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venerdì 24 gennaio 2025

IL SOVRANO E LA SUA CORTE

 


Lo spudorato sovranismo di Trump e quello pudico di Giorgia Meloni




-di Giuseppe Savagnone  *

Il ciclone Trump

«L’età dell’oro dell’America inizia proprio ora. A partire da oggi, il nostro Paese rifiorirà e sarà nuovamente rispettato in tutto il mondo. Saremo l’invidia di ogni nazione e non permetteremo più di essere sfruttati. Per ogni singolo giorno dell’amministrazione Trump, metterò semplicemente l’America al primo posto. Riconquisteremo la nostra sovranità. Ripristineremo la nostra sicurezza. Riporteremo in equilibrio la bilancia della giustizia (…). Presto l’America sarà più grande, più forte e molto più eccezionale di quanto non sia mai stata prima».

Con queste parole iniziava il discorso pronunziato da Donald Trump nella cerimonia del suo insediamento alla Casa Bianca. E i più di cento decreti esecutivi firmati lo stesso giorno ha confermato che il nuovo presidente degli Stati Uniti intende realizzare senza indugi ciò che aveva promesso nella sua campagna elettorale. Il punto centrale di questo programma è: «L’America al primo posto».

Cardine di questo progetto è la rivoluzione del rapporto con gli immigrati. Uno dei decreti blocca l’ingresso di tutti i richiedenti asilo al confine e un altro abolisce lo “ius soli” – finora vigente ed espressamente previsto, peraltro, dalla Costituzione degli Stati Uniti – , che prevedeva l’attribuzione della cittadinanza ai bambini nati su suolo americano da migranti senza permesso di soggiorno.

Quanto a quelli che sono già dentro, la prospettiva è la promessa fatta da Trump in campagna elettorale: «Per tenere al sicuro le nostre famiglie prometto la più grande deportazione della storia del nostro paese». Un’operazione di che caccerà via 11 milioni di immigrati irregolari.

Un secondo punto centrale del progetto di Trump è l’autonomia dai vincoli di organismi internazionali che possono porre dei limiti alla piena sovranità del governo americano. In particolare da quegli organismi che rappresentano istanze proposte dalla scienza ufficiale, come quelle ecologiste.

Da qui il decreto che sancisce il ritiro degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi sul clima e altri che da un lato allentano i limiti alle trivellazioni e all’estrazione mineraria, dall’altro  eliminano alcuni incentivi economici alla produzione di energia rinnovabile (nonché alla produzione e vendita di auto elettriche).

Da qui anche il decreto che segna l’uscita degli Stati Uniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, in linea, del resto, con la nomina a ministro della Salute americana di Robert Kennedy, acceso no-vax, nomina che, in una lettera inviata al Senato, settantasette premi Nobel avevano  definito «un rischio per la salute pubblica».

Un altro punto chiave della visione trumpiana è la lotta contro le tasse. In questo primo giorno di presidenza, il Tycoon ha cominciato cancellando la Global Minimum Tax, l’imposta del 15% per le aziende con almeno 750 milioni di dollari di fatturato, istituita dall’OCSE due anni fa allo scopo redistribuire almeno un minimo della ricchezza senza frontiere delle multinazionali

Nel suo discorso Trump parlava anche del proposito di «riportare in equilibrio la bilancia della giustizia». Sulla linea dei suoi continui contrasti con la magistratura americana (che lo aveva anche da poco condannato per ben 34 reati), con uno dei nuovi decreti il presidente ha graziato più di 1.500 persone che erano state arrestate per l’assalto al palazzo del Congresso del 6 gennaio del 2021, quando migliaia di suoi sostenitori cercarono con la forza di bloccare la proclamazione di Joe Biden come nuovo presidente.

Per rendere grande l’America è sembrato opportuno a Trump anche firmare un ordine esecutivo in cui si stabilisce che esistono solo due generi, quello maschile e quello femminile, eliminando a livello federale i cosiddetti programmi di diversità, equità e inclusione (sintetizzati con l’acronimo inglese “DEI”), che erano stati introdotti per tutelare i gruppi minoritari nelle procedure di assunzione e nella formazione.

