di là delle aspettative.
La parabola è un incoraggiamento, un invito alla fiducia, uno sguardo positivo sulla realtà.
Racconta la logica di un Dio che lascia liberi di accogliere e di ascoltare il suo messaggio.
Oppure di rifiutarlo. O di accoglierlo parzialmente, per poi lasciarlo inaridire e morire.
Il terreno
La Parola viene gettata a piene mani. Da Dio, da Cristo, da noi discepoli. Magnifico.
Poi, che accade?
Il racconto viene ripreso più avanti, in una specie di appendice al testo, una spiegazione privata ad uso dei discepoli da parte di Gesù.
La parabola, allora, diventa quasi un’allegoria e l’incoraggiamento diventa un avvertimento.
Se sei un annunciatore resta sereno. Keep calm e lascia agire il seme.
Ma, prima di essere evangelizzatore e discepolo, sei uno che accoglie la Parola, sei il terreno: stai dunque attento a come accogli.
Guarda il tuo cuore: prima accogli, poi annuncia. Perché annunci solo ciò che accogli.
È Gesù stesso a parlarne e a spiegare le sue parole.
Il seme cade sulla strada, su un cuore indurito. Indurito perché calpestato da molti.
Gesù non entra nel dettaglio, constata che ci sono dei cuori apparentemente impermeabili a qualunque sollecitazione di fede, incapaci anche solo di lasciare che qualcosa scalfisca le loro incrollabili certezze. Sanno. Di Dio, della fede, dei cristiani. Sanno. Non hanno bisogno di nulla.
Su questi cuori il seme rimbalza. Poi viene Satana e lo porta via, come un corvo che cala sulle granaglie. Da brividi.
La Parola che cade sulla strada è destinata a sparire.
Un cuore indurito, pietrificato, asfaltato, è impermeabile alla Parola e, quindi, a Dio.
Apparentemente è impossibile da cambiare.
Non per Dio, che semina anche sull’asfalto. Insiste, l’inguaribile ottimista.
Poi
Gesù continua: se il seme trova anche solo un briciolo di terra, germoglia.
Ma ha bisogno di costanza, per crescere. Così accade ad alcuni discepoli.
Subito accolgono la Parola: con entusiasmo. Ce ne sono di persone così, adulti che riscoprono la fede grazie ad un viaggio, ad una giornata di ritiro, ad un’amica credente che li coinvolge, al lockdown. Ed è bello vedere nel loro sguardo lo stupore di scoprirsi amati da Dio e la voglia di conoscere.
Il primo cuore è indurito. Il secondo è incostante.
La fede diventa una parentesi della vita, anche felice, certo, ma una parentesi.
Ha ragione, Gesù: il seme va coltivato, va protetto dal sole troppo caldo, dalle intemperie.
La Parola va custodita, approfondita, meditata, pregata.
Gesù continua. Diversa è la situazione di chi ha costanza, di chi accoglie la Parola e la custodisce ma intorno a lui crescono altri interessi che si ingrandiscono e, alla fine, soffocano la Parola che rimane, ma non porta frutto. È presente, ma inutile.
Sopraggiungono le preoccupazioni del mondo, il pre-occuparsi, l’occuparsi prima, anzitempo; ed invece di vivere il momento presente, di assaporare il tempo, lo amplifichiamo, lo estendiamo, e così la preoccupazione continua contagia la nostra vita e la nostra anima. E la soffoca, come una pianta infestante.
E anche la bramosia soffoca il seme, cioè il desiderio smodato, auto-referenziale, fuori controllo. Dei soldi, della casa, del cibo, del sesso… Ogni cosa rischia di diventare un idolo e di ingigantirsi fino a prendere il controllo di noi stessi, fino a mettere ai margini la nostra anima.
Ma esiste un’ultima possibilità. Meno male.
Frutti
Il tono della parabola cambia. È un finale colmo di speranza.
Esiste un terreno buono che accoglie e porta frutto, tanto frutto. In cui la Parola scava i cuori, cambia la vita, modifica le scelte. Converte.
E produce un gran raccolto: trenta, sessanta, cento per uno. Gesù usa un’iperbole per indicare che il seme produce molto più di quanto immaginiamo o speriamo.
Ed è proprio ciò che accade: a fronte di tanto insuccesso, agli occhi degli uomini, resta il fatto che milioni di persone, accogliendo il vangelo, hanno radicalmente cambiato la propria vita.
Noi fra questi. Io, fra questi.
Chi è il terreno buono? Chi si è ritrovato nei terreni precedenti, meditando la parabola. Chi, leggendo, ha ammesso davanti al Dio di ogni tenerezza di essere impietrito, asfaltato, di avere un cuore scostante.  Chi ha sentito il desiderio immenso di portare frutto, di diventare terreno fecondo che fa fiorire la vita.
Vale la pena di riflettere su questo aspetto: leggere la nostra vita, le nostre vicende, il nostro passato per vedere quanto l’incontro col vangelo ci abbia cambiati. E anche noi possiamo dire che avere accolto il vangelo della nostra vita ha comportato qualche rinuncia. Ma ci ha dato cento volte tanto (Mt 19,29)









venerdì 15 giugno 2018

IL CONTADINO E IL SEME


Mc 4, 26-34

Dal Vangelo secondo Marco


26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.


