Intervista
a Nicola Incampo, direttore dell’Ufficio Scuola della diocesi di Tricarico
(Matera) ed esperto dell’Ufficio Nazionale IRC della CEI.
di Rocco Gumina
In una società sempre più
plurale dal punto di vista culturale e religioso, perché l’insegnamento della
religione cattolica è ancora attuale per la scuola e la società italiane?
L’Accordo di revisione del Concordato, sancito con legge 121 del 25
marzo 1985 nell’articolo 9.2 stabilisce, a mio avviso, una continuità ed un
orientamento nuovo, quando dice: “La Repubblica italiana, riconoscendo il
valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo
fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad
assicurare nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della
religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e
grado”.
Più che evidente la continuità con il passato, ma anche da evidenziare
il nuovo assetto dell’IRC che viene messo in relazione non con l’istruzione
pubblica, ma con il patrimonio culturale del popolo italiano e sempre in
rapporto con le finalità della scuola. Sono due le sottolineature che vanno
bene evidenziate: da una parte per chiarire le caratteristiche di un
insegnamento che si inserisce nella formazione culturale dell’alunno e
dall’altra per distinguere l’IRC dalla catechesi che ha come finalità di
formare il credente.
Ma valore culturale del cattolicesimo non significa insegnamento
dimezzato o di un generico cattolicesimo che non conosca i suoi aspetti
caratteristici e individualizzanti, ma conoscenza precisa nella sua interezza,
che comprende fonti, contenuti della fede, aspetti di vita, espressioni di
culto e quant’altro è necessario per apprenderlo. Il tutto orientato alle
finalità scolastiche che sono di conoscenze di quella specifica cultura
italiana, e oggi dovremmo dire europea ed occidentale, che non è possibile
spiegare e conoscere in tutte le sue forme (letteratura, arte, musica …) senza
il cattolicesimo.
– Si tratta di un insegnamento presente, con modalità differenti,
dall’Unità d’Italia in poi. Come si è giunti all’attuale “ora di religione”?
Vorrei ricordare a chi ci legge che la legge Casati del 13 agosto 1859
prevedeva che l’Insegnamento religioso fosse obbligatorio nei diversi gradi
scolastici con modalità diversificate. Era la prima materia, impartita dal
maestro e verificata ogni sei mesi dal parroco del paese. Il 29 settembre 1870,
il ministro Correnti capovolge i disposti della legge Casati: Insegnamento
Religioso non più obbligatorio, ma facoltativo. Con la Riforma Gentile,
l’insegnamento diviene obbligatorio e definito “Fondamento e coronamento
dell’istruzione elementare” (Cfr. art. 3).
Nel 1984 avviene la firma del nuovo Accordo tra Casaroli e Craxi. Nel
rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei
genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non
avvalersi di detto insegnamento. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro
genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell’autorità scolastica,
senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.
– Per quali motivi, in una sua pubblicazione di qualche anno fa,
definisce l’insegnante di religione cattolica come un mediatore culturale a
servizio della scuola?
Quando si parla dell’insegnante di religione cattolica (IdR) è bene
chiedersi innanzitutto chi è. Egli è un insegnante con un doppio mandato: uno
statale e l’altro ecclesiale e, in tal senso, è un vero e proprio
“mediatore culturale”. L’IdR è insieme mediatore della tradizione
culturale italiana e della tradizione culturale cristiana, con specifico
riferimento a quella cattolica. Infatti mediatore significa “mettersi in
mezzo”, “fare da ponte”, “porsi tra…”.
L’IdR dunque, come mediatore, è colui che, come ogni altro insegnante,
si frappone tra la sua disciplina e gli alunni per lasciare un segno, nella
piena consapevolezza, come ha affermato Benedetto XVI nel 2009 al Meeting degli
insegnanti di religione, che “la dimensione religiosa non è una sovrastruttura;
essa è parte integrante della persona, sin dalla primissima infanzia; è apertura
fondamentale all’alterità e al mistero che presiede ogni relazione ed ogni
incontro tra gli esseri umani”.
Pertanto l’insegnante di religione, oltre al dovere della competenza
professionale, è anche colui “che è chiamato a manifestare e a portare un segno
speciale”, il segno della bellezza che salva il mondo: Gesù Cristo, colui che
rende l’uomo più uomo.
– Cosa stabilisce, per gli insegnanti di religione cattolica, il
recente decreto scuola approvato dal parlamento? A suo parere, hanno ragione
gli insegnanti di religione cattolica – da molti anni precari – a preoccuparsi
per l’indizione di una tipologia concorsuale come quella prevista dall’articolo
1 bis del decreto?
Io dico no a questo decreto, per difendere il valore dell’idoneità! La
norma approvata dal Parlamento non tiene conto del valore dell’idoneità.
L’idoneità è abilitazione. Questo significa che la norma non ha tenuto conto
che questi insegnanti sono “abilitati”, e quindi devono svolgere un concorso da
abilitati. Non riconoscendo l’idoneità io incomincio a vedere il pericolo di
trasformare Religione Cattolica in Storia delle religioni.
– Secondo lei, oltre che per la scuola, gli insegnanti di religione
cattolica possono essere una valida risorsa culturale, pastorale e missionaria
per la Chiesa italiana? Per quali motivi?
Certamente! Compito fondamentale e primario dell’insegnante è quello
di educare, essere cioè “maestro di umanità”. Il termine “educazione”, infatti,
ha una duplice radice, deriva da due verbi latini: educare che significa
“nutrire”, ossia dare all'allievo ciò che gli manca e di cui ha bisogno per
vivere; educere che significa “tirar fuori”, ovvero far emergere ciò che è già
presente nell’intimo di ogni alunno.
Questi atteggiamenti educativi – nutrire e tirar fuori – mettono al
centro l’umanità dell’educando, un essere unico e irripetibile, bisognoso di
“attenzioni e cure” per la sua crescita. Quindi, porsi in tale prospettiva
significa essere docenti che davvero hanno la consapevolezza di “insegnare per
educare”, cioè che sanno voler bene agli alunni, che desiderano far crescere
gli alunni, che mirano a rendere gli alunni più umani.
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