Per quanto riguarda la politica estera, il nuovo presidente ha confermato la sua linea decisamente filo-israeliana, bloccando con un altro decreto i finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che opera in Palestina per alleviare il disastro umanitario in corso, e annullando le sanzioni che l’amministrazione Biden aveva imposto verso alcuni coloni israeliani protagonisti di violenze in Cisgiordania. Secondo «Times of Israel», nel togliere le sanzioni Trump ha assecondato le esplicite richieste di Netanyahu.

Infine, come promesso ha anche ordinato il cambio del nome del Golfo del Messico in “Golfo d’America”.

Un’imbarazzante analogia

Quello che Trump senza remore sta presentando al mondo è la forma più pura del sovranismo. Per quanto siano apparse impressionanti, le sue prese di posizione non fanno altro che evidenziare gli esiti inevitabili impliciti in questa prospettiva politica e culturale e che finora spesso sono stati lasciati in ombra dai suoi sostenitori. A cominciare dai partiti che oggi si trovano al governo nel nostro paese, il cui programma ha le stesse radici di quello trumpiano, anche se alcuni punti sono presentati con maggiore cautela.

«Per l’Italia», si intitolava il programma elettorale con cui la destra è salita al potere. E il primo punto era: «Politica estera incentrata sulla tutela dell’interesse nazionale e la difesa della Patria». I patti internazionali non venivano rotti, però sottolineando continuamente questo primato dell’Italia.

Questo è quanto ha promesso dalla Meloni: «Siamo pronti a ridare all’Italia il prestigio e l’autorevolezza che merita. La nostra Nazione deve tornare a pensare in grande». Tutto il resto viene dopo, in funzione di questo obiettivo. Esattamente ciò che Trump si propone per gli Stati Uniti. Così come è lo stesso il meccanismo logico: si svaluta ciò che è stato fatto dai predecessori, enfatizzando il declino e la marginalità del proprio paese, per ingigantire i possibili risultati della propria gestione.

Analoga anche l’agenda per realizzare questo progetto di grandezza. In primo piano anche in Italia è stata e continua ad essere la strenua lotta contro l’immigrazione. Da qui la normativa che ha reso sempre più problematico lo sforzo delle navi delle ONG per salvare i migranti che naufragano nelle acque del Mediterraneo.

Da qui l’ostinata sordità alle voci che dal mondo imprenditoriale e dalle stesse istituzioni pubbliche sottolineano il ruolo indispensabile dell’immigrazione per la prosperità del nostro paese. Come quella del presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, che, in un’intervista rilasciata l’aprile scorso a «La Stampa», spiegava che, con l’attuale andamento demografico, dopo il 2040 non si potranno più pagare le pensioni e indicava come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche», spiegava il presidente dell’INPS, «hanno tutte molti migranti».

In questa logica si colloca anche la decisione di spendere circa 800 milioni di euro (stima de «Il sole 24ore») in cinque anni per creare i centri di permanenza in vista dell’eventuale rimpatrio sul territorio albanese, invece che su quello italiano, dove ovviamente i costi sarebbero stati immensamente inferiori.

Si collega alla lotta contro l’immigrazione la recentissima liberazione di un generale libico, notoriamente responsabile delle torture vero i migranti, ignorando il mandato d’arresto della stessa Corte penale internazionale, e confermando così la logica degli accordi per cui l’Italia finanzia e sostiene i lager disumani dove i libici detengono quanti vorrebbero partire per il nostro paese. Col risultato, certo, di consentire al nostro governo di vantarsi dei risultati ottenuti nella riduzione degli sbarchi, senza però spiegare a che prezzo.

Altra evidente analogia, la  demonizzazione delle tasse, assimilate dalla nostra premier al «pizzo» che l’analogia impone egli onesti commercianti, fino alla più recente accusa del vice-premier Salvini, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, di «tenere in ostaggio» gli italiani.

Per non parlare dell’eterna battaglia contro la magistratura, accusata di sabotare l’zione del governo in base ad ideologie politiche.

Per non parlare della politica filo-israeliana, che ha portato il nostro governo a disconoscere addirittura i mandati d’arresto emessi dalla Corte penale internazionale contro Netanyahu.

