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venerdì 15 marzo 2024

SE IL CHICCO DI GRANO NON MUORE


 V domenica di Quaresima

 - Vangelo: Giovanni 12,20-33

 

  In quel tempo 20tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. 21Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». 22Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. 23Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. 25Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. 27Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! 28Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!». 29La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». 30Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. 31Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. 32E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». 33Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

-Commento di Sabino Chialà


Vi è ancora un’immagine al centro del vangelo di questa quinta domenica di quaresima, dopo quelle del tempio e del serpente: il seme che muore e dà frutto. Un’immagine che rimanda chiaramente alla Pasqua e alla vita che vince la morte, come indica l’intero capitolo da cui il nostro brano è tratto.

 La prima parte del capitolo dodicesimo, infatti, è un continuo intrecciarsi di riferimenti alla Pasqua ebraica, alla resurrezione di Lazzaro e alla morte e resurrezione di Gesù. Si apre con la menzione della festa di Pasqua (v. 1), cui segue il ricordo della resurrezione di Lazzaro (v. 1) e della sepoltura di Gesù (v. 7). Seguono un nuovo riferimento alla resurrezione di Lazzaro (v. 9), alla festa in occasione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme (v. 12) e alla sua glorificazione, altro riferimento alla passione e resurrezione (v. 16). Infine, un nuovo riferimento alla resurrezione di Lazzaro (v. 17) è seguito da una terza menzione della festa (v. 20) e dalla parola di Gesù circa l’ora ormai giunta (v. 23), altro riferimento alla sua passione. Questo intreccio aiuta a cogliere il clima in cui vanno lette le parole di Gesù, e come i tre eventi convergono verso un medesimo annuncio: l’unitarietà della storia della salvezza, a favore dell’umanità intera.

 Il brano previsto dal lezionario per questa domenica si apre con un evento che Gesù legge come decisivo in riferimento al compimento della sua missione: “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea, e gli chiesero: ‘Signore, vogliamo vedere Gesù’” (vv. 20-21). Si rivolgono a Filippo e questi interpella Andrea (v. 22) perché i due provengono dalla Galilea, terra di confine e dunque terra aperta alle genti e alle loro lingue e culture.

 Il desiderio dei Greci di “vedere” (v. 21) è colto da Gesù come un segno chiaro di essere giunto alla soglia del compimento: è giunta l’ora! Quell’ora era rimasta in sospeso fin dal secondo capitolo, quando a Cana Gesù, a sua madre che gli chiedeva di intervenire perché non c’era più vino, aveva risposto: “Non è ancora giunta la mia ora” (2,4), un’affermazione ripetuta ancora (cf. 7,30; 8,20). Ma adesso, proprio in questo momento, l’ora è giunta. Siamo allo spartiacque, e di qui in avanti Gesù ripeterà più volte che l’ora è giunta (cf. 12,23; 13,1; 17,1).

 I Greci, segno di universalità, desiderano vederlo. Non sono più solo i due discepoli dell’inizio del vangelo che “andarono e videro dove stava” (1,39). Ora Gesù scorge in quei Greci il desiderio delle genti, la ricerca di senso dell’umanità intera. Sente che è giunto il momento di compiere: “E’ giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo” (v. 23). Ma per questo è necessario chiarire, manifestare, di quale compimento si tratta, quale salvezza egli è venuto a portare e per quale via si realizzerà.

 Cerca dunque un’immagine con cui narrare il senso di una vita e di una missione. E trova come particolarmente adatta quella del seme: “Se il chicco di grano, caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” (v. 24). Gesù raccoglie in questa immagine così semplice e feriale il senso di una intera esistenza. I vangeli Sinottici riportano vari altri utilizzi della medesima metafora, per descrivere il modo di agire della parola (cf. Mc 4,1-32). In Giovanni questo è l’unico impiego e riassume l’esistenza intera di Gesù, la Parola fatta carne (cf. Gv 1,1).

 Richiamando la debolezza e la forza del seme, Gesù intende così preparare i suoi discepoli, che presto lo vedranno appeso alla croce. Li invita a considerare come nel seme la vita nasce dalla morte. Mentre sottrarsi alla morte, porta alla solitudine dell’insensatezza. L’accettazione della morte apre al frutto e apre alla vita. Qui è tutta la logica della croce e ciò che Gesù ha cercato di vivere e annunciare nel suo ministero. È così non per banale dolorismo, ma perché non c’è altra via per la vita!

 Quella strada, però, non è tracciata solo per Gesù: è anche per i suoi discepoli di ogni tempo e luogo. Infatti, continua: “Chi ama la propria vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuol servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servo” (vv. 25-26). La logica del seme dev’essere anche la logica della chiesa e di ogni comunità credente, chiamata a perdere per ritrovare, a lasciare per riottenere. Nessuno può sfuggire a questo doloroso passaggio: la vita fiorisce solo laddove la si lascia morire, in un abbandono fiducioso e scandaloso allo stesso tempo, che ha come unica garanzia il fatto che Cristo precede, e al discepolo chiede solo di seguirlo: “Dove sono io, là sarà anche il mio servo” (v. 26).