Commento di p. Paolo Curtaz
Marco ci regala una piccola parabola, una similitudine, un paragone, che solo lui riporta.
Tre piccoli versetti da mandare a memoria e da usare quando ci lasciamo prendere dall’ansia da prestazione (cristiana). Un potente ansiolitico interiore.
È il regno che viene, non sono gli uomini a farlo venire.
Quindi: restiamo sereni. Keep calm. Ci voleva. Soprattutto in questi tempi di caos apocalittico.
La piccola similitudine è divisa in tre parti e ha due protagonisti: il contadino e il seme.
Il primo compare all’inizio e alla fine e, volutamente, Marco ne sottolinea il ruolo assolutamente  marginale.
Manda la falce. Due azioni: getta il seme e manda (getta?) la falce.
Interessante: non semina, ma getta il seme, come ad indicare un’azione non prevista, un campo non adibito alla semina, una scelta non pianificata, come a dire: getta il seme della Parola ovunque ti trovi, ogni luogo è da fecondare!
E la seconda affermazione è ancora più curiosa, una specie di errore grammaticale: letteralmente Marco scrive, in greco, che il contadino manda la falce, non va nemmeno a falciare, qualcun altro, la falce!, se ne occupa.
Sappiamo che non è così semplice. Sappiamo che il terreno va accudito, irrigato, disinfestato dalle erbacce... ma il racconto vuole rimarcare la forza intrinseca del seme e l’apparente marginalità del seminatore.
Il secondo citato, il seme, è il vero protagonista del brano: mentre l’uomo dorme, lui germoglia, cresce, porta frutto. Gesù descrive quasi plasticamente la lenta azione del seme che buca la terra, si fa germoglio, cresce, si gonfia e si dona nel frutto.
Il contadino è inattivo, il seme no.
Al punto che, alla fine, è il frutto che stabilisce l’ora della mietitura. Letteralmente Marco scrive appena il frutto lo consente.
L’uomo non fa, ma accoglie. E deve accogliere in fretta, subito.
È il frutto che fa tutto.
Il contadino non sa nemmeno come ciò avvenga, non se ne occupa, non ha il potere del controllo.
Fuor di metafora, Gesù, totalmente uomo, si interroga su quanto sta accadendo, sulla sua strategia pastorale.
Determinato nel continuare la sua missione, si interroga sulle difficoltà che incontra.
E dice a se stesso, ai suoi discepoli, a noi, una cosa molto semplice: il regno di Dio è, appunto, di Dio. Non nostro. Ha una sua logica, una sua tempistica, una sua dinamica che, spesso, ignoriamo. Come accade col seme.
La Parola seminata agisce anche se non ce ne accorgiamo. Ha tempi lunghi, certo, diversi dai nostri, ma agisce con forza e costanza. A noi rimane il compito di gettare il seme e di coglierne il frutto, subito, appena questo matura.
Gesù chiede di passare dalla logica dell’efficienza a quella dell’accoglienza.
Ahia.
Quante inutili ansie portiamo nel cuore! Proprio noi cristiani, noi discepoli che dovremmo, almeno un po’, fidarci di Dio e della sua Parola!
Il ragionamento di Gesù è semplice ed efficace: il regno è di Dio, tu, assecondalo.
O, in altre parole, come ripeto spesso, fra il serio e il faceto: il mondo è già salvo, non lo devi salvare tu. Il mondo è già salvo, è che non lo sa.
Vuoi fare qualcosa? Vivi da salvato.
Per noi, oggi Questa logica evangelica dell’attesa, della fiducia, caratterizza (o dovrebbe) la nostra vita comunitaria, ma anche la nostra vita interiore. La stessa pazienza che il Signore chiede nel lasciar agire il regno, la stessa fiducia che chiede di avere nella potenza della Parola, la dobbiamo aver e verso noi stessi e i nostri percorsi di vita.
Come il terreno, cioè il nostro intimo, accoglie e fa crescere il seme è un mistero: inutile cercare di accelerarlo, inutile cercare di manipolarlo, è una questione fra Dio e l’anima, un evento intangibile ne lla coscienza del discepolo (cfr. Ap 3,20).
Il granello di senape
Ancora riflette, il Maestro, ed introduce l’ultimo enigma con una doppia domanda, come era in uso nei dialoghi dei rabbini per coinvolgere l’uditorio.
La parabola parla di una mutazione, di un cambiamento, di una evoluzione.
Perché quando si parla di Dio tutto si trasforma. È dinamico Dio, sempre più avanti di quanto di lui riusciamo a cogliere.
Usa questa splendida immagine servendosi con forza di un contrasto, che è il cuore della parabola .
Il protagonista della parabola è ancora il seme: a lui sono riferiti i verbi. È seminato, sale su, diventa un ortaggio, ramifica.
Ma al Signore piace giocare con gli opposti: il più piccolo dei semi diventa il più grande degli ortaggi, un vero albero, con grandi rami.
Ha ragione: il seme della senape, anche se non è il più piccolo in natura, come affermato, è comunque minuscolo: misura appena un millimetro di grandezza. Ma, sulle sponde del lago, può crescere fino a raggiungere i tre metri di altezza.
Spettacolare.
La logica del regno
La Parola di Dio ha una sua efficacia, il seme germoglia e porta frutto, così l’annuncio del regno che avanza anche se non sappiamo bene come. Ma è una logica diversa da quella che ci immaginiamo.
Parte dal poco, all’inizio è insignificante, piccolo come un granello di senape.
Ha un suo inizio e una sua progressione.
Ma Gesù non parla di trionfalismi, non immagina grandi successi delle chiese, come a volte è stato interpretato goffamente questo testo, non sogna improbabili finali trionfanti da film.
Indica l’atteggiamento con cui annunciare il regno e la logica che lo accompagna: nelle piccole cose, nell’umiltà (che non è la depressione dei credenti ma la consapevolezza feconda del limite), dell’insignificanza dei gesti si cela la grandezza del regno.