venerdì 5 maggio 2017

PARTECIPAZIONE, INCLUSIONE, INTEGRAZIONE per una società partecipativa

           
La Pontificia Accademia delle Scienze Sociali 
ha svolto la sua sessione Plenaria nei giorni 28 aprile – 2 maggio 2017 sul tema “Verso una società partecipativa: nuove strade per l’integrazione sociale e culturale”. Papa Francesco ha inviato uno speciale messaggio, datato 24 aprile e pubblicato sull’Osservatore Romano il giorno 29 aprile, che ha fatto da sfondo e da linea-guida dei lavori.
I partecipanti alla Plenaria hanno affrontato il tema della società partecipativa definendo innanzitutto i concetti di partecipazione, lotta all’esclusione e integrazione sociale e culturale, per poi prendere in considerazione i fenomeni empirici, le loro cause e le possibili soluzioni. Si tratta di concetti e di processi multidimensionali non identici fra loro e tuttavia connessi in vari modi.
La partecipazione può essere istituzionale o spontanea. La esclusione può essere attiva (voluta, come nel caso delle discriminazioni in base alla etnia o alla religione) o passiva (dovuta a cause non intenzionali, come una forte crisi economica). In entrambi i casi essa è il frutto di processi che sono stati analizzati nei loro meccanismi generativi, dato che l’integrazione sociale e culturale è il frutto della modificazione di questi meccanismi, che sono economici, sociali, culturali e politici. Lo scopo di includere le persone e le comunità nella società non può essere perseguito con misure forzate o in maniera standardizzata (per esempio con sistemi scolastici che non tengono conto delle differenze culturali e delle culture locali). Una reale partecipazione sociale è possibile solo a condizione che vi sia libertà religiosa.
I lavori hanno messo in luce la preoccupazione per il diffondersi della frammentazione sociale da un lato e della concomitante incapacità dei sistemi politici di governare la società. Questi due fenomeni si vanno diffondendo in tanti Paesi e creano situazioni di forte disintegrazione sociale, in cui diventa sempre più difficile realizzare forme di partecipazione sociale ispirate a principi di giustizia, solidarietà e fraternità.
Le cause di queste tendenze disgregative che operano contro una società più partecipativa sono state individuate nella crisi della rappresentanza politica, nelle crescenti disuguaglianze sociali, negli squilibri demografici a livello planetario, le crescenti migrazioni e il numero elevato di rifugiati, il ruolo ambivalente delle tecnologie dell’informazione e comunicazione, nei conflitti religiosi e culturali.
 Certamente il fattore più significativo che opera contro la partecipazione sociale è la crescente disuguaglianza sociale fra ristrette élites e la massa della popolazione. Le statistiche sulla distribuzione della ricchezza e delle opportunità di vita indicano degli enormi divari fra paesi e paesi e interni ai vari paesi. Preoccupa in particolare il fatto che in Europa e America la classe media si sia notevolmente indebolita, diversamente da altri paesi come l’India e la Cina dove la classe media si è rafforzata. Si deve infatti considerare che, laddove la classe media subisce dei tracolli, la democrazia partecipativa è messa in pericolo.
Nonostante tutto ciò, è possibile operare per una migliore ‘società partecipativa’ qualora si riesca ad instaurare una vera cooperazione sussidiaria fra un sistema politico che si renda sensibile alla voce di chi non è rappresentato, una economia civilizzata e forme associative di società civile basate su reti di reciprocità. Occorre rendere circolari le forme di partecipazione top-down a bottom-up, valorizzando le realtà intermedie basate sul principio di collegialità.
In sostanza, una società partecipativa è quella che afferma e promuove i diritti umani, nella consapevolezza che la legislazione sui diritti umani non può realizzare alcun progetto utopico di trasformazione sociale, ma solo creare le condizioni positive entro cui le persone e i gruppi possono agire in modo etico, cioè avere le opportunità per dedicarsi al bene reciproco l’uno dell’altro nella comunità, e sviluppare nuove iniziative sociali generative di maggiore inclusione sociale. 

