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sabato 28 agosto 2021

DOLORE E SDEGNO PER L'ATTENTATO A KABUL

La presidenza della Conferenza episcopale italiana ha diffuso un messaggio di "dolore e sdegno" per la strage di giovedì a Kabul. 

"Esprimiamo dolore e sdegno per il vile attentato che ieri, 26 agosto, all’aeroporto di Kabul, in Afghanistan, ha provocato centinaia di vittime e feriti, causando ulteriore dolore a un popolo già provato dalla sofferenza e dalla paura. Purtroppo, abbiamo assistito in questi anni a scelte che si sono rivelate nel tempo poco lungimiranti e incapaci di garantire la necessaria sicurezza alla popolazione afghana. 
Di fronte a questa ennesima strage, che offende profondamente la dignità umana, rinnoviamo l’invito di Papa Francesco “affinché cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del dialogo”. Per questo, rivolgiamo un appello alla Comunità internazionale, perché si faccia finalmente garante della pace in Afghanistan e nell’intera regione mediorientale, da troppo tempo attraversata da conflitti e segnata da violenze che sempre ricadono sulla popolazione civile, gravando soprattutto sulle persone più fragili e indifese. 
Il mondo non può voltare gli occhi dall’altra parte, fingendo di non vedere che, nelle complesse vicende politiche e militari in corso a Kabul e nel resto del Paese, ancora una volta vengono meno i diritti di bambini, donne, anziani, minoranze etniche e religiose. Invitiamo tutti a volgere lo sguardo del cuore verso chi è più bisognoso e vive in povertà e malattia. 
Rivolgiamo un pensiero fraterno alle piccole comunità cristiane dell’area, assicurando l’impegno della Chiesa che è in Italia a partecipare ai programmi di accoglienza dei profughi in accordo con le Istituzioni. E mentre invitiamo le nostre comunità ecclesiali a invocare la pace per la martoriata terra afghana e per tutti gli altri contesti in cui soffiano venti di guerra, assicuriamo preghiere per le vittime e vicinanza ai loro cari, così come a quanti stanno pagando il prezzo più alto di questa nuova ondata di violenza. 

La presidenza Cei 

AFGHANISTAN, ISLAM E DONNE

 

