giovedì 14 febbraio 2019

MILO, IL GATTO CHE NON SAPEVA SALTARE

Un racconto su un felino 
affetto da una malattia grave.
 Un modo per riflettere sulla cultura degli “scarti” oggi molto diffusa anche fra gli umani
C’era una volta un gatto, che non sapeva saltare. Potrebbe essere l’incipit di una favola antica, piena di magia, oppure di un apologo contemporaneo sugli ostacoli della vita e le nostre incapacità (o capacità) di superarli.
Invece è una storia vera, grazie alla quale possiamo imparare molto. Intanto, perché quello che si racconta qui potrebbe accadere a chiunque: incontrare un gattino randagio, e accoglierlo come nostro amico, come parte della famiglia. Può accadere che questo nuovo amico, oltre a essere malandato e debole, non riesca a compiere quelle tipiche azioni che fanno di un felino un predatore: perde l’equilibrio, è incapace di saltare da un mobile all’altro di casa. Insomma, in breve la diagnosi è chiara: è un gatto disabile. La Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare (Guanda, pagine 112, euro 13) che racconta Costanza Rizzacasa D’Orsogna partendo da una sua vicenda personale, ci fa sorridere, ma anche commuovere, e soprattutto ci induce a sbloccare in noi un’emozione che tendiamo a seppellire: l’empatia. Che può nascere anche dalla condivisione di sentimenti dolorosi, di fronte al male che a volte la vita ci riserva, ma che possiamo affrontare meglio se c’è qualcuno accanto a noi. E non è la prima volta che uno scrittore sceglie protagonisti animali per meglio parlare della nostra vita, interiore, sociale e affettiva. È un incontro, quello con la malattia, la problematica fisica, che può avvenire su qualunque piano umano. Può accadere che entri nella nostra vita una persona che non possiede tutte le abilità motorie, le risorse corporee di chi è in perfetta salute. Oppure possiamo sentirci a nostra volta rifiutati, sottovalutati per una nostra vera o presunta incapacità. Ma non per questo dobbiamo fermarci, chiuderci alla vita o credere che il limite ci bloccherà senza rimedio. «Se hai un bimbo disabile, lo butti forse nel cestino?», esclama la protagonista di
Storia di Milo, rispondendo al veterinario che osserva tranquillo come «gattini così solitamente vengono soppressi». Una scelta che, naturalmente la “mamma umana” di Milo non fa, ricevendo in cambio dal micio una quantità di affetto tale da superare qualsiasi difficoltà causata dal male che lo ha colpito. Una malformazione al cervelletto, tecnicamente una “ipoplasia cerebellare”, che gli provoca instabilità e mancanza di equilibrio. Ma che l’empatia e l’amore riescono a curare.
Non solo quello della ragazza che lo ha adottato, ma anche degli amici animali che il destino gli mette davanti. La vera sorpresa di questa storia, infatti, è il punto di vista da cui è raccontata: quello del gattino disabile, che ci mostra il nostro mondo e le sue contraddizioni dalla sua visuale. Per lui non saper saltare non è un problema grave, e se riflette sulla sua discontinua agilità, la considera una risorsa speciale; ascoltando la diagnosi del veterinario, spera che «disabile voglia dire proprio bellissimo e speciale», come gli dice sempre la sua “mamma”. In questo, è aiutato da altri animali con cui dialoga e condivide avventure: un gabbiano, uno scorpione, un riccio, un vecchio gatto randagio, che si rivelano veri campioni di solidarietà, lo incoraggiano a sentirsi speciale e gli insegnano i loro trucchi del mestiere. Anche riguardo al colore del suo manto, completamente nero, il pensiero di una diversità infamante non sfiora Milo: «sono come voi, ho solo la pelliccetta scura», ribatte con energia, dopo gli strani discorsi, per lui incomprensibili, sulla sfortuna legata ai gatti neri. 
Un rovesciamento di prospettiva che potremmo provare almeno una volta: dovremmo pensare ai diversamente abili come a relitti esclusi dalla società e condannati a un’esistenza infelice, oppure come a persone che ci possono dare molto, con il loro amore, e la visuale da cui fanno esperienza? E soprattutto, possiamo pensare di capirli? Forse sanno comprenderci meglio di quanto ci aspettiamo, hanno saputo coltivare l’empatia senza appannarla con i nostri filtri quotidiani. Come Milo e i suoi amici di varie specie, che con l’innocenza, la purezza disarmante che li distingue, sanno molto più di quanto noi stessi crediamo di sapere. «Gli animali capiscono quello che noi diciamo, siamo noi, invece, che spesso non capiamo loro, o non vogliamo»: l’osservazione della protagonista è un invito a varcare il confine di un mondo che non ci è affatto precluso. Scoprendo nuove possibilità di interpretare l’amore, l’amicizia, la solidarietà, ogni tipo di connessione che ci unisce.



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