giovedì 4 maggio 2017

L’INCLUSIONE NON È UN’IDEOLOGIA NEFASTA


Promozioni e bocciature, cosa c’è veramente in gioco

di Roberto Carnero

Ma davvero la rovina della scuola italiana è l’«ideologia dell’inclusione»? Lo ha sostenuto, con robusta convinzione, Ernesto Galli della Loggia sul 'Corriere della Sera' di sabato 29 aprile, in un articolo in cui ha scritto che una delle massime iatture del nostro sistema di istruzione è la tendenza a promuovere più che a bocciare.
Chi nella scuola lavora e vive quotidianamente la fatica di un mestiere certamente difficile, ma sempre positivamente sfidante, sa che uno dei suoi compiti principali è quello di trovare le strade per portare gli studenti, ogni studente, al traguardo, alla meta, cioè al raggiungimento degli obiettivi che si sono fissati in sede di programmazione. La scuola italiana negli ultimi anni ha fatto molti passi avanti in questo senso. Gli insegnanti hanno capito che per il successo della propria azione formativa è necessario mettere al centro non tanto i 'programmi' quanto i ragazzi. E chi li conosce, i ragazzi, sa che non ce n’è uno uguale a un altro. Come del resto accade con gli adulti: ma nell’infanzia e nell’adolescenza con dosi di fragilità per forza di cose maggiori.
Una classe scolastica - ha scritto lo psichiatra Vittorino Andreoli - dovrebbe essere concepita come un’orchestra musicale, in cui ciascun membro suona il proprio strumento, diverso da quello del vicino, ma tutti cooperano alla stessa melodia. Dunque l’inclusione è un’«ideologia» nefasta? O piuttosto è un dovere, una necessità etica prima ancora che 'amministrativa'? Anche perché il contrario dell’inclusione si chiama esclusione. E quest’ultima è la negazione di un vero approccio educativo. Bisogna però capire che cosa significa veramente includere.
Non si tratta certo di dare un lasciapassare indiscriminato a tutti per una promozione d’ufficio all’anno scolastico successivo. Includere vuol dire, al contrario, portare tutti i ragazzi, o quanto meno il maggior numero di ragazzi possibile, ai cosiddetti «obiettivi minimi», raggiunti i quali si è in grado di seguire con profitto il successivo anno di corso. Ma questo può essere fatto, quando la situazione del ragazzo lo richieda, anche attraverso percorsi differenziati. Per arrivare a Roma, si possono prendere strade diverse: l’autostrada del Sole, la Via Aurelia, la statale o la provinciale, magari anche, a piedi, un pezzo della Via Francigena. Ma è sempre a Roma che arriviamo, sebbene magari un po’ dopo.
Forse l’unica forma di esclusione che potremmo accettare a scuola è l’autoesclusione, quella cioè di che decide di non impegnarsi, di non studiare, di non aderire al patto educativo. Ma dico 'forse' e uso il condizionale perché anche in questo caso, prima di pronunciare la 'sentenza definitiva', abbiamo sempre il dovere, come docenti, di approfondire le cause di simili atteggiamenti. Non per una forma di giustificazionismo o di buonismo a tutti i costi, ma perché oggi la scuola è chiamata a farsi carico della complessità del mondo che la circonda. Sono finiti - che ci piaccia o no - i tempi di un arroccamento autoreferenziale in cui l’istituzione scolastica faceva parte per se stessa. Quando si parla di scuola, sono tra quanti non amano molto il concetto di 'selezione', poiché esso presuppone a priori che ci debba essere una certa quota la quale debba rimanere esclusa. Mi vedo anch’io come un educatore più che come il responsabile di un ufficio del personale chiamato a 'scegliere' alcuni a scapito di altri.
Preferisco che si parli, questo sì, di serietà e di autorevolezza. Perché la mia professionalità consiste anche nella capacità di farmi carico delle problematiche dei ragazzi che mi sono stati affidati. Solo a questo punto posso, in coscienza, anche decidere con i miei colleghi, per quanto possa essere una decisione difficile e in alcuni casi persino dolorosa, di non ammettere uno studente alla classe successiva.
Perché è vero - questo sì - che una scuola che manda avanti tutti in modo indiscriminato per una sorta di accomodante lassismo sarebbe una scuola non autenticamente democratica, in quanto, a cascata, non farebbe altro che determinare il perpetuarsi delle sperequazioni sociali. Ma ciò non è quanto accade oggi nella scuola che conosco.
Posso assicurarlo, come posso assicurare a Galli della Loggia e quanti ragionano come lui, che per avere un’istruzione di ottimo livello non serve mandare i figli alle scuole straniere o direttamente all’estero.
 Sono anzi convinto - sulla scorta di quanto ho visto personalmente e di quanto hanno documentato tanti miei studenti di ritorno dall’esperienza di un anno di liceo all’estero - che studiare in Italia resti un ottimo investimento.