Un interrogativo

E del resto se il solo vero criterio è l’interesse del proprio Stato – o, meglio, il modo in cui Trump e Meloni interpretano questo interesse per il loro – , è chiaro che non ci sono più valori a cui appellarsi, neppure quello della più elementare umanità, per opporsi a questi comportamenti. 

Finora la nostra premier ha cercato disperatamente di mascherare queste logiche conseguenze del suo sovranismo, sostenendo la piena compatibilità della sua politica con la democrazia e con il rispetto dei valori umani e arrivando perfino a rivendicare l’ispirazione cristiana della sua politica.

Ora però la brutale franchezza del progetto sovranista di Trump  – che di umanità e di cristianesimo non prova neppure a parlare – svela crudamente ciò che Meloni pudicamente cercava di nascondere.

A evidenziare ulteriormente il problema è il feeling che si è creato tra i due leader. La nostra premer è stata l’unica ad essere invitata, tra quelli europei, all’insediamento del nuovo presidente, che ad ogni occasione riconosce la profonda sintonia che li lega, pur sottolineando la subordinazione della sua alleata (che, in occasione della cerimonia, non è stata neppure ammessa un colloquio personale, come sperava)

Il legame è, appunto, il sovranismo. Non a caso tutti gli altri invitati erano i leder delle destre europee. A differenza di questi, però, Meloni governa uno Stato. Ed è forse è venuta l’ora, per i cittadini italiani, di chiedersi se vogliono che il nostro paese riproduca, nel ruolo di vassallo, il modello dell’America di Trump. E se il vero prestigio dell’Italia può consistere nell’essere al servizio della potenza illimitata degli Stati Uniti.

*Editorialista e scrittore. Pastorale della Cultura Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

 

 

venerdì 10 gennaio 2025

SOVRANISMO e DEMOCRAZIA


Una nuova visione 

del ruolo internazionale

 della democrazia

    



--di Giuseppe Savagnone*

Il comprensibile entusiasmo dei giornali e dell’opinione pubblica per la liberazione di Cecilia Sala rischia di far perdere di vista la problematicità del contesto in cui è maturato il successo dell’operazione diplomatica della nostra premier, sulla linea del suo proposito di ridare all’Italia il prestigio che, secondo lei, aveva perduto a livello internazionale.

Un richiamo a tale contesto viene dal fatto che quel successo è stato reso possibile dall’incontro cordiale della Meloni col presidente eletto degli Stati Uniti e dalla voce – subito smentita da Palazzo Chigi – che in questa occasione sia stato stretto un accordo con Elon Musk per aderire al sistema satellitare di SpaceX.

Ciò che è in gioco, però, va ben al di là delle singole questioni e riguarda la posizione dell’Italia di fronte alla rivoluzione che si è verificata nello scenario mondiale con l’ascesa di Donald Trump al vertice del paese-guida dell’Occidente e del ruolo assunto dal suo ormai inseparabile partner Elon Musk.

Nel suo primo discorso da presidente eletto, Trump ha fatto delle dichiarazioni che è molto difficile situare nel quadro della prassi delle democrazie occidentali così come finora le si è concepite. 

Particolare impressione ha suscitato la sua risposta a un giornalista che gli chiedeva se il suo progetto di annessione della Groenlandia e di riconquista del canale di Panama escludesse comunque l’uso della forza militare. «Non posso dare assicurazioni su nessuna delle due questioni», ha risposto.

Riguardo alla Groenlandia, Trump ha spiegato che gli USA devono ottenerne il controllo per motivi di «sicurezza nazionale», affermando che «nessuno sa se la Danimarca» – lo Stato di cui la Groenlandia fa parte – «ha un diritto legale» su di essa. Ha inoltre dichiarato che la popolazione dell’isola potrà «decidere sull’indipendenza».

Quanto a Panama, nel suo discorso il neopresidente americano ha giustificato l’ipotesi dell’uso della forza per la sua riconquista dicendo: «Abbiamo bisogno di sicurezza economica, il canale di Panama è stato costruito dai militari, non mi impegno ora a fare questo, ma potrebbe essere quello che dovremo fare», e sottolineando che il canale di Panama «è vitale per il nostro Paese, ora è gestito dalla Cina. Noi abbiamo dato il canale a Panama non alla Cina, e loro ne hanno abusato».