 Tutto questo, Gesù lo affronta con l’animo di chi è e resta anche uomo. Non da eroe impassibile. Mostra dunque anche la sua lotta: “Ora, l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome” (vv. 27-28). Abbiamo qui la versione giovannea del combattimento nel giardino del Getsemani, quando Gesù affida a Dio, nel medesimo istante, la sua sofferenza e il suo affidamento, mettendo tutto nelle sue mani. La voce che scende dal cielo a confermare Gesù in quel cammino ricorda l’angelo venuto a consolarlo, secondo il vangelo di Luca (cf. Lc 22,43).

 A questo punto Gesù dichiara conclusa la sua missione, con il giudizio del “principe di questo mondo” (v. 31) e l’innalzamento del Figlio dell’uomo: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (v. 32), eco del Servo innalzato di cui parla Isaia: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato grandemente” (Is 52,13). Si conclude così la parabola del nostro brano: i Greci che chiedono di vedere Gesù sono rimandati all’unico segno fedele e inequivocabile: il Crocifisso, in tutta la sua gloria, che è anche gloria del Padre, vale a dire immagine eloquente dell’infinito amore di Dio. La fede nasce da questa contemplazione: l’icona più eloquente ed efficace che Dio ha trovato per narrare il suo amore, come dice Isacco di Ninive.

Come seme, Gesù entra nella terra del mondo: quella terra di cui i Greci si sono fatti portavoce ora accoglie il suo Signore; e da quella medesima terra egli sarà innalzato, perché tutti possano vederlo ed esserne attratti.

 Nel Figlio innalzato, la morte e la resurrezione di Gesù sono un tutt’uno e non l’una rivincita sull’altra. Sono un tutt’uno perché narrazione di un medesimo amore, che osa morire, come il seme, come in un atto d’amore, nella certezza che da lì nascerà un frutto abbondante.

 Monastero di Bose

sabato 22 luglio 2023

GRANO E ZIZZANIA


 “Il Regno dei cieli si può paragonare…”. Così inizia il brano di Vangelo di oggi. L’espressione “Regno dei cieli, Regno di Dio” è un tema centrale dei vangeli. L’espressione ricorre 122 volte. Cosa significa? Esso non è una cosa e neppure un luogo, ma si identifica con la persona di Cristo. Pertanto, Gesù identificando se stesso con il “Regno” intende rivelare che in Lui Dio è presente in mezzo agli uomini, che Egli è la presenza di Dio e che il luogo dove cresce e opera il Regno, che è Cristo, è il cuore dell’uomo. Lì cresce e da lì opera.


 - di Mons. Francesco Cavina

 Nel cuore dell’uomo, tuttavia, abita non solo Cristo, ma anche il Maligno, che Gesù qualifica come il “nemico” di Dio e dell’uomo. L’azione di questo “nemico” avviene di notte, quando non può essere visto, per cui tante persone ritengono che non esiste. Infatti, “…mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò”. La strategia del diavolo consiste nel convincere che non esiste e così entra ed esce dal campo di grano – la vita delle persone, le istituzioni, le iniziative - con grande libertà perché l’uomo abbassa le sue difese morali e spirituali.

 La parabola, poi, pone in risalto un’altra modalità di azione del diavolo. Sottolinea che trascorre del tempo fra la semina della zizzania e l’apparizione del suo germoglio. E questo ci porta a riconoscere che il “nemico” non semina un male completo, maturo, ma deposita i germi di quello che sarà, dopo una lunga e volontaria incubazione, il frutto del male. In altre parole, i germi di male depositati da Satana hanno bisogno di trovare un terreno fertile per potersi sviluppare. Le inclinazioni cattive non controllate, l’immaturità nella fede, la preghiera trascurata, la mancata partecipazione ai sacramenti costituiscono questo terreno fertile dove i germi di male si sviluppano e producono i loro frutti avvelenati.

 Nella parabola entrano in gioco altri personaggi, che sono i servi, i quali pongono al padrone una duplice domanda: Padrone non hai seminato del buon grano nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania?”. Cioè: “Signore, tu hai fatte buone tutte le cose, da dove viene dunque il male?”. Parole, queste, che contengono un velato rimprovero nei confronti del Padrone e che ci svelano un altro obiettivo di Satana. Portare l’uomo ad attribuire a Dio il male presente nel mondo. Per tanti la realtà del male costituisce la prova che Dio non c’è. Ma questa conclusione rappresenta la dimostrazione che Satana ha raggiunto il suo scopo: ha prodotto il male con l’alleanza dell’uomo e ha fatto in modo che la responsabilità cadesse su Dio.