DIALOGO: AVANZARE INSIEME


Lectio di Enzo Bianchi per la Fondazione Balducci a Firenze su “L’altro come dono”: la condivisione di un percorso in cui il fine «non è il consenso, ma il reciproco progresso»
Il fondatore della Comunità di Bose riflette sull’alterità a partire dal pensiero del padre scolopio: «Amerei scrivere una storia della nostalgia dell’altro lungo tutta la storia umana» Senza contrapposizioni

 di ENZO BIANCHI

«Amerei scrivere una storia della nostalgia dell’altro lungo tutta la storia umana ». È da queste parole di padre Ernesto Balducci che prendo le mosse per riflettere su «L’altro come dono». Nel nostro modo abituale di pensare e di parlare questa nostalgia è assente e ricorriamo troppo sbrigativamente a due categorie contrapposte «noi» e «gli altri». Ma è arduo definire i confini tra queste due entità e, ancor di più, stabilire con certezza chi appartiene all’una o all’altra, in che misura e per quanto tempo. Quando giustapponiamo i due termini, in realtà intraprendiamo un percorso suscettibile di infinite varianti: ci possiamo infatti inoltrare su un ponte gettato tra due mondi, oppure andare a sbattere contro un muro che li separa o ancora ritrovarci su una strada che li mette in comunicazione. Possiamo anche scoprire l’opportunità di un intreccio fecondo dell’insopprimibile connessione che abita noi e loro. Appare evidente allora come per l’essere umano la relazione con gli altri sia una delle modalità di relazione che – assieme a quella con se stesso, con il cosmo e, per chi crede, quella con Dio – gli permettono di costruire la propria identità e di vivere. Chi di noi non si è mai chiesto come percorrere i cammini dell’incontro, della relazione con l’altro, con ogni altro, con ogni volto umano?
In primo luogo occorre riconoscere l’altro nella sua singolarità specifica, riconoscere la sua dignità di essere umano, il valore unico e irripetibile della sua vita, la sua libertà, la sua differenza: è uomo, donna, bambino, vecchio, credente, non credente, ecc. È un essere umano come me, eppure diverso da me, nella sua irriducibile alterità: io per lui (o lei) e lui (o lei) per me! Teoricamente questo riconosci-mento è facile, ma in realtà proprio perché la differenza desta paura, si deve mettere in conto l’esistenza di sentimenti ostili da vincere: in particolare, c’è in noi un’attitudine che ripudia tutto ciò che è lontano da noi per cultura, morale, religione, estetica o costumi. Quando si guarda l’altro solo attraverso il prisma della propria cultura, allora si è facilmente soggetti all’incomprensione e all’intolleranza. Non spetta a me ricordare quanto sia stato decisivo il contributo di padre Balducci a tale proposito, soprattutto nelle opere dell’ultima fase della sua vita: L’uomo planetario e La terra del tramonto.
Bisogna dunque esercitarsi a desiderare di ricevere dall’altro, considerando che i propri modi di essere e di pensare non sono i soli esistenti ma si può accettare di imparare, relativizzando i propri comportamenti. C’è un sano relativismo culturale che significa imparare la cultura degli altri senza misurarla sulla propria: questo atteggiamento è necessario in una relazione di alterità in cui si deve prendere il rischio di esporre la propria identità a ciò che non si è ancora… Se ci sono questi atteggiamenti preliminari, allora diventa possibile mettersi in ascolto: ascolto arduo ma essenziale di una presenza, di una chiamata che esige da ciascuno di noi una risposta, dunque sollecita la nostra responsabilità. Non mi stancherò mai di ripeterlo: l’ascolto non è un momento passivo della comunicazione, ma è un atto creativo che instaura una confidenza quale con-fiducia tra i due ospiti, chi ospita e chi è ospitato. L’ascolto è un sì radicale all’esistenza dell’altro come tale; nell’ascolto le rispettive differenze si contaminano, perdono la loro assolutezza, e quelli che sono limiti all’incontro possono diventare risorse per l’incontro stesso.