- di Giuseppe Savagnone* 

- Tra un futuro angosciante e un passato tutt’altro che roseo
 Uno degli aspetti della crisi afghana più fortemente sentiti dall’opinione pubblica occidentale riguarda il destino delle donne, che rischiano di essere private dal nuovo regime dei diritti finalmente riconosciuti loro nei venti anni precedenti. Per quanto i vincitori abbiano fatto delle dichiarazioni che garantiscono il mantenimento di questi diritti, resta vivo il ricordo di ciò che è avvenuto sotto il loro governo dal 1996 al 2001, quando alle donne era proibito di uscire di casa senza il burqa e senza un accompagnatore maschio, di frequentare le scuole, di praticare gli sport, di esercitare le professioni. Si capisce perciò la disperazione di tante che, dopo aver respirato un clima diverso, diffidano delle promesse verbali e guardano al futuro con angoscia. Il problema però è assai più complesso di quanto sembra emergere dalla reazione emotiva dell’Occidente di fronte all’avvento dei talebani e ha le sue radici in una cultura diffusa nel Paese anche prima della loro vittoria. Un quadro tracciato da “Osservatorio Afghanistan”, che descriveva la situazione nel 2020, mette in luce la relatività dei passi fatti in questi venti anni di emancipazione femminile: «In Afghanistan il tasso di analfabetismo femminile si aggira ancora tra l’84 e l’87%. 
Nella capitale Kabul va meglio, ma nei villaggi rurali, specialmente quelli controllati dai fondamentalisti, i genitori non si fidano a mandare a scuola i figli, soprattutto le bambine. Pertanto, il 66% delle ragazzine tra i 12 e i 15 anni, non studia. Tra il 60 e l’80% delle donne è costretta dalla famiglia a sposarsi contro il proprio volere. La violenza domestica è molto presente. Le difficoltà riguardano anche il lavoro: chi riesce a lavorare è perché è iper-qualificato, ma non lo sono le donne, che al massimo possono occuparsi di pulizie e cucito. Non va meglio per la situazione sanitaria: il 50% delle donne continua a partorire in casa, con la sola assistenza di parenti più anziane, e la mortalità materna è ancora altissima. Il 95% dei suicidi sono commessi da donne». (www.osservatorioafghanistan.org). Insomma, c’era poco da stare allegri anche prima. Certo, una élite di donne, soprattutto nelle città, ha potuto finalmente emergere. Ma non è una svolta a cui abbia avuto accesso la maggior parte della popolazione femminile. I talebani sono solo l’espressione più evidente ed estrema di una sorda resistenza alla modernità che non ha cessato di penalizzare le donne sul piano dei fatti, anche quando i loro diritti erano sanciti sulla carta. E la loro vittoria sul campo di battaglia ha il proprio retroterra e la propria spiegazione in una realtà sociale e culturale che l’Occidente percepisce solo in occasione di eventi traumatici, come quelli di questi giorni, ma di cui di solito non si cura minimamente. 
Un fattore decisivo, anche se non l’unico, di questa avvilente condizione delle donne è certamente quello religioso. Questo problema non riguarda però solo l’Afghanistan. L’islam, pur con il grande contributo dato allo sviluppo della civiltà (dei cui frutti godiamo anche noi occidentali), non sembra aver creato un contesto favorevole all’emancipazione femminile.
 La tradizione cristiana e quella islamica 
Evidente il contrasto con ciò che è avvento nel mondo occidentale sotto l’influsso del cristianesimo. Pur attraverso drammatiche crisi e resistenze – si pensi alla “caccia alle streghe” e alle vittime dell’Inquisizione, prevalentemente donne – la tradizione cristiana ha visto emergere figure femminili di primissimo piano, non solo nella sfera strettamente religiosa, ma anche in quella politica. Valgano per tutte due figure diversissime, come Caterina da Siena (1347-1380), protagonista del ritorno dei papi da Avignone a Roma, e Giovanna d’Arco (1412-1431), eroina della liberazione della Francia dal dominio inglese durante la Guerra dei cent’anni. Ed erano entrambe analfabete e di origine sociale modesta! Per non parlare poi di altre che, pur senza una connotazione specificamente spirituale, sono state comunque espressione di una società cristiana, come Elisabetta (1533-1603), regina d’Inghilterra o Caterina, zarina di Russia (1684-1727), o Maria Teresa (1717-1780), imperatrice d’Austria. Figure che la storia ci ha tramandato come decisive per le loro capacità politiche, pur strettamente unite – per noi, oggi, sorprendentemente – con la fedeltà ad un ruolo femminile tradizionale quale quello sponsale e materno (Maria Teresa ebbe dal marito, a cui fu legatissima, sedici figli; Caterina, anche lei sposa innamoratissima, ne ebbe tredici). Sorprende di meno, in questo quadro, che in Occidente si siano fatti strada, anche se con fatica e contrasti (e vincendo talvolta le resistenze della Chiesa), i diritti delle donne.
Nella storia passata della civiltà islamica questo protagonismo femminile è stato assai meno accentuato, almeno a livello pubblico. Non del tutto assente, però. Aisha, la moglie più giovane di Maometto, dopo la sua morte fu a capo di una ribellione contro il califfo Alì, cugino del Profeta, anche se fu sconfitta. Esempio, comunque, di come per gli islamici non fosse un problema in sé avere come capo una donna. Bisogna dire, però, che per il passato questi esempi sono molto rari. Assai più numerosi sono invece nel mondo islamico contemporaneo: da Benazir Bhutto, primo ministro del Pakistan dal 1988 al 1990 e dal1993 al 1996, a Tansu Penbe Çiller, primo ministro turco dal 1993 al 1996, a Megawati Sukarnoputri, presidente dell’Indonesia dal 2001 al2004, a Khaleda Zia, primo ministro del Bangladesh dal 1991 al 1996 e nuovamente dal 2001 al 2006, a Sheikh Hasina Wazed, anche lei primo ministro del Bangladesh dal 1996 al 2001 e dal 209 al 2018.
