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Gli italiani nel 2006 a Herat avevano costruito dieci scuole per diecimila bambini. Ci portarono all’inaugurazione di un edificio con i muri candidi. I banchi odoravano di legno fresco. E c’erano, sedute a quei banchi, anche le bambine. Meravigliatissime di avere un maestro e una lavagna davanti, anche loro, femmine. Avevano bellissimi occhi...
Era l’aprile del 2006, a Herat. Anche lì, nel cuore aspro dell’Afghanistan, l’aria sapeva ormai di primavera. Gli uomini dell’Esercito italiano si avventuravano per strade impervie fino a villaggi remoti, per scavare pozzi e costruire scuole. Noi giornalisti 'embedded' scendevamo con loro dalle jeep, gli occhi della gente mostravano diffidenza. Un ragazzino infine si avvicinava, chiedeva in pashtoun all’interprete: «Chi siete? Non siete russi?» (gli afghani odiavano i sovietici, che li avevano invasi). Saputo che eravamo italiani si facevano amichevoli, uno sciame di bambini ci circondava. Come in una scena di Sciuscià.
Gli italiani nel 2006 nella regione di Herat avevano costruito dieci scuole per diecimila bambini. Ci portarono all’inaugurazione di un edificio con i muri candidi. I banchi odoravano di legno fresco, gli alunni vestiti a festa. E c’erano, sedute a quei banchi, anche le bambine. Meravigliatissime di avere un maestro e una lavagna davanti, anche loro, femmine. Avevano bellissimi occhi scuri, o, alcune, chiarissimi. Eredità, ti chiedevi, del passaggio dell’esercito sovietico?
Penso oggi alle bambine di quel primo giorno di scuola del 2006. Hanno 21 anni, probabilmente già sono madri. Sanno leggere e scrivere. Qualcuna, poche, hanno studiato, forse sono andate all’università.
Quando ho visto ieri la bandiera dei mujaddin sventolare sull’Università di Kabul ho pensato a loro, ai loro progetti, ai talenti cancellati. A quei begli occhi di nuovo imprigionati sotto a un burqa.
Al mercato a Herat avevo comprato un burqa: volevo capire come ci si sta, sotto. Era di stoffa sintetica, pesante. D’estate, un tormento. Me lo infilai. La rete fitta sugli occhi, scoprii, non serve solo per non essere viste: serve anche per impedire di vedere bene, di leggere, di guardarsi attorno. Il burqa è una prigione. Le ragazzine a Herat se lo confezionavano però, in quel 2006, con stoffe a fiori e a pois: mi inteneriva, questo loro tentare di ingentilire la cella quotidiana.
Di Kabul ricordo soprattutto la polvere, la polvere che dalle strade bombardate prima dai russi, poi dagli americani di Enduring Freedom, si alzava come una tempesta di sabbia al passaggio di ogni tir sulla Jalalabad road. Tir in arrivo dal Pakistan, enormi, ricoperti di luci colorate e campanelli, come straordinarie giostre. In questa nebbia di polvere le donne in burka blu sembravano fantasmi tutti uguali, inseguite dai loro bambini. E io mi chiedevo, ma come fanno i bambini a non sbagliare mamma? Kabul semidistrutta dai bombardamenti era uno spettacolo di devastazione. L’interprete afghano era un professore di italiano che sapeva Dante a memoria. «Sa – mi disse mestamente mentre procedevamo fra macerie e mercatini miserabili – è difficile crederlo, ma era bella Kabul, prima della guerra». Una guerra infinita. Eppure, il professore si accalorava a spiegare a noi giornalisti che in 4 anni il Paese aveva avuto una Costituzione, un Parlamento, e avrebbe avuto libere elezioni. «Elezioni, capite? Ma vi rendete conto?», diceva commosso.
A Kabul il 132esimo Reggimento di Artiglieria stava a Camp Invicta, e noi giornalisti anche. Una fortezza circondata da filo spinato e ronde. Un giorno andai all’ambasciata italiana. Alle otto del mattino trovai il cappellano che nella chiesetta vuota diceva Messa, solo, il fido lupo Benjamin accucciato dietro l’altare. Sulle macerie e la polvere e la miseria di Kabul un sacerdote innalzava ogni mattina l’Eucarestia. A Herat, gli italiani stavano a Camp Vianini, una caserma con viali di ghiaia e ciliegi in fiore che pareva un convento. Fuori, la città brulicava di vita. Non ostile, però, ci pareva. La sera gli ufficiali si ritrovavano in un cortile quieto. Da un tetto si affacciava, timido e affamato, un dingo, un felino asiatico, gli occhi gialli brillavano nel buio. Si parlava, in quel cortile, nel profumo dei gelsomini, di guerra e pace, di Kabul e di Roma, e di figli lontani. Anche di calcio, come sempre fra italiani. Mi pareva d’essere nel Deserto dei Tartari: in attesa di un nemico che non arrivava, ma c’era, silenzioso, fuori. Pochi giorni dopo la nostra partenza un kamikaze si fece esplodere all’ingresso di quella caserma, uccidendo le due guardie afghane, ferendo lievemente degli italiani.
I Tartari, mi dissi, erano arrivati. I Tartari sono tornati, un’invasione imponente e stranamente senza resistenze (le ambasciate cinese e russa, leggo, sono rimaste aperte. Chissà quale partita s’è giocata, oscuramente, sulla vita degli afghani). Chi può scappa, si accalca disperatamente all’aeroporto, l’ultimo spiraglio. Parte il più forte, chi spinge di più. Penso a quel professore che recitava Dante, e ancora di più a quelle bambine sui banchi. Così eccitate: una matita in mano, un quaderno, incredibile. Gli occhi brillavano – come per un meraviglioso nuovo gioco.
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