Nell’ascolto si arriva progressivamente a porsi un semplice domanda: in verità, chi ospita e chi è ospitato? Ascoltare l’altro non equivale dunque a informarsi su di lui, ma significa aprirsi al racconto che egli fa di sé per giungere a comprendere nuovamente se stessi. E nell’ascolto – lo sappiamo bene per esperienza – occorre rinunciare ai pregiudizi che ci abitano, occorre lottare per farli tacere dentro di noi e a volte addirittura nelle posture fisiche con cui stiamo di fronte all’altro. Siamo inoltre chiamati a nominare e ad affrontare le paure che ci abitano quando entriamo in relazione con l’altro, senza pensare stoltamente di poterle rimuovere o sopprimere, perché altrimenti torneranno in seguito con maggior forza. Quando ci si immette in questo percorso di sospensione del giudizio, ecco che si appresta l’essenziale per guardare all’altro con sym-pátheia: quest’ultima è un atteggiamento che si nutre di un’osservazione partecipe, la quale accetta anche di non capire l’altro e tuttavia tenta di esercitarsi a “sentire-con lui”. In tal modo si comprende che la verità dell’altro ha la stessa legittimità della mia verità. E si faccia attenzione: ciò non equivale a dire che non c’è verità o che tutte le verità si equivalgono. No, ciascuno è legittimato a manifestare la propria verità, ognuno deve impegnarsi con umiltà a confrontarsi e a ricevere la verità che sempre precede ed eccede tutti, pur nella convinzione che la propria verità è quella su cui può essere fondata e trovare senso una vita. Questa “simpatia” decide anche dell’empatia, che non è lo slancio del cuore che ci spinge verso l’altro, bensì la capacità di metterci al posto dell’altro, di comprenderlo dal suo interno: è la manifestazione dell’humanitas dell’ospite e dell’ospitante, è umanità condivisa.
Attraverso queste tappe – mai schematiche, ma sempre da rinnovarsi nel faccia a faccia, mediante un’intelligenza creativa e un amore intelligente – si può giungere al dialogo, autentica esperienza di intercomprensione.
Dia-lógos: parola che si lascia attraversare da una parola altra; intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture, di etiche; cammino di conversione e di comunione; via efficace contro il pregiudizio e, di conseguenza, contro la violenza che nasce da un’aggressività non parlata… È il dialogo che consente di passare non solo attraverso l’espressione di identità e differenze, ma anche attraverso una condivisione dei valori dell’altro, non per farli propri bensì per comprenderli. Dialogare non è annullare le differenze e accettare le convergenze, ma è far vivere le differenze allo stesso titolo delle convergenze: il dialogo non ha come fine il consenso ma un reciproco progresso, un avanzare insieme. Così nel dialogo avviene la contaminazione dei confini, avvengono le traversate nei territori sconosciuti, si aprono strade inesplorate.
Sono le strade che ha percorso Gesù di Nazareth e che ha lasciato ai suoi discepoli come tracce da seguire, facendosi maestro con la sua arte della relazione, la sua volontà di ascoltare e accogliere quanti incontrava sul suo cammino, fino a lasciarsi costruire, edificare da questi rapporti. Possiamo intendere anche in questo senso alcune parole di padre Balducci in una delle sue ultime omelie: «La riconciliazione consiste in uno scambio tale per cui uno non è se stesso se non in quanto si riferisce all’altro.
Questa condizione antropologica piena è il luogo in cui si ritagliano le positive avventure della nostra vita, certamente parziali ma che ci fanno sognare un mondo diverso da questo». Un mondo in cui possa finalmente trovare compimento il desiderio di Gesù, che è la fonte e il culmine di ogni discorso sull’altro come dono: «Voi siete tutti fratelli» ( Mt 23,8).