 Testi sacri e tradizioni 
Alla luce di questi sviluppi più recenti, appare dunque plausibile – di fronte alle frequenti accuse, rivolte all’islam, di avere una concezione della donna intrinsecamente incompatibile con la sua dignità – la risposta di Tawakkol Karman, una giornalista yemenita di 38 anni, che nel 2011 ha ricevuto il Nobel per la pace proprio per il suo contributo alla causa dell’emancipazione delle donne, secondo cui «il ‘nemico’ dell’ emancipazione femminile non è il Corano, bensì i regimi, la corruzione e le tradizioni arcaiche» («Avvenire» del 21 settembre 2016). Si obietterà che nel Corano ci sono testi, come la sura 4, detta «sura delle donne», dove si legge: «Gli uomini sono preposti alle donne, perché Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri e perché essi donano dei loro beni per mantenerle (…); quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza, ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti, poi battetele; ma se vi ubbidiranno, allora non cercate pretesti per maltrattarle; ché Iddio è grande e sublime» (34). È vero però anche che Maometto, rispetto al regime pre-islamico, ha introdotto delle norme che implicavano un maggior rispetto per la donna. Così, per esempio, in contrasto con l’usanza che, in caso di morte del marito, prevedeva il passaggio automatico delle mogli all’erede, si legge nella stessa sura 4: «O voi che credete! Non vi è lecito ereditare mogli contro la loro volontà, né di impedire loro di rimaritarsi» (19). E un detto attribuito a Maometto dalla tradizione suona: «O uomini! (…) Voi avete dei diritti verso le vostre donne, ma anche le vostre donne hanno dei diritti su di voi. Trattatele bene, esse sono il vostro aiuto». Siamo dunque davanti a testi ambivalenti. Ma non dimentichiamo che anche Paolo, nella prima lettera ai Corinti, scrive che «l’uomo (…) è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo» (11,7-9). 
Come spiega una nota biblista, Rosanna Virgili («Avvenire» del 1 settembre 2016), qui Paolo non fa altro che rievocare il testo della Genesi, dove si parla dell’origine della donna, tratta dal fianco di Adam. Rispetto a questo antico racconto, però, l’apostolo aggiunge di suo – e questa è la novità del cristianesimo rispetto alla precedente tradizione –: «Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio» (1Cor 11, 11-12). Solo così, del resto, nota la Virgili, si spiega la chiara affermazione della reciprocità fra uomo e donna enunciata nella stessa lettera da Paolo: «La moglie non ha potere sul proprio corpo, bensì il marito e, allo stesso modo, anche il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie» (1Cor 7,4). Anche qui, tuttavia, resta la problematicità. 
Il punto è che i testi devono essere interpretati. Nella sua interpretazione, pur con tanti limiti, il cristianesimo sembra aver dato luogo a una tradizione in complesso più favorevole all’emancipazione femminile. Ne è una conferma la presenza, tra le popolazioni di religione islamica, di costumi come le mutilazioni genitali femminili. Come osserva un autorevole teologo cattolico, Joachim Gnilka, la cosiddetta “circoncisione femminile” «non è prevista nel Corano» ma era diffusa in Africa molto prima dell’islam. Però, il cristianesimo seppe reagire assai meglio a questa barbara usanza. A questo proposito un’antropologa, Carla Pasquinelli parla di una «africanizzazione dell’Islam», per cui esso si è mostrato «più tollerante nei confronti delle mutilazioni dei genitali femminili, che invece sono state più contrastate da parte cristiana, venutasi spesso a trovare in aperto conflitto con le culture locali».
 Quello che l’Occidente può fare 
Saprà l’islam proseguire sulla strada della progressiva valorizzazione della donna, come i segni confortanti di cui abbiamo parlato lasciano sperare? Al di là della questione dei talebani, è questo sviluppo culturale che sarà decisivo, per l’Afghanistan come per tutto il mondo islamico. Ci si può chiedere come l’Occidente possa contribuire a questa maturazione. Non certo con le occupazioni militari, ma creando un confronto su alcune delle divergenze più profonde che, sul problema della donna, lo dividono dall’islam. Questo però significa, in una certa misura, rimetterci in discussione. Per fare solo un esempio, la risposta più adeguata della nostra cultura all’enfasi esasperata del mondo islamico sul nascondimento del corpo femminile non può essere l’irrisione, ma dovrebbe passare da una seria riflessione sull’autentico senso del pudore, che porti alla sua riscoperta come custodia dell’anima, prima che del corpo, contro uno stile consumistico, diffuso nelle nostre società “emancipate”, che tende a trasformare in spettacolo il mistero delle persone e in oggetto il corpo femminile… 
Sul modo vedere la donna una lunga strada attende l’islam. Ma sarebbe bene chiederci se noi siamo davvero arrivati. 

