DANNEGGIA L'ITALIA ?
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di Giuseppe Savagnone*
- Si ha a volte l’impressione che le polemiche sulla possibilità di
assumere come criterio decisivo di cittadinanza non più lo ius sanguinis, ma lo
ius soli, risentano di una ristrettezza di orizzonti che probabilmente è il
“peccato originale” di tutto il dibattito sul fenomeno migratorio.
Questa scarsa lungimiranza è evidente già nel conflitto, sempre
risorgente (vedi l’attacco di Salvini alla Lamorgese) tra i fautori
dell’accoglienza e quelli dei “respingimenti”, accomunati loro malgrado dalla
tendenza a ragionare nella logica del breve periodo, i primi per invocare un
“pronto soccorso” ai migranti, i secondi immaginando di poter arginare con
misure poliziesche quella che interpretano come un’invasione. La prospettiva
prevalente, in entrambi i casi, è stata e spesso rimane quella umanitaria,
dagli uni ritenuta doverosa, dagli altri derisa come “buonismo”.
È mancata spesso la percezione che la posta in gioco è piuttosto una
profonda ridefinizione del rapporto tra persona e cittadino, in un dato
contesto storico che la esige. Si continua a parlare delle ondate migratorie
come di “invasioni” e della lotta contro di esse come di una “difesa dei
confini”, paragonandole a quelle dei barbari nei confronti dell’Impero romano.
E in questo paragone qualcosa di vero c’è, anche se, paradossalmente, porta a
conclusioni opposte a quelle dei suoi sostenitori.
Ciò che essi sembrano dimenticare è che il Medioevo – frutto di questa
crisi epocale delle frontiere – fu il crogiolo in cui si plasmò una nuova
civiltà: la nostra. E che la nuova cittadinanza scaturita da quel crogiolo
permise al vecchio Impero romano di rigenerarsi profondamente in quel Sacro
Romano Impero di cui “barbari” come Carlo Magno non furono solo cittadini, ma
guide illuminate, preoccupandosi peraltro di garantire, per quanto possibile,
la continuità con la civiltà latina che era tramontata.
Oggi, anche se in un contesto storico ovviamente del tutto diverso, si
assiste, come allora, a un duplice fenomeno: da una parte è evidente la
porosità dei confini, sempre più incacaci di contenere la spinta di popolazioni
minacciate alla guerra, dalla fame o semplicemente dal desiderio di una vita
migliore; dall’altra, sui territori che un tempo questi confini delimitavano,
si ritrovano a convivere persone provenienti da culture diverse, che non sono
di passaggio, ma che si radicano stabilmente nel nuovo ambiente investendo in
esso le speranze del loro futuro.
Ripensare il rapporto tra persona e cittadinanza
Da qui l’urgenza di ripensare il rapporto tra persona e cittadinanza,
tenendo conto da un lato dell’avvento di un orizzonte planetario originato
dalla caduta dei muri e dalla globalizzazione, dall’altro del determinarsi,
all’interno delle comunità politiche, di differenze che per certi versi
rischiano di frammentarle in una molteplicità di espressioni culturali,
religiose ed etiche, per altri, però, possono – se integrate in una comune
cittadinanza – costituire una ricchezza.
Nell’antichità era la cittadinanza a definire i diritti della persona.
Nel mondo greco-romano si era qualcuno se si era cittadino. Lo straniero,
trovandosi in uno spazio in cui non aveva cittadinanza, non aveva diritti. A
Polifemo che gli chiede il suo nome, il profugo Ulisse risponde, con verità:
«Il mio nome è “Nessuno”».
Nell’età moderna, sotto l’influsso del cristianesimo, ci si renderà
sempre più chiaramente conto che esistono diritti che spettano agli individui
in quanto esseri umani; e vi sono diritti che spettano loro in quanto cittadini
di una comunità politica.
Le due sfere, certamente distinte, non sono però separabili. Anzi è
inevitabile che la priorità dell’una all’altra comporti delle conseguenze
profonde su entrambe. Nell’età moderna, è stata forte la tendenza a dare la
precedenza alla qualità di cittadino su quella di persona. La cittadinanza
politica ha assorbito e strumentalizzato senza scrupoli la dimensione umana. Si
è concepito lo Stato come “sovrano” (“che sta sopra”) rispetto alla società
civile, e non come sua espressione e come strumento per il suo sviluppo umano.
La “ragion di Stato” ha giustificato scelte politiche disumane e guerre
sanguinose.
L’epoca in cui oggi viviamo – e che molti definiscono “postmoderna” –
si è avviata (anche dopo il trauma di due spaventose guerre mondiali e
l’esperienza dei totalitarismi) verso un capovolgimento di questa prospettiva.
Oggi prevale sempre di più l’idea che il senso della cittadinanza sia di
proteggere l’umana fragilità delle persone e di accompagnarle verso il loro
pieno sviluppo, che, cioè, i diritti di cittadinanza siano in funzione dei
diritti della persona.
Nella nostra Costituzione, all’art. 2, si riconoscono i diritti
dell’uomo in tutta la loro estensione; poi, dall’art. 3 in avanti si parla di
quelli del cittadino. Non è una discontinuità: l’intento è quello di travasare
tutti i diritti umani nel concetto costituzionale di cittadinanza,
trasformandone il significato da criterio utilizzato per discriminare, fra gli
esseri umani, quelli meritevoli di tutela da quelli che non lo sono, in
attributo che deriva immediatamente dalla dignità della persona, che non
sarebbe pienamente rispettata senza il riconoscimento della sua partecipazione
alla vita pubblica.