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mercoledì 3 maggio 2017

ALLA RISCOPERTA DELLE VIRTU' "CAVALLERESCHE"

Il codice virile
Lo psicoterapeuta Marchesini: «Dove sono più i veri uomini?
La nostra è una società irresponsabile, in cui contano solo i “like”.
 Riscopriamo le virtù del cavaliere, di colui che è pronto a dare la vita per il bene degli altri»


Intervista di ANTONIO GIULIANO

Quando il gioco si fa duro, scendono in campo i veri uomini. Ma questa è una società di “mammolette”, tutt’altro che virile. Bombardati da modelli e messaggi effeminati, dell’uomo maschio se ne son perse le tracce. Abbondano invece i fifoni e i “mammoni” e anche il “macho”, il palestrato con tatuaggio, in realtà nasconde una personalità fragile e insicura. È un quadro impietoso ma documentato che Roberto Marchesini, psicologo e psicoterapeuta, ha già fatto emergere in un saggio controcorrente Quello che gli uomini non dicono (Sugarco). Da studioso consapevole della posta in gioco ha pensato bene di rilanciare il tema con un nuovo manuale impavido che punta in alto e fa riscoprire l’orgoglio agli uomini (ma di riflesso anche alle donne) della propria identità di genere: Codice cavalleresco per l’uomo del terzo millennio (Sugarco, pagine 144, euro 12,50).
Maschi si nasce (checché ne dica l’ideologia gender), ma uomini si diventa è il cardine del suo ragionamento. Però abbiamo smarrito la stessa etimologia del termine “uomo”.
«Esatto. Il greco lo definisce con due parole: anthropos e aner. Il primo indica l’essere umano di sesso maschile, il secondo l’uomo pienamente realizzato, l’eroe. Così i latini usavano homo e vir da cui virtus (la virtù) vis (forza) e virilitas (virilità). L’essere umano di sesso maschile nasce homo (o anthropos) e deve diventare vir (o aner) cioè forte, coraggioso, virtuoso. Il dovere connesso al nascere maschio è di diventare uomo, di realizzare quel potenziale donatoci al concepimento di diventare un eroe».
Perché non sentiamo più questo compito?
«L’umanità ha sempre abitato un mondo metafisico, nel quale la realtà non era limitata ai nostri sensi. Ogni donna e ogni uomo sapeva di avere un compito da realizzare, un progetto da compiere, dei ta- lenti da mettere a frutto. Ora viviamo in un mondo in cui non c’è un domani, un orizzonte, un fine: la vita è un eterno presente senza senso. Il problema è che una vita senza significato è, come diceva Viktor Frankl, una vita grigia, vuota, impossibile. E anche la ricerca spasmodica del piacere è una conseguenza dell’impossibilità di vivere una vita senza uno scopo».
A che cosa serve un codice cavalleresco?
«È una guida per l’uomo di oggi per riscoprire se stesso. Un compendio tutto fuorché “buonista”. Il cavaliere non è tale per nascita, ma per virtù, non ha privilegi, ma doveri, che egli accetta liberamente. Il cavaliere è generoso e domina le passioni senza farsi dominare perché le indirizza verso il bene.
È un uomo che teme più la vergogna e il peccato della morte stessa. Anzi sacrificare la propria vita per il bene degli altri è il suo destino, il suo compimento».
Lei ne fa una questione di onore, ma gli adulti oggi sembrano più attratti dai social network.