Forse ancora più impressionante è stata la presa di posizione nei confronti del Canada. Il prossimo inquilino della Casa Bianca ha detto di aver l’intenzione di usare la «forza economica» (applicando dazi) nei confronti dello Stato vicino. Ma l’obiettivo è che esso diventi il 51° Stato americano. 

«Potremmo liberarci di quella linea di confine costruita artificialmente e sarebbe anche molto meglio per la sicurezza nazionale». Un progetto confermato da fatto che Trump ha pubblicato, sul suo social «Truth», una mappa in cui il Canada far parte degli Stati Uniti.

Il neo-presidente ha anche voluto lanciare un avvertimento al Messico, responsabile, a suo avviso dell’immigrazione irregolare e della penetrazione della droga. «Cambierò il nome al Golfo, lo chiamerò Golfo d’America. Come suona bene!», ha detto.

Ma i suoi strali sono stati rivolti anche agli alleati della NATO, ai quali ha ribadito la necessità di aumentare le spese per la difesa se non vogliono perdere l’ombrello americano con l’uscita degli Stati Uniti dall’Alleanza. «Se lo possono permettere tutti», ha sostenuto Trump, «ma dovrebbero pagare il 5% del PIL, non solo il 2%».

È la logica del sovranismo: «Ci stiamo avvicinando all’alba dell’età dell’oro dell’America», ha concluso, davanti ai suoi sostenitori in delirio.  

Il sovranismo e l’Occidente

Siamo davanti a una visione che, secondo la valutazione di un osservatore acuto come Vittorio Parsi, «seppellisce il concetto di Occidente, che è quello invece che ha costruito il mondo del secondo dopoguerra e fino all’altro ieri». Ma che, soprattutto, cancella ogni riferimento al diritto internazionale e al suo fondamento etico, in nome del primato assoluto della «sicurezza nazionale» degli Stati Uniti e dei loro interessi economici.

Le risposte dei potenziali aggrediti

Le risposte a questo discorso non hanno tardato ad arrivare. «La Groenlandia appartiene ai groenlandesi e non è in vendita», ha avvertito la premier danese Mette Frederiksen, mentre re Frederik ha cambiato appositamente lo stemma reale per inserirvi i simboli di Groenlandia e isole Faroe.

E il ministro degli Esteri panamense Javier Martinez-Acha ha ribadito che la sovranità del Canale di Panama «non è negoziabile (…).  Il Canale appartiene ai panamensi e continuerà ad essere così». 

Anche il Canada ha risposto alle minacce di dazi da parte di Donald Trump dichiarando che non «farà nessun passo indietro. Le dichiarazioni del presidente eletto Trump dimostrano una totale incomprensione di ciò che rende il Canada un paese forte. Non ci arrenderemo mai di fronte alle minacce», ha dichiarato su X la ministra degli Esteri Melanie Jolie. Poco dopo, il primo ministro dimissionario Justin Trudeau ha aggiunto: «Mai e poi mai il Canada farà parte degli Stati Uniti» .

L’appoggio di Musk al neonazismo tedesco

Di questo sovranismo senza regole morali Musk è, da parte sua, il profeta a livello mediatico, con la  sua rete di comunicazione appoggiata su 67.000 satelliti, a cui anche l’altro grande padrone del mondo mediatico, Mark Zuckerberg, si  è ultimamente allineato, con quella che molti quotidiani hanno definito una «resa» all’ex concorrente ormai onnipotente.

Perché Musk non è ormai solo un imprenditore, ma un soggetto politico che  interferisce, col suo potere economico e mediatico, nella vita interna di vari Stati. Come abbiamo già visto nelle critiche a quei magistrati italiani che ostacolano i progetti del governo italiano in tema di migrazioni.

Recentissime, poi, sono le prese di posizione di Musk a favore di Aletrnative für Deutchland, il partito tedesco di estrema destra, con forti ascendenze neonaziste, che attualmente è in Germania al secondo posto.