*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo 

giovedì 19 agosto 2021

HERAT. AVEVANO OCCHI BELLISSIMI


 - di MARINA CORRADI

 - Gli italiani nel 2006 a Herat avevano costruito dieci scuole per diecimila bambini. Ci portarono all’inaugurazione di un edificio con i muri candidi. I banchi odoravano di legno fresco. E c’erano, sedute a quei banchi, anche le bambine. Meravigliatissime di avere un maestro e una lavagna davanti, anche loro, femmine. Avevano bellissimi occhi... 
Era l’aprile del 2006, a Herat. Anche lì, nel cuore aspro dell’Afghanistan, l’aria sapeva ormai di primavera. Gli uomini dell’Esercito italiano si avventuravano per strade impervie fino a villaggi remoti, per scavare pozzi e costruire scuole. Noi giornalisti 'embedded' scendevamo con loro dalle jeep, gli occhi della gente mostravano diffidenza. Un ragazzino infine si avvicinava, chiedeva in pashtoun all’interprete: «Chi siete? Non siete russi?» (gli afghani odiavano i sovietici, che li avevano invasi). Saputo che eravamo italiani si facevano amichevoli, uno sciame di bambini ci circondava. Come in una scena di Sciuscià. Gli italiani nel 2006 nella regione di Herat avevano costruito dieci scuole per diecimila bambini. Ci portarono all’inaugurazione di un edificio con i muri candidi. I banchi odoravano di legno fresco, gli alunni vestiti a festa. E c’erano, sedute a quei banchi, anche le bambine. Meravigliatissime di avere un maestro e una lavagna davanti, anche loro, femmine. Avevano bellissimi occhi scuri, o, alcune, chiarissimi. Eredità, ti chiedevi, del passaggio dell’esercito sovietico? Penso oggi alle bambine di quel primo giorno di scuola del 2006. Hanno 21 anni, probabilmente già sono madri. Sanno leggere e scrivere. Qualcuna, poche, hanno studiato, forse sono andate all’università. 
Quando ho visto ieri la bandiera dei mujaddin sventolare sull’Università di Kabul ho pensato a loro, ai loro progetti, ai talenti cancellati. A quei begli occhi di nuovo imprigionati sotto a un burqa. Al mercato a Herat avevo comprato un burqa: volevo capire come ci si sta, sotto. Era di stoffa sintetica, pesante. D’estate, un tormento. Me lo infilai. La rete fitta sugli occhi, scoprii, non serve solo per non essere viste: serve anche per impedire di vedere bene, di leggere, di guardarsi attorno. Il burqa è una prigione. Le ragazzine a Herat se lo confezionavano però, in quel 2006, con stoffe a fiori e a pois: mi inteneriva, questo loro tentare di ingentilire la cella quotidiana. Di Kabul ricordo soprattutto la polvere, la polvere che dalle strade bombardate prima dai russi, poi dagli americani di Enduring Freedom, si alzava come una tempesta di sabbia al passaggio di ogni tir sulla Jalalabad road. Tir in arrivo dal Pakistan, enormi, ricoperti di luci colorate e campanelli, come straordinarie giostre. In questa nebbia di polvere le donne in burka blu sembravano fantasmi tutti uguali, inseguite dai loro bambini. E io mi chiedevo, ma come fanno i bambini a non sbagliare mamma? Kabul semidistrutta dai bombardamenti era uno spettacolo di devastazione. L’interprete afghano era un professore di italiano che sapeva Dante a memoria. «Sa – mi disse mestamente mentre procedevamo fra macerie e mercatini miserabili – è difficile crederlo, ma era bella Kabul, prima della guerra». Una guerra infinita. Eppure, il professore si accalorava a spiegare a noi giornalisti che in 4 anni il Paese aveva avuto una Costituzione, un Parlamento, e avrebbe avuto libere elezioni. «Elezioni, capite? Ma vi rendete conto?», diceva commosso. 
A Kabul il 132esimo Reggimento di Artiglieria stava a Camp Invicta, e noi giornalisti anche. Una fortezza circondata da filo spinato e ronde. Un giorno andai all’ambasciata italiana. Alle otto del mattino trovai il cappellano che nella chiesetta vuota diceva Messa, solo, il fido lupo Benjamin accucciato dietro l’altare. Sulle macerie e la polvere e la miseria di Kabul un sacerdote innalzava ogni mattina l’Eucarestia. A Herat, gli italiani stavano a Camp Vianini, una caserma con viali di ghiaia e ciliegi in fiore che pareva un convento. Fuori, la città brulicava di vita. Non ostile, però, ci pareva. La sera gli ufficiali si ritrovavano in un cortile quieto. Da un tetto si affacciava, timido e affamato, un dingo, un felino asiatico, gli occhi gialli brillavano nel buio. Si parlava, in quel cortile, nel profumo dei gelsomini, di guerra e pace, di Kabul e di Roma, e di figli lontani. Anche di calcio, come sempre fra italiani. Mi pareva d’essere nel Deserto dei Tartari: in attesa di un nemico che non arrivava, ma c’era, silenzioso, fuori. Pochi giorni dopo la nostra partenza un kamikaze si fece esplodere all’ingresso di quella caserma, uccidendo le due guardie afghane, ferendo lievemente degli italiani. 
I Tartari, mi dissi, erano arrivati. I Tartari sono tornati, un’invasione imponente e stranamente senza resistenze (le ambasciate cinese e russa, leggo, sono rimaste aperte. Chissà quale partita s’è giocata, oscuramente, sulla vita degli afghani). Chi può scappa, si accalca disperatamente all’aeroporto, l’ultimo spiraglio. Parte il più forte, chi spinge di più. Penso a quel professore che recitava Dante, e ancora di più a quelle bambine sui banchi. Così eccitate: una matita in mano, un quaderno, incredibile. Gli occhi brillavano – come per un meraviglioso nuovo gioco. 

 www.avvenire.it