«L’onore non coincide con la reputazione. L’onore dipende dalle virtù della persona, non da quello che altri pensano di lei. Le due cose non coincidono anzi spesso sono in antitesi. “Guai quando tutti gli uomini diranno bene di voi” dice il Vangelo. E in effetti Gesù che incarnava ogni virtù, non godeva di ottima reputazione. La nostra società senza onore - è basata sulla reputazione. Come dimostra il successo dei social, dove agisce il meccanismo perverso dei “like” o dei “followers”. Di avere cioè l’approvazione degli altri anche se estranei. Ma chi elemosina approvazione da chiunque è generalmente una persona molto insicura».
               In questa crisi del maschio, a farne le spese più di tutti oggi è la figura del padre.
«È il grande assente. E difatti la nostra società, materna, iperprotettiva, ci induce a essere timorosi. È la mamma che dice: “Non farlo, che ti fai male”, “È pericoloso”; è invece il padre che ci incoraggia a rischiare, a osare, a lasciare le sottane materne per prendere il largo nel pericoloso mondo. La vita è rischio e la nostra civiltà è stata costruita da coraggiosi, non da vili. Ma oggi prevale il lamento o l’assicurazione che non si avranno conseguenze. Siamo circondati da persone che vogliono avere rapporti sessuali ma non la gravidanza, vogliono avere figli ma devono essere sicuri che saranno sani e belli. E poi sempre a scaricare la responsabilità sugli altri: “Mio figlio è un bravo ragazzo prendetevela con i veri delinquenti”… Stiamo allevando una società di irresponsabili».
Tra le virtù del codice c’è la lealtà…
«Ormai scomparsa. Basta vedere la crisi del matrimonio. Il tradimento (considerato ormai fisiologico) e il divorzio non sono altro che una rottura del giuramento, una slealtà. “Se le cose vanno male” - si obietta - “perché restare insieme?”. Perché si è promesso e le promesse si fanno per quando le cose vanno male, altrimenti non ci sarebbe bisogno di promettere. Ma si sa la fedeltà ha un prezzo e oggi nessuno è educato a pagare per le proprie scelte».
Perché lo sport è un’ottima palestra di virtù?
«Chi ha fatto sport sa che l’avversario è quello che abbiamo dentro di noi: paure, insicurezze, limiti. Colui che abbiamo davanti ci dà l’occasione di superare le nostre fragilità. Nello sport non importa vincere o perdere, ma come si vince e come si perde. La storia (vera) di Rocky Balboa lo dimostra ».
Un eroe anche del cinema, come Braveheart o Batman…
«Sono modelli. Batman è uno che combatte il crimine a mani nude, e senza uccidere mai nessuno; indossa la maschera non per viltà, ma per proteggere chi gli sta vicino. È il Cavaliere Oscuro. Un cavaliere, perché il suo destino è quello di morire combattendo il male. Oscuro perché non esita a sacrificare la propria reputazione, ad accettare di essere deriso e calunniato per il bene delle persone che gli sono affidate».
Un’arma potente è l’educazione.
«La nostra civiltà è stata costruita sul potere delle storie: dai poemi omerici, alle chanson de geste, alla letteratura per l’infanzia, alle storie della Bibbia. Noi stessi del secolo scorso abbiamo capito cos’era un uomo leggendo Sandokan, Michele Strogoff, L’ultimo dei mohicani ... Ma adesso non raccontiamo più nulla ai ragazzi: gli diamo in mano un tablet, uno smartphone perché non diano fastidio. Riprendere in mano questo patrimonio millenario di storie è la chiave per dare ancora un orizzonte a milioni di uomini e donne».