In una conversazione di 75 minuti con la candidata alla Cancelleria, Alice Weidel, trasmessa in questi giorni sulla propria piattaforma X – a poco più di mese dalle imminenti elezioni tedesche – , il tecnomiliardario ha collegato la linea di Trump a quella di Alternative für Deutchland: «I tedeschi devono votare per il cambiamento, come hanno fatto gli americani, e per questo raccomando con forza di votare la Afd, è puro buon senso. Solo Afd può salvare la Germania, fine della storia». La stessa logica che sta portando Musk a sostenere con ingenti finanziamenti l’estrema destra britannica, come aveva fatto con Trump nella campagna per la Casa Bianca.

Siamo davanti, insomma, a un dichiarato progetto politico-ideologico, di cui Trump, negli Stati Uniti, è l’espressione istituzionale – qualcuno, maliziosamente, dice “il braccio” – , e Musk, a livello planetario, quella culturale e finanziaria (“la mente” e il “portafoglio”).

La posizione della Meloni

Questo è il contesto in cui si è svolta la celebrata “missione” della Meloni, della cui visita Trump ha peraltro parlato come di un atto di omaggio: «La premier italiana Meloni è volata fin qui per poche ore solo per vedermi».

Non sono parole che definiscono una partnership e che sembrano piuttosto indicare un vassallaggio. E in effetti uno Stato sovrano non avrebbe avuto bisogno di chiedere il permesso per negare l’estradizione chiesta da un altro Stato. Il fatto è che il sovranismo di quello più potente può coesiste con gli altri sovranismi solo assoggettandoli e capovolgendoli, così in una dipendenza che è il loro contrario.

Certo è che la nostra premier, nella sua conferenza stampa di inizio d’anno, non ha detto una parola di critica al discorso di Trump, che pure ci riguarda direttamente, sia per la parte che concerne l’eventuale attacco militare alla Danimarca, che fa parte sia dell’UE che della NATO, sia per la richiesta di investire il 5% del PIL in spese miliari (l’Italia attualmente non riesce neppure ad arrivare al 2%).  

Tanto meno – dopo aver infinite volte ripetuto, per Ucraina e Israele, la condanna verso chi aggredisce e l’appoggio incondizionato all’aggredito – ha fatto un cenno di solidarietà agli Stati minacciati da Trump.

Anzi ha definito il presidente americano «una persona che quando fa una cosa la fa per una ragione» e ha ripreso quasi alla lettera le sue argomentazioni, ricordando che «il canale di Panama fu costruito a inizi del ‘900 dagli Stati Uniti, ed è fondamentale per il mercato mondiale e per gli Usa. La Groenlandia» – ha continuato – «è un territorio particolarmente strategico, ricco di materie prime strategiche: sono territori su cui negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente protagonismo cinese. Per il Canada si potrebbe fare un ragionamento simile». 

In conclusione, Meloni – pur dicendosi personalmente convinta che l’attacco militare non ci sarà – non mette in discussione la nuova impostazione data da Trump e la condivide.

Il futuro della democrazia

Nella sua conferenza stampa la nostra premier ha parlato anche di Musk, sostenendo che «non è un pericolo per la democrazia» e che l’eventuale affidamento della sicurezza delle nostre comunicazioni militari alla rete satellitare Starlink da lui controllata è solo un problema tecnico, che verrà risolto nelle sedi competenti.

Interpellata sul sostegno elettorale dato da Musk ad Alternative für Deutschland, ha risposto che ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero. Fingendo di non sapere che Musk non è un qualunque privato, bensì il detentore di un potere immenso che ormai sembra deciso a sfruttare senza scrupoli per un progetto politico in sintonia con quello ex nazista. È saggio mettere il nostro sistema di comunicazione militare nelle sue mani?

Non sembra eccessivo chiedersi, davanti a questo quadro quale sia il futuro dell’Occidente e, in particolare, dove stia andando il nostro paese. È molto dubbio che il suo prestigio sarà accresciuto dal ridursi ad essere il valletto di un arrogante padrone come Trump o dal mettersi sotto il controllo di Musk, magari in cambio di qualche vantaggio economico. Ma soprattutto è dubbio che, in questo contesto, possa sopravvivere quello che finora abbiamo chiamato democrazia.

 *Editorialista e scrittore. Pastorale della Cultura dell’Arcidiocesi di Palermo.

