Gioventù bruciata
nell’era dei farmaci
Sos della
psicoanalista Laura Pigozzi, autrice di “Adolescenza zero”: «Siamo di fronte a
una torva medicalizzazione della crescita, oggi a ogni disagio anziché con
l’ascolto e il confronto si risponde con il farmaco»
Intervista di Luce Miele
Ragazzi che si auto
segregano in casa, altri che ripiegano su se stessi fino a disanimarsi, altri
ancora che si infliggono ferite, incidendosi la pelle. Se – come scrive Laura
Pigozzi, psicoanalista, musicoterapeuta e insegnante di canto, nel suo Adolescenza
zero. Hikikomori, cutters, ADHD e la crescita negata, Edizione Nottetempo, pag.
256, euro 17) – «ogni adolescente è un migrante per definizione, è colui che
migra dallo stato infantile a quello adulto», oggi questa migrazione appare
sempre più sfibrata, insidiata, minacciata. E quel «passaggio mortale», nel
quale il bambino depone il suo corpo per diventare adulto, rischia di non avvenire.
In Adolescenza
zero scrive che il «bambino è il sintomo della sua famiglia». Cosa ci
racconta il disagio dei ragazzi? Che tipo di dinamiche familiari testimonia?
Oggi la famiglia è
interessata da una mutazione genetica. Dentro questo riassetto, i ruoli
genitoriali sono evaporati. Non ci sono più adulti, l’intero nucleo familiare
si è infantilizzato. Per seguire i figli, i genitori stanno rinunciando al loro
ruolo di guida. Non solo. L’asse della famiglia si è drammaticamente
spostato: dalla coppia madre-padre a quella madre-figlio. Il risultato è che il
padre viene sempre più marginalizzato, estromesso dall’educazione dei figli. E
quella del «padre materno» è una stortura che conferma, anziché contestarla,
questa mutazione.
Leggendo la
geografia del disagio giovanile che lei traccia, si ha la sensazione di essere
davanti al fallimento delle due agenzie educative che dovrebbero incaricarsi
della cura dei ragazzi: scuola e famiglia. Sono due crisi intrecciate? Una è lo
specchio dell’altra?
La famiglia si sta
trasformando in un’agenzia di protezione. Come tale deborda, invadendo lo
spazio della scuola. La famiglia pretende di annettersi il campo educativo.
Sono sempre più frequenti i casi dei genitori che contestano gli insegnanti,
entrando nel merito dei contenuti scolastici. Un’invasione che non si riesce a
contenere perché la scuola non può permettersi di perdere alunni e, per non
perdere alunni, deve accaparrarsi i genitori, tenerseli stretti. È una logica
mercantile. Il risultato è che la scuola subisce la stesso processo della
famiglia: si infantilizza. Ma offrendo ai ragazzi una protezione continua, viene
preclusa loro ogni possibilità di crescita. È quella che chiamo «la pedagogia
della protezione». Siamo impegnanti in un’opera di soccorso continua e
pervasiva. I ragazzi così non solo non corrono e, se corrono, corrono con le
stampelle, ma faticano anche a camminare. È un pericolo grave che minaccia il
futuro. È una crisi anche più grave di quella ambientale.
Questa adesività
dei genitori al corpo dei figli come si spiega? È una conseguenza dell’eclissi
della famiglia tradizionale?
Il benessere dei
genitori dipende oggi dal consenso dei figli. Siamo diventati dei vampiri: ci
nutriamo del loro benessere, lo assorbiamo, lo prelogicatendiamo. Questo
fenomeno non riguarda solo le famiglie monoparentali, nelle quali un
solo genitore “amministra” la legge. Ma anche nelle famiglie più
numerose la regola spesso non cambia. È un genitore, e uno solo,
a dettare legge: la madre. È il plusmaterno. Ma il plusmaterno non è
il trionfo della maternità ma la sua sconfitta. È un eccesso di materno che
si traduce nel suo fallimento. Perché, ricordiamolo, la finalità
ultima del materno è gestire l’assenza, la propria. Un figlio non
nasce per soddisfare i nostri bisogni, la sua vocazione non è quella di
gratificarci ma quella di diventare adulto.La sua vocazione è esplorare,
sperimentare il
nuovo, cadere, farsi male, rialzarsi, inventare, congedarsi dai genitori,
aprirsi al mondo.
Oggi i ragazzi
sono soffocati dalle cose. Questa iper presenza delle cose non rischia di
uccidere il desiderio?
Il soddisfacimento
ottunde il pensiero. Il desiderio nasce, invece, dalla mancanza, dal vuoto,
dalla fatto che manca qualcosa. Ma l’ansia di controllo dei genitori tende a
riempire i ragazzi di oggetti. Si tratta di un’acquiescenza al sistema
capitalistico e alla sua dell’eccesso.
La ribellione dei
ragazzi ci spiazza. È come se noi adulti non sapessimo accettarla, vogliamo che
tutto sia levigato, morbido, piatto. La rimozione del conflitto cosa ci dice?
Oggi gli adolescenti
sono sempre più mimetici. Non confliggono più con i genitori, ma con se stessi.
I sintomi di cui sono portatori preferiamo ignorarli. Se un ragazzo va male a
scuola ci sta dicendo qualcosa. Il dislessico ci sta dicendo che nella sua
famiglia esiste un disordine. Non stiamo più insegnando ai nostri ragazzi come
si litiga. Nelle famiglia il conflitto è azzerato. Ma se il conflitto viene
rimosso, esso riemerge come distruttività. Stiamo capovolgendo la storia del
mondo che è una ininterrotta storia di conflitti tra le generazioni. Si cresce
opponendosi. Non potendo più opporsi, i ragazzi configgono con se stessi. È
impressionante la distruttività che portano dentro e che spesso si scarica
sugli oggetti, sulle cose, perché manca un bersaglio vero.
Nel suo libro
scrive che è in atto una sorta di psichiatrizzazione dell’infanzia. Tutto
quello che fuoriesce dalla norma, viene ascritto al patologico. Come si spiega
questo fenomeno?
Siamo dinanzi a una
medicalizzazione torva: a un disagio si risponde con un farmaco. Se il sintomo
parla, con il farmaco non lo si ascolta, lo si zittisce. Stiamo tornando a
essere dei barbari: nel Rinascimento l’uomo era al centro delle dinamiche
sociali, era generativo, creativo, oggi invece stiamo retrocedendo a una sorta
di uomo-macchina deresponsabilizzato che, si pensa, possa essere riparato solo
con il farmaco. E purtroppo questo assunto sta conquistando l’infanzia. Curare
i sintomi dei bambini con gli psicofarmaci significa una cosa sola: non aver
capito niente dell’infanzia. Significa non riconoscere due cose
incontrovertibili. Primo: la struttura psichica dei bambini non è rigida od
ossificata, ma fluida, in continua formazione. Secondo: significa non
riconoscere al bambino, e all’essere umano in generale, la capacità di
auto-ripararsi. Ecco la grande differenza tra il metodo farmacologico, oggi
imperante, e quello praticato nella psicoanalisi. La psicanalisi chiede
all’individuo quale sia la sua responsabilità. Perché è nella responsabilità
che si diventa adulti.
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