 Un altro gruppo di servi avanza una richiesta: “Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?” (v. 28). “Vuoi che andiamo a togliere la zizzania?”. Queste parole nascono da un ulteriore inganno di Satana che ci porta a desiderare una giustizia immediata, la quale nasconde l’incapacità di misurare il nostro passo sui tempi di Dio che desidera fare grazia a tutti. Il tempo appartiene al Signore non è nostro e la nostra libertà può sempre perderci o ravvederci. Nel corso della nostra esistenza noi possiamo diventare “figli del Regno” o figli del Maligno”.

 Al riguardo, mi piace ricordare, tra i tanti esempi, la vicenda umana e spirituale di san Charles de Foucauld. Descrive con queste parole la sua vita dedita al vizio: “A 17 anni ero completamente egoista, proteso verso il male come se fossi in preda alla follia. E quando vivevo nel peggiore modo possibile, ero convinto che fosse tutto assolutamente normale”. Ma, per grazia di Dio, la zizzania in lui è diventata grano. De Foucauld ha scalato la montagna della santità, arrivando ad esclamare: “per la diffusione del Vangelo sono pronto ad andare fino ai confini del mondo. Desidero soffrire il martirio per amare Gesù di amore totale”.

La grande vittoria di Dio è trasformare la zizzania in grano. il buon seme conta di più della zizzania del campo.

 *Vescovo emerito di Carpi

ACI STAMPA



sabato 20 marzo 2021

NOI SIAMO FRUTTO DI QUEL DONO


Se il chicco di grano 

caduto in terra muore,

 produce molto frutto.

Dal Vangelo secondo Giovanni - Gv 12,20-33

 In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c'erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 Il commento al Vangelo di domenica 21 Marzo 2021 – Anno B, a cura di Paolo Curtaz.

 Gesù sa che il suo modo di parlare di Dio non può essere tollerato, visto che non è stato possibile ricondurlo a normalità. Non sa cosa accadrà. Sa solo che è pronto ad andare fino in fondo. A non cedere.

Morirà, piuttosto che rinnegare il volto del Padre. Allora parla di fecondità. Di seme che deve morire per portare frutto. La gloria, la presenza di Dio, la shekinah, si manifesterà in Gesù, quando donerà definitivamente la sua vita. Il cuore dell’annuncio di Gesù non è la morte, ma il portare frutto. Ci sono gesti che apparentemente sono un fallimento ma che, invece, sono gravidi di vita e di futuro. Come la croce che non è un grande dolore, ma un grande dono di sé.

Donare la vita

Gesù parla di odiare questa vita per conservarla per l’eternità. Brutta traduzione. Gesù sta dicendo che esiste una vita più intensa nascosta in questa nostra vita. Una vita che è riflesso dell’Eterno. Una vita che si manifesta quando finalmente entriamo nella logica del dono, del servizio. Servi della felicità altrui. Servi come Filippo e Andrea che portano i greci ad incontrare Gesù.

Non è facile donare la vita. Non è facile diventare dono. In perenne bilico fra un narcisismo innalzato a regola di vita e un servilismo strisciante vestito da umiltà, donare la vita è una lotta continua, un equilibrio difficile che solo alla luce dello Spirito Santo possiamo realizzare.

E che Gesù realizza come mai nessuno prima di lui. Libero. Senza rancore. Senza rabbia. Senza pianti. Senza recriminazioni. Libero di donare senza aspettarsi nulla in cambio. 

Questo significa seguire il Nazareno, questo significa diventare discepoli.

Turbamento

Ma non è una scelta semplice, quella del dono. Né eroica. Né devota. È sangue e fango. È paura e tentennamento. Gesù è turbato, e lo dice. E vorrebbe non arrivare fino a questo punto, fino al marcire in terra. Tentenna, parla ad alta voce, vorrebbe essere salvato dalla tenebra che si staglia all’orizzonte. Ma si fida di Dio. Si fida del Padre. Sia Lui a decidere. Sia Lui. Se questo manifesta la gloria agli uomini, sia. Accada.

Quella croce, quel dono, quel Dio osteso e osceno, quella brutale sconfitta esprime pienamente la logica del Padre. Che ama fino a morirne. Mi rattrista questo Vangelo. Perché vedo il dolore del Signore. Mi consola questo Vangelo. Perché vedo il dolore del Signore. Che è il mio. Che è esattamente il mio.

Se Gesù ha avuto paura, cosa ho da temere? Perché mai dovrei nascondere le mie fragilità e fingere di essere ciò che non sono: forte. Deciso a donare, sì. Ma pavido e vigliacco. Desideroso di essere discepoli, ovvio, ma spesso chiedo di essere salvato dalla terra umida e buia. Ma da questa terra Gesù sarà innalzato. E tutti volgeranno lo sguardo. Lo alzeranno. Noi siamo i frutti di quel seme. Io. Tu.

Noi siamo frutto di quel dono.

 Cercoiltuovolto