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martedì 12 novembre 2024

IL MEGA e IL MAGA


 Un Mega contro il Maga di Trump

Il past president del Cese, l'organismo che rappresenta la società civile europee, Luca Jahier analizza i molti importanti dossier che coinvolgono l'Ue nella nuova era trumpiana, per concludere che occorre rispondere al "Make America Great Again" del tycoon con il "Make Europe Great Again"

di Luca Jahier

È da un anno che in Europa si dibatte sulla eventualità di un ritorno di Donald Trump. Ma questo lungo tempo di attesa non pare aver finora prodotto strategie operative e quel salto di qualità che sarebbe necessario, prima per non perire e poi per svolgere quel ruolo che l’Europa ha svolto con grandi risultati nei decenni passati, cioè di coniugare il volto di un altro Occidente, promotore di pace, progresso condiviso e multilateralismo.

Dal nucleare, al clima, tutti i ripiegamenti Usa

Non è certo un mistero capire quali saranno le linee di impatto della seconda amministrazione Trump sull’Europa: basta guardare a cosa è successo durante la sua prima presidenza. Principale sponsor e sostenitore della Brexit, ritenendo che l’Europa unita non fosse interesse degli Usa e arrivando persino a definire l’Ue come il peggior nemico degli Stati Uniti, con gli esiti che sappiamo, ma che allora fecero molti adepti in molti paesi europei. Poi l’uscita dall’accordo sul nucleare con l’Iran, l’uscita dall’accordo di Parigi sul clima, l’imposizione di dazi commerciai nei confronti di diverse esportazioni europee per finire alla sfida rispetto alle spese per la difesa in ambito Nato. In questo secondo mandato si possono solo aspettare elementi di maggiore assertività su questi punti, sia perché le strategie di questa presidenza sono state preparate con molta più solidità della precedente, sia perché le spinte per una nuova primazia americana sugli scenari internazionali è molto più impellente di allora, sia per gli aspetti della sfida della rivoluzione tecnologica ed economica in corso, sia perché l’asse principale del confronto geopolitico mondiale è quello del Pacifico e dello scontro con la Cina (con la quale i dazi su alcuni prodotti sono già al 60%) e gli Stati Uniti non intendono più perdere troppo tempo con l’Europa o il Medio Oriente.

Trump I e II, ecco le differenze

La differenza radicale di oggi con la prima amministrazione Trump è il fatto che allora in Europa vi erano alcune leadership solidissime, da Macron a Merkel, affiancate da Juncker e Tusk (l’altro Donald) che riuscirono in tempi brevi a darsi strategie unitarie per fronteggiare le politiche aggressive verso l’Europa di Trump. L’esempio probabilmente di maggior successo in questo è stato la gestione nel negoziato della Brexit, sul quale, contro la previsione di molti, l’Europa non solo non si è divisa ma ha saputo persino rafforzarsi, pur perdendo un membro di grande peso. La seconda è che ora siamo in una situazione di “guerra estesa”, i cui punti di maggiore e devastante crisi sono il fronte ucraino e il Medio Oriente. E questo non solo pesa già per gli enormi costi in vite umane ma anche in spese militari e per la difesa e costi economici che abbiamo e dovremo sostenere, ma anche per le grandi incognite rispetto al futuro, di fronte al quale l’annunciato abbandono dell’Ucraina da parte di Trump e un suo negoziato diretto con Putin per congelare il conflitto sulle posizioni attuali, per ora, sarebbe assai nero per l’Ucraina, per la Moldova, per la Georgia, ma anche peer l’Europa e per le aeree più vicine, a partire dai Balcani.

Finita la speranza coltivata da molti che non finisse così, resta ora la crudezza di una realtà da affrontare, evitando il rischio della rincorsa disordinata alla corte del vincitore per ottenere qualche favore sui propri specifici interessi nazionali. Al di là di coloro che in Europa esultano e si aspettano che esso dia una spinta alle forse populiste e nazionaliste nelle prossime tornate elettorali (da Orban a Le Pen passando per l’Afd tedesca) se comincerà quella sorte di “pellegrinaggio a Lourdes” di cui si sono già viste alcune avvisaglie, allora non resta che la rassegnazione, che già Balzac aveva definito una sorta di suicidio quotidiano. Analogamente sarebbe quello di attestarsi, come insieme dei paesi europei e delle istituzioni comuni, su una sola postura di strategie difensive, secondo una logica di limitare per quanto possibile i danni oggi, sperando in un domani migliore. Una postura dal fiato molto corto e che però già si intravede dai timidissimi risultati del vertice di Budapest di questi giorni.

