Se tradurre diventa creatività semantica
Il traduttore deve mettere in gioco costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu evitando di annettere a sé una cultura diversa.
In un saggio Arduini interviene su una polemica antica
relativa alla trasposizione dei libri in altra lingua partendo dal caso
“simbolo” delle traduzioni delle Scritture
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di LBERTO FRACCACRETA
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La traduzione è un problema? Lo sono i traduttori. È quello
che sta succedendo in Europa particolarmente, in Paesi Bassi e Spagna - per la
versione del nuovo libro (in uscita a fine marzo) di Amanda Gorman, la
ventitrenne poetessa afroamericana resa celebre dalla lettura di The
Hill We Climb durante la cerimonia di insediamento del presidente
Biden. La polemica si può sintetizzare in questi termini: i bianchi non possono
comprendere a fondo (e quindi tradurre) testi afroamericani specificamente
dedicati a questioni razziali. Al di là di accese diatribe, certo è che il
processo di traduzione non coincide soltanto con un trasferimento di figure e
immagini in una lingua differente, ma ha la capacità di entrare nel cuore delle
idee e modificarle. È l’ipotesi affascinante che emerge dal saggio di Stefano
Arduini, Con gli occhi dell’altro. Tradurre ( Jaca Book,
pagine 216, euro 18), ruotante attorno a dieci nuclei tematici (tra cui
'verità', 'bellezza', 'intraducibile') intessuti di citazioni e rimandi
dall’Antico e Nuovo Testamento, con uno sguardo ai Padri della Chiesa e alle
versioni dei primi secoli del cristianesimo.
«Se la traduzione riscrive le nostre configurazioni di
conoscenze - commenta Arduini, ordinario di Linguistica all’università Lcu di
Roma -, non può essere intesa come qualcosa che ripete il già detto in modo
diverso, ma come un’operazione cognitiva che crea nuovi concetti ». Il tradurre
diviene così un’«esperienza intellettuale » a livello estremamente creativo.
Esempio lampante è il concetto di altro, transitato attraverso un estenuante
tourbillon di variazioni semantiche: i termini greci hèteros e allos, i
latini alter e alius, ma anche le nozioni di
ospitalità nell’indoeuropeo segnalate da Benveniste e poi riformulate alla luce
della filosofia di Ricoeur (la reciprocità e la sollecitudine), Lévinas
(l’invocazione), Florenskij (la sophia e la costruzione del
soggetto fuori da sé) e Meschonnic (la signifiance).
Tradurre vuol dire mettere in gioco
costantemente l’identità e l’alterità, instaurare un’amicizia
che pervade l’io nel rapporto col tu. Evitando di annettere a
sé una cultura diversa, Arduini scrive: «Dobbiamo stare in silenziosa attesa di
fronte all’alterità e in qualche modo rispettarla, accettare quello spazio
vuoto». Solo così il traduttore, «figura emblematica della nostra
contemporaneità multiculturale», può assolvere al compito di cogliere le
diversità e accoglierle. Qui ci soccorre di nuovo Ricoeur col mirag- gio
dell’«ospitalità linguistica »: «abitare la lingua dell’altro», guardare le
cose con i suoi occhi, nel solco di quell’incontro a cui la traduzione ci
educa.
L’indagine si sposta sul Prologo del Vangelo di Giovanni e in particolare su logos, divenuto verbum nella Vulgata. La sostanziale polisemia del sostantivo greco rende ardua un’adeguata trasposizione, ma ciò che più importa è che, sul piano linguistico e teologico, le speculazioni sorte attorno all’incipit giovanneo hanno modificato di fatto il corso della ricezione storica, configurandosi come «nuovi concetti per nuovi mondi». Lo stesso accade in Esodo 3,14 con la notissima espressione «Io sono colui che sono» (dall’ebraico ehyeh asher ehyeh). Siamo di fronte a un passo nei limiti del traducibile perché la posizione aspettuale del predicato nella lingua d’origine tecnicamente si tratta di un imperfettivo - pone alcune insanabili ambiguità. Ecco le possibili traduzioni: «Io ero quello che ero, Io sarò quello che sarò, Io ero quello che sarò, Io sarò quello che ero». (E tuttavia non ne esce scalfita l’immutabilità di Dio.) Aquila, Filone, Origene e poi Agostino, Girolamo e Tommaso: l’innesto del pensiero greco e latino nel sostrato ebraico fa scintille e la catena di rivolgimenti aggiunge e perde qualcosa, generando però un’identità completamente inedita. Gli slittamenti semantici del termine parresia (dire tutto) sembrano invece riscrivere un’intera 'enciclopedia culturale': dibattito e libertà di parola nel greco precristiano, apertura del cuore e trasparenza dell’anima in Dio sul versante veterotestamentario, rivelazione di Gesù e presenza dello Spirito in ambito neotestamentario. Ma nei primi secoli dopo Cristo - come suggerisce Michel Foucault - parresia diviene coraggio della verità, coraggio dei martiri nel testimoniare la fede.
Universi concettuali affini o distanti sorgono anche nelle
traduzioni dei presocratici e nelle variazioni dell’amore dall’ebraico ’ahavahfino alla
diade inconciliabile di eros e agape, quest’ultimo
forse non voce indoeuropea ma più probabilmente prestito di area semitica.
Sulla scia di Cicerone, Girolamo traduce agape in caritas e
attua così un’importante svolta nella conformazione del pensiero occidentale:
nasce «qualcosa di nuovo che è stato creato dal movimento del linguaggio».
Cognitivista di lunga data, esponente di spicco della
traduzione biblica e dei Translation Studies, Arduini ci conduce nelle arcane
radici delle lingue antiche (si pensi ai termini che in ebraico indicano
bellezza, Jafeh, bello esteriore, e Tôb, lo spazio del bene della Genesi)
lasciandoci, con la 'moltiplicazione degli sguardi' data dal mito di Babele,
alle soglie dell’Intraducibile. Il traducibile all’infinito.
Il traduttore deve mettere in gioco costantemente l’identità
e l’alterità, instaurare un’amicizia che pervade l’io nel rapporto col tu
evitando di annettere a sé una cultura diversa In un saggio Arduini
interviene su una polemica antica relativa alla trasposizione dei libri in
altra lingua partendo dal caso “simbolo” delle traduzioni delle Scritture
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