Tratto da www.avvenire.it



martedì 2 maggio 2017

TATUAGGIO. CHE PASSIONE!

“Mamma, papà, 
voglio farmi un tatuaggio!”


Fenomeno tattoo: sempre più giovani e meno giovani usano tatuarsi il corpo. Quali sono gli effetti che un tatuaggio può avere sulla cute? La pelle tatuata cambia per sempre, cosa spinge dunque una persona ad alterare definitivamente la propria immagine?

di Gabriele Soliani

I tatuaggi sulla pelle del corpo diventano sempre più diffusi, quasi un segnale da mostrare come moda. Ora che arriva l’estate e si abbandonano gli abiti lunghi e coprenti, i tatuaggi risultano in bell’evidenza. Ma non si capisce bene se sono fatti per esaltare la bellezza del corpo o per qualcos’altro.
Un recente sondaggio Usa ha evidenziato che tre adulti su dieci ne ha almeno uno, con le percentuali maggiori fra i Millenials (47%) e i Gen Xers (36%) e un aumento generalizzato del 50% negli ultimi quattro anni.
La cute umana è un vero e proprio organo e svolge molte funzioni, per queste ragioni la scienza medica cerca oggi di studiare il cosiddetto fenomeno tattoo. I risultati delle ricerche mostrano parecchi dubbi e qualche preoccupazione. L’ultimo studio, che è stato pubblicato sull’argomento in ordine di tempo, ha scoperto che i tatuaggi possono alterare il modo in cui la pelle suda aumentando i rischi di un possibile colpo di calore.
I ricercatori dell’Alma College nel Michigan, analizzando i campioni di sudore di 10 adulti in buona salute, hanno notato che la zona di pelle ricoperta d’inchiostro (per l’esperimento si è scelta un’area circolare di almeno 5,2 cm) espelleva circa il 50% di sudore in meno rispetto alla parte priva di tatuaggi. “Dall’esame dei campioni di sudore è anche emerso che quelli rilasciati dalla pelle tatuata avevano una maggior concentrazione di sodio rispetto a quelli presi dalla pelle libera da inchiostro”, ha spiegato al quotidiano Time il professor Maurie Luetkemeier, coautore dello studio. Infatti quando le ghiandole sudoripare producono il sudore, la pelle tende a riassorbire il sodio e gli altri elettroliti, ma nel corso dell’esperimento gli scienziati si sono accorti che in presenza di un tatuaggio tale riassorbimento veniva parzialmente bloccato.
Il prof. Luetkemeier precisa che: “Non siamo ancora sicuri se ciò dipenda dall’inchiostro, dal trauma dell’incisione o da una combinazione di entrambi i fattori”. Quando l’area coperta da inchiostro è piuttosto estesa (e concentrata soprattutto su schiena, braccia o altre zone ricche di ghiandole sudoripare) i tatuaggi potrebbero interferire con la capacità della pelle di raffreddare il corpo e di trattenere alcuni nutrienti fondamentali, dando così origine a problemi di termoregolazione che potrebbero provocare improvvisi (e potenzialmente pericolosi) colpi di calore.
               Il professor Antonino Di Pietro, direttore scientifico dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis di Milano dice che: “Questo studio va considerato con attenzione poiché la pelle tatuata cambia sicuramente le proprie caratteristiche e va incontro a modifiche che non possono banalmente fermarsi a una differenza di colore superficiale. Sia il trauma di un ago che, arrivando nel derma medio profondo, crea migliaia di microcicatrici in pochi centimetri quadrati, sia i granuli di pigmento, che sono corpi estranei che resteranno per sempre tra le cellule cutanee, alterano infatti la struttura cutanea, mettendo a rischio l’equilibrio e la normale vita delle cellule e delle ghiandole della pelle”.
Sappiamo anche che il tatuaggio non sempre si può rimuovere del tutto lasciando cicatrici permanenti. La pelle tatuata dunque cambia per sempre. Perché alterare per sempre un organo del corpo? Perché rovinarlo facendogli cambiare colore e fisiologia? Perché proprio la pelle che è il modo umano di presentarsi agli altri e anche a se stessi quando ci si specchia o ci si guarda?
Dallo studio citato manca, forse perché non era nei suoi fini scientifici, il pericolo di non vedere, nascosto dal pigmento, un neo che cambia colore, contorni e dimensioni, segnale di evoluzione del melanoma, il temibile cancro della cute. Sinceramente è difficile capire i motivi di questa moda così diffusa fra calciatori, cantanti e personaggi televisivi.
Per un genitore che si sente chiedere dal figlio o figlia adolescente: “Voglio farmi un tatuaggio” la motivazione del no potrebbe essere lo studio citato, oltre al fatto che la bellezza, la grandezza e la dignità del corpo va preservata sempre. In termini laici si può dire che il corpo ha una fisiologia meravigliosa e che è destinato a dare la vita ad altre persone. E, anche se i giovani non lo capiscono, si può dire che il corpo è tempio dello Spirito Santo.