Si può parlare, in questo senso di una vera e propria
«costituzionalizzazione della persona» Non è l’appartenenza ad una comunità a
conferire i diritti di cittadinanza, ma al contrario è l’essere persona a
conferire il diritto di questa appartenenza o almeno un’aspettativa legittima
ad essa.
I criteri della cittadinanza
Tutto ciò ha un’evidente ricaduta sul problema della maggiore o minore
estensione della cittadinanza italiana a coloro che vivono sul nostro
territorio. Lo ius sanguinis, attualmente vigente, la restringe a coloro che
hanno almeno un genitore italiano, o sono adottati da cittadini italiani,
oppure i discendenti di italiani che riescano a dimostrare la catena parentale
fino al capostipite cittadino italiano.
La cittadinanza può essere richiesta anche dagli stranieri che
risiedono in Italia da almeno dieci anni e sono in possesso di
determinati requisiti (redditi sufficienti al sostentamento, assenza
di precedenti penali e di motivi ostativi per la sicurezza della Repubblica).
Si può diventare cittadini italiani anche per matrimonio.
Una debole apertura allo ius soli è costituta dalla norma per
cui i figli di cittadini stranieri che nascono in Italia e vi risiedono
ininterrottamente fino al compimento della maggiore età possono, entro un anno
dal compimento dei 18 anni, dichiarare di voler acquisire la cittadinanza e
presentare la relativa domanda.
Lo ius soli è adottato nella sua forma più pura negli Stati Uniti, in
Brasile e altri Stati non europei. In Europa lo è, con delle condizioni. Per la
legislazione tedesca, per esempio, acquistano la cittadinanza per ius soli i
figli degli stranieri nati in Germania, purché almeno uno dei genitori vi
risieda abitualmente e legalmente da almeno otto anni e abbia il permesso di
soggiorno a tempo indeterminato.
Una terza soluzione potrebbe essere lo ius culturae, secondo cui i
minori stranieri possono acquisire la cittadinanza del Paese in cui sono nati o
in cui vivono da un certo numero di anni, a condizione che in quel Paese
abbiano frequentato le scuole (in genere un ciclo di studi) o abbiano compiuto
percorsi formativi per un determinato numero di anni.
Oltre l’“umanitarismo”
Alla luce delle considerazioni di fondo svolte più sopra, è chiaro che
arroccarsi sullo ius sanguinis non è un onesto atto di realismo, come
pretendono i suoi sostenitori, ma un modo sbagliato di concepire il rapporto
tra l’essere umano e la cittadinanza, nonché una forma di cecità sulle
dinamiche del nostro momento storico. Si può ancora continuare a “difendere le
frontiere” e a negare la parità giuridica a chi nasce nel nostro Paese, ma non
si può pretendere di farlo in nome deli interessi degli italiani, perché questi
interessi possono essere tutelati solo in base a una visione che da un lato
rispetti la dignità delle persone, dall’altro tenga conto delle dinamiche della
storia.
A chi si ostina a considerare il problema in termini “umanitari” – la
scelta tra il vantaggio anche solo materiale degli italiani e il sacrificio
doveroso di questo vantaggio in nome di un eroico quanto astratto altruismo –
sarà utile leggere un documento del Fondo Monetario Internazionale, pubblicato
nel 2019 e intitolato “Does an inclusive citizenship law promote economic
development?”, in cui ci si chiede se una legge che garantisca una cittadinanza
inclusiva promuova lo sviluppo economico di una nazione.
La risposta è decisamente positiva. Si legge nel documento del FMI: «I
Paesi dove vige un regime di ius soli tendono a essere più sviluppati di quelli
che hanno altre regole». E si spiega: «L’inclusione facilitata da opportune
leggi di cittadinanza è un motore di crescita economica e un fattore per
spiegare perché alcuni Paesi sono più ricchi di altri». Infatti, a maggiore
inclusione corrispondono «meno diseguaglianze di reddito, più parità di genere,
miglior velocità di adattamento, in una parola più crescita».
Si comprende che la crescita di cui si parla non riguarda solo la sfera
strettamente economica, ma coinvolge quella dei diritti: «Distinguendo in modo
netto i cittadini di un Paese da tutti gli altri», – osserva il rapporto
dell’FMI –, «la legge crea degli ‘in’ e degli ‘out’ con forti tensioni sociali.
Viceversa le norme dovrebbero facilitare l’integrazione predisponendo un
semplice e trasparente percorso per la cittadinanza che crei un terreno di
uguali opportunità per i nuovi arrivati».
L’occhio è comunque puntato principalmente sugli effetti che questo
sviluppo civile ha sull’economia: «Se la legge esclude certi cittadini può in
casi estremi portare a seri conflitti e danneggiare lo sviluppo economico.
Norme inclusive sono un prezioso strumento di crescita, con profonde
conseguenze per il mercato del lavoro, i programmi di welfare e le istituzioni
stesse».
È accertata, per esempio, la ricaduta sul reddito: «Fra il 1970 e il
2014 i redditi pro capite dei Paesi con lo ius soli sono stati dell’80% più
alti che in tutti gli altri».
Insomma, il migliore modo di essere “egoisti” in questo caso (come in
molti altri) e di tenere conto dei bisogni e dei diritti degli altri. Se ci si
ricordasse di questa semplice verità, si eviterebbero molti guai, nella vita
privata come in quella pubblica.
*Pastorale Scolastica Diocesi Palermo
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