Il tweet di Gonzales Laya: «Il futuro dell’Europa è nelle mani dell’Europa»

Mi pare che il migliore commento politico al risultato del voto sia contenuto in un tweet di Arancia Gonzales Laya, già ministro degli Esteri spagnolo e oggi succeduta a Enrico Letta come decana della Paris School of international Affairs, a Science Po. “Trump non è il problema, Harris non sarebbe stata la soluzione. Il futuro dell’Europa è nelle mani dell’Europa. Il lavoro deve cominciare ora” Agli inizi di quest’anno di ho scritto un libro Fare l’Europa, fare la pacePer evitare il collasso del progetto europeo (Feltrinelli), indicando una concreta Agenda della speranza per questa nuova fase post elezioni europee.

Insomma, è ora che la risposta a ciò che ormai ha sostituito il cuore della tradizione repubblicana americana, cioè il “movimento Maga”, ancora richiamato da Trump nel suo discorso della vittoria come il più grande evento politico della storia americana, diventi per l’Europa il Mega “make Europe great again”!

È il tempo di fare quello che ebbi già a definire come un “salto quantico”, in termine di politiche, di integrazione, di istituzioni e investimenti comuni che è la sola condizione per non frantumare quanto abbiamo costruito, preservare il nostro modello sociale e democratico e poter definire un nuovo ruolo negli scenari internazionali così sconquassati che stiamo vivendo. Dopo la caduta del muro di Berlino l’Europa seppe superare le reticenze accelerando sul mercato interno e progettando sia l’Euro che il più grande allargamento della storia. Dopo la pandemia, l’Europa ha saputo rispondere con il Next generation EU, basato su 750 miliardi di debiti europei, finalizzati in gran parte a rafforzare la strategia del Green Deal e della transizione digitale, che era stata messa al centro della legislatura pochi mesi prima.

L’agenda delle cose possibili

Ora l’agenda delle cose possibili e necessarie è molto ampia, ma credo che una strategia solida si possa basare almeno su questi cinque punti. Assumere l’Agenda Draghi e il Rapporto Letta come progetto costituente di questa e della prossima legislatura, a partire da una solida strategia industriale e di sovranità strategica e dall’Unione del mercato dei capitali, per favorire i flussi degli investimenti necessari. Un fondo europeo per la Difesa, basato sul debito comune. Un decisivo rilancio della Agenda verde, sul quale l’Europa ha oggi un vantaggio competitivo, anche in ambito tecnologico. Affrontare il nodo dei meccanismi decisionali in seno all’UE, abolendo almeno il potere di veto. Fare dell’allargamento, della politica Mediterranea e di una alleanza strategica con l’Africa gli assi traenti di una decisiva politica estera comune. Sono tutti aspetti per i quali i piani concreti ci sono, con già precisi riferimenti nelle deleghe dei nuovi commissari europei che entreranno in funzione, Ci vuole però un salto decisivo di leadership politica nelle capitali europee, in molte della quali prevale oggi una condizione di fragilità sia economica che politica, che sostenga quella che si può presumere sarà un tandem ai vertici europei molto forte e molto sintonico, Von der Leyen e Costa, che tra poche settimane dovrebbero essere nel piano dei loro rispettivi mandati.

La sola speranza non è certo una strategia, ma oggi siamo chiamati ad evitare che il mondo cada in uno scenario tipo anni ‘30 dello scorso secolo, quando gli USA fecero una scelta isolazionista  a seguito della crisi del ’29, e siamo sfidati non solo a dare un buon futuro a noi europei ma anche a rappresentare il volto di un altro Occidente nelle dinamiche delle relazioni internazionali.

Luca Jahier è past president del Cese, l’organismo di rappresentanza della società civile europea

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