lunedì 1 maggio 2017

MONTESSORI: LA LINGUA E' UN TESORO

Il quotidiano Avvenire, nel numero del 28 aprile, pubblica un interessante inedito di Maria Montessori. 
L’educatrice riflette sul valore della parola, «un insieme di suoni con il quale l’essere umano esprime un’idea. E si associa». 
Il linguaggio è parte della storia dell’umanità. Ma chi ne può conservare l’esattezza assoluta? «Certo non sarà una macchina. È il bambino che vive a contatto con la mamma e da lei assimila in modo perfetto la lingua materna»
                                                                                                              
 di MARIA MONTESSORI

Che cosa è il linguaggio umano? In sé è un soffio che suona attraverso degli strumenti musicali, le corde vocali. Queste vibrano e rendono la voce sonora; la voce passa attraverso la bocca come in un tubo risonante. Qualche volta però la bocca prende quella musica e la imprigiona ora tra i denti e la lingua, ora tra le labbra e ne fa uscire fuori suoni spezzettati che articola. Quella musica della voce (vocali) si combina con i suoni determinati tra le varie parti della bocca che perciò consuonano (consonanti): è con tali mezzi che si forma il linguaggio articolato. L’essere umano ha avuto dalla natura il dono di aggiustare questi strumenti in modo da fissare suoni che si possono distinguere l’uno dall’altro. I suoni non sono molti: sono forse venti o trenta. La lingua italiana per esempio si forma effettivamente con ventuno suoni: cinque vocali  - a,e,i,o,u-  e quindi consonanti  - b, c, d, f, g, l, m, n, p, q, r, s, t, v, z  -: (oltre  h che non ha suono).

     Venti suoni distinti, combinati tra loro in tutti i modi possibili, possono fare un numero infinito di gruppi, cioè di unione di suoni che tra loro formano una parola. Se si potessero fissare in uno strumento meccanico venti suoni per combinarli secondo quanto insegna la matematica, col procedimento detto delle “combinazioni e permutazioni”, ne verrebbero fuori milioni e milioni di parole. Secondo Max Müller, il numero di parole che si potrebbero ottenere con ventiquattro lettere sarebbero circa seicentomila quadrilioni (600.000.000.000.000.000.000.000). Ma queste combinazioni di suoni non sarebbero veramente parole. Parola è un insieme di suoni con il quale l’essere umano esprime un’idea. È dunque l’idea, e non la combinazione di suoni, che origina veramente la parola. Perché una parola indichi un’idea, .........

BUON PRIMO MAGGIO !


Buon primo maggio. 
Con l'augurio che tutti possano avere un onesto e dignitoso lavoro
che le potenzialità di ciascuno siano adeguatamente valorizzate e messe al servizio del bene comune, 
che carità, solidarietà e giustizia siano caratteristiche delll'agire delle persone, delle istituzioni e delle nazioni. 

San Giuseppe, patrono dei lavoratori,
 protegga tutti e ci aiuti a fare del nostro meglio.