Un
piccolo libro di Chiara Guidi, regista e attrice, insegna che la grana dei
suoni che produciamo, l’individuarla, il ricalibrarla, il rimetterla in asse,
ci dà pace.
di LISA GINZBURG
Impadronirsi della propria voce,
conoscerla a fondo per modularla con destrezza, è tutt’altro che scontato. Comporta
un lavoro di scavo interiore, sino al punto in cui dal timbro della nostra voce
trapeli e divenga visibile (udibile) chi veramente siamo – i risvolti della
nostra personalità, i più vibranti e segreti. Vidi anni fa Giving voices, un
documentario su un metodo di lavoro sulla voce condotto dall’americana Kristin
Linklater sull’isola di Stromboli, con un gruppo di attori di teatro impegnati
nelle prove di una messa in scena delle Metamorfosi di Ovidio.
Colpiva il trasfigurarsi di
quegli attori, vedere come la loro ricerca di una maggiore libertà
nell’espressività vocale li stremasse, con il risultato di trasportarli verso
una maggiore interezza nel lavoro; erano infine, dopo quelle pergrinazioni
sonore, per davvero vicini a se stessi, e perciò molto più efficaci nelle loro
interpretazioni. «Non passa giorno, o quasi, che io non riceva una qualche
rivelazione, piccola o grande, sulla complessità, la resilienza e il mistero
dell’esperienza umana e il suo riflettersi nella voce», Christine Linklater
dichiarava nel suo La voce naturale (Elliot 2008). Sul tema ora scrive un
intenso, piccolo libro Chiara
Guidi ( La voce in una foresta di immagini invisibili; nottetempo, pagine 80,
euro 20,00).
Guidi è stata cofondatrice del
gruppo teatrale Societas Raffaello Sanzio; è regista e attrice. Come già la
Linklater, lei anche esplora l’universo sonoro a partire dal medesimo paradosso:
impossessarsi della propria voce per davvero (del suo timbro, in ogni fibra
sonora) passa per un processo di distanziamento e di oggettivazione del suo
suono. L’epifania della sua indagine, Guidi la data a un momento nel corso di
uno spettacolo, quando in scena ha potuto “vedere” la propria voce – osservarla
come tutt’a un tratto si staccasse da lei, per muoversi e da sola camminare sul
palco. Dice della necessità di ogni voce di «liberarsi del peso delle parole».
Racconta di quante voci esistano in una sola – come nella sua vita di attrice
lei dentro sé ne abbia incontrate diverse, soavi o malvagie, carezzevoli o
graffianti, dolcissime o feroci. Poiché usare la voce è anche mettersi dal lato
di chi ascolta, immagina cosa sia l’udire sonorità umane per gli animali –
qualcosa di non troppo diverso dalle percezioni sonore che un feto ha nel
grembo materno. Scrive e riflette su quanto per un attore contino le visioni
della mente, le stesse che poi lo rendono capace con le parole di «far vedere»
ciò che lui stesso si è figurato.
Concentrata, precisa, così Chiara
Guidi sta in ascolto della «presenza sonora delle cose»; e il suo libro è un
piccolo trattato di meditazione, una riflessione sul rumore del mondo e sulla
sua decisiva controparte, il silenzio. Quel vuoto di parole capace a sua volta
di lasciare intorno a sé «scie sonore». Ogni voce è il suo silenzio, ogni
intonazione implica contatto con qualcosa di se stessi, prima ancora che con il
senso dei suoni. Nella babele da cui tante volte ci sentiamo assordati, un
piccolo libro come questo, con la sua densità, nutre e rassicura.
Proprio come il silenzio. La
grana della nostra voce, individuarla, ricalibrarla, rimetterla in asse